Ormai sono numerosi i commenti sull’Agenda Monti, ossia, sul Manifesto con il quale il Presidente dimissionario di un governo tecnico ha deciso l’”ascesa politica”, ovviamente, per meglio servire il Paese. Queste prime osservazioni riguardano essenzialmente fondamentali questioni di politica economica e finanziaria nel momento in cui il Paese si trova in una grave recessione economica con riduzione del tenore di vita, dei consumi e, purtroppo, anche degli investimenti pubblici e privati. La priorità assegnata al pareggio di bilancio e l’adozione di una rigorosa politica di austerità per le famiglie con redditi medio-bassi ha prodotto un forte taglio della domanda interna ed un arresto del processo di accumulazione che compromettono le prospettive di ripresa. Si tratta di decisione adottata a livello centrale dell’Eurozona e applicata meccanicisticamente all’interno. Per questo motivo dico che non basta scrivere – come si fa nell’Agenda – che le politiche economiche dei vari Paesi membri sono di interesse comune, che serve il coordinamento, l’orientamento ed il monitoraggio delle medesime. Essendo l’Eurozona un’area molto vasta e composita con economie in diverse fasi congiunturali, con diverse situazioni economico-sociali, con squilibri intersettoriali e territoriali di diversa gravità serve una politica economica molto articolata in grado di affrontare le diverse situazioni che sia diretta da un governo centrale con pienezza di poteri di spesa, di prelievo e di indebitamento. Una politica economica che sappia coniugare le esigenze di una gestione rigorosa delle spese e delle entrate pubbliche con la necessità di salvaguardare la crescita. Come? Rifiutando la politica dei due tempi e applicando la c.d. ‘golden rule’ che nel Titolo V della Costituzione, novellato nel 2001, è chiaramente iscritta al comma 6 dell’art. 119. Questo prevede che i Comuni, le Province, le aree metropolitane e le Regioni possono indebitarsi per finanziare spese di investimento. Come noto, l’applicazione autoritaria (topo down) del Patto di stabilità interno nell’anno passato e in quelli precedenti ha impedito agli enti sub-centrali (anche a quelli virtuosi) di avvalersi di detta norma.
E questa è la prima considerazione. La seconda correlata alla prima riguarda l’affermazione secondo cui “la crescita non nasce dal debito pubblico e si può costruire solo su una finanza pubblica sana”. Qui il prof. Monti sembra sposare la visione etica del debito pubblico propria della Cancelliera Merkel: il debito è colpa e questa va espiata facendo soffrire inutilmente le gente, soprattutto, quella più debole. Il debito di per se non è bene né male. Dipende dall’uso che se ne fa. Famiglie, imprese e anche l’operatore pubblico possono indebitarsi per finanziare consumi superflui che altrimenti non potrebbero permettersi oppure per espandere la loro capacità produttiva. In questo secondo caso che è quello più ricorrente in generale ma in particolare nel caso italiano, dove le imprese negli ultimi decenni non hanno evidenziato i gravi problemi di indebitamento degli anni ’70 e ’80, dove le famiglie mantengono una propensione al risparmio relativamente più alta che in altri Paesi occidentali non si capisce che senso abbia bloccare l’accumulazione del paese e comprometterne le prospettive di crescita. Non si capisce come si possano avere finanze pubbliche sane ai vari livelli se non si rimette in moto la crescita economica che è condizione imprescindibile non per pareggiare ragionieristicamente i conti pubblici ma per rendere sostenibile il debito pubblico qualunque sia il livello attualmente raggiunto – anche per responsabilità di questo governo dimissionario. Ricordo che il Giappone gestisce un debito del 225% e non è fallito. Ricordo che ripescare l’obiettivo del 60% a suo tempo indicato nei parametri di Maastricht era semplicemente la media dei paesi europei più virtuosi nella seconda metà degli anni ’80 e che adesso non ha senso se, per effetto della crisi, la stessa media si avvicina ormai al 90%. Vogliamo fare sempre i primi della classe a parole?
La terza considerazione riguarda la spending review. Secondo il prof. Monti essa non vuol dire solo “meno spesa ma migliore spesa”. L’affermazione potrebbe essere accettata se si trattasse di vera spending review, ma non è stato così nell’anno passato, non sarà così nel 2013 e non sarà così se non indicano almeno due modifiche sostanziali. I tagli orizzontali sono mirati a risparmiare e basta. Tagliano i fondi alle gestioni virtuose e a quelle inefficienti. E quindi determinano iniquità senza migliorare l’efficienza. Le proteste che sono in corso nel Paese non sono tutte strumentalizzazioni dei lavoratori dei Comitati unitari di base e/o della sinistra radicale. Evidenziano un problema reale. Oso dire che la spending review dovrebbe in alcuni casi – e nella realtà ci sono – portare a maggiore spesa quando la revisione ha verificato che i fondi a disposizione sono stati utilizzati al meglio e, tuttavia, essi sono ancora ben al disotto dei fabbisogni standard, ossia, delle necessità attentamente verificate. Come è assurdo pensare che l’efficienza possa essere migliorata a parità di risorse disponibili o addirittura riducendole. Infine se si vuole veramente superare la logica dei tagli orizzontali, il prof. Monti dovrebbe capire, una volta per tutte, che la revisione della spesa non è roba dei ministri di un governo tecnico né politico né di un commissario esterno. Bisogna coinvolgere l’alta dirigenza ai vari livelli e controllarla con adeguati servizi ispettivi. Solo i manager pubblici sanno dove sono le sacche di inefficienza ma se anche essi non vengono attentamente valutati non hanno interesse ad eliminarle. Concordo sulla considerazione secondo cui “la spending review richiede tempo ed un approccio sistematico e continuativo”. Ma questa è una ovvietà e non serve a nulla se non ad allungare l’elenco dei problemi che il suo governo tecnico non ha affrontato.
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