È stato raggiunto l’accordo tra le istituzioni europee e la Grecia . L’accordo è stato approvato dal Parlamento greco la notte del 15 u.s.. Il 17 luglio l’accordo è stato “ratificato” anche dal Parlamento tedesco. Nei giorni scorsi si sono succeduti una serie di valutazioni negative sulla bontà di detto accordo imposto alla Grecia dai falchi del Consiglio europeo. Grazie all’azione congiunta degli Stati Uniti e della Francia, fiancheggiati anche dall’Italia e dall’Austria, è stata sconfitta la proposta dei falchi tedeschi che volevano la Grecia fuori dalla zona euro. Tale azione, subito dopo, si è tradotta soprattutto nella chiara presa di posizione del FMI secondo cui è comunque necessario un taglio sostanziale del debito greco perché esso possa avere una qualche probabilità di diventare sostenibile. In pratica, solo dopo avere firmato l’accordo capestro, il governo greco – fin qui sulla carta – ha ottenuto quello che aveva chiesto precedentemente.
Apprezzo molto la presa di posizione del FMI, ora appoggiata anche dalla BCE, ma la mia tesi è che, con o senza il taglio, il residuo debito greco resta insostenibile se con altre misure (anche di necessarie riforme dei Trattati) non si riesce a rilanciare la crescita economica in Grecia – come del resto in Italia – in modo sostenuto e sostenibile. Cito solo la Grecia e l’Italia perché questi due paesi membri (d’ora in poi: PM) dell’eurozona hanno il primo e secondo posto per la dimensione del debito pubblico, ma ci sono altre situazioni analoghe.
In teoria, infatti, non c’è un limite assoluto al debito pubblico – come dimostra il caso del Giappone – se le risorse raccolte con l’indebitamento vengono utilizzate per migliorare l’efficienza allocativa e la produttività del fattori (capitale e lavoro). Inoltre il vero vincolo stupido dei Trattati (Maastricht, Fiscal Compact e Regolamenti annessi e connessi) non riguarda nello specifico il debito pubblico. Riguarda il deficit corrente che impropriamente contabilizza anche le spese in conto capitale. In realtà nel Trattato di Maastricht, per il debito c’è anche il vincolo del 60% individuato come media dei PM virtuosi sul finire degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta del secolo scorso. Tale vincolo ormai è superato dalla nuova media che si colloca al 92,5% del PIL ma il problema è che la dinamica del debito viene governata attraverso il contenimento del deficit corrente aggiustato per il ciclo e l’output gap. In modo molto semplificato, chiarisco che l’output gap è la differenza tra il tasso di crescita effettiva di un’economia e la crescita potenziale che si potrebbe realizzare se tutti i fattori produttivi fossero appropriatamente e pienamente utilizzati alla produttività data. L’output gap viene utilizzato come variabile strumentale per aumentare o ridurre la flessibilità rispetto all’obbligo di rispettare il vincolo del 3% sul deficit c.d. strutturale. In pratica, più alto è l’output gap e maggiore è la flessibilità che la famigerata Troika può dare ai PM in difficoltà. Senonché , secondo le regole del Fiscal Compact, del Two Pack e del Six Pack, per i PM in difficoltà si determina un circolo vizioso, per cui l’output gap si riduce nei limiti in cui il paese non può fare investimenti per via delle regole del Fiscal Compact, mentre esso si allarga per i paesi che hanno margini per aumentare gli investimenti, l’efficienza e la produttività. A parte le differenze statistiche che emergono nei calcoli delle diverse variabili in gioco nel definire il deficit strutturale aggiustato, i moltiplicatori e quant’altro, dette regole stanno mostrando la corda e, se applicate in maniera rigida, portano più ad una divaricazione crescente che alla convergenza delle economie dei PM: quelli più virtuosi diventano sempre più efficienti mentre quelli in ritardo vedono aumentare le distanze dai primi. Per questi motivi, il vero problema della Grecia e dell’Italia non è austerità si o austerità no. In primo luogo, bisogna battersi per la modifica delle regole che devono consentire la c.d. Golden rule, ossia, la non contabilizzazione nel deficit corrente e/o strutturale degli investimenti in conto capitale. Questo consentirebbe di mantenere l’austerità ossia le gestione più rigorosa solo per la spesa pubblica corrente (anche attraverso una seria spending review) e permetterebbe ai governi di indebitarsi per sostenere la crescita. Solo in questo modo sarebbe maggiormente fattibile risanare i conti pubblici senza compromettere il processo di accumulazione salvaguardando in questo modo correttamente gli interessi delle future generazioni.
Oltre quaranta anni di tentativi ci dicono che l’Italia non è riuscita a fare una serie revisione della spesa e sono prevalsi in fatto i c.d. tagli lineari che non migliorano l’efficienza allocativa complessiva. Figuriamoci la Grecia che negli ultimi due decenni sembra avere utilizzato la spesa corrente per sostenere l’occupazione nel settore pubblico e la domanda interna . Negli ultimi anni l’Italia ha rispettato in media il vincolo del 3% ma sacrificando la crescita del reddito e aggravando la situazione dell’occupazione.
E veniamo ai problemi dell’economia reale. C’è un punto fondamentale connesso al discorso sull’Unione economica e monetaria su cui si è molto discettato nelle ultime settimane senza cogliere un aspetto molto critico dell’attuale meccanismo di sviluppo. Si è detto che né la Grecia né l’Italia avrebbero dovuto aderire alla moneta unica perché le loro strutture economiche erano troppo squilibrate. Alcuni commentatori non si rendono conto che se per costruire una moneta unica si dovessero preventivamente armonizzare le strutture economiche una moneta comune non nascerebbe mai. Singolare la storia del dollaro la cui circolazione viene fatta risalire al 1690 prima della rivoluzione americana e poi autorizzata dal Congresso continentale il 6 luglio 1785, prima che fosse approvata nel 1787 la Costituzione degli Stati Uniti. In contesti sovranazionali, lo scopo fondamentale di una moneta comune è quello di facilitare il commercio interstatale e la circolazione delle persone. La Francia, l’Inghilterra, l’Italia e la Germania non sarebbero state mai unificate né politicamente né monetariamente se avessero dovuto superare preliminarmente gli squilibri economici tra le diverse regioni. Si è citata al riguardo la teoria dell’ottima area valutaria che è analoga al modello della concorrenza perfetta, senza rendersi conto che dette teorie sono, in ultima analisi, modelli per pensare. Questi servono per valutare quanto il reale funzionamento dei sistemi economici concreti si allontani da certi modelli teorici – supposto che questi ultimi non siano del tutto astratti e/o inadatti a cogliere la complessità del reale. Il modello dell’ottima area valutaria prevede un sistema di trasferimenti ma la Germania e la stragrande maggioranza dei PM che la seguono non vogliono massicci trasferimenti né di tipo solidale né compensativo. E quelli che ci sono già sono insufficienti.
È un fatto che all’interno di un singolo paese, di una vasta area integrata, oggi dell’economia globalizzata, i capitali affluiscono nelle zone centrali dove i rendimenti sono più sicuri e in media maggiormente produttivi. Lo spread tra il titolo decennale tedesco e gli analoghi titoli dei PM euromediterranei consente alla Germania finanziamenti abbondanti e a bassi tassi di interesse; viceversa è vero per i paesi periferici in cui i rischi sono più alti e la produttività di norma è più bassa. Ma i rischi più alti implicano interessi più alti e, quindi, una riduzione degli investimenti che si possono finanziare. Dal 1973 la Comunità europea gestisce una politica regionale del tutto insufficiente ad affrontare e ridurre i divari territoriali e, meno che mai, a promuovere la coesione economica e sociale.
Negli ultimi sei mesi il governo greco si è battuto in modo incerto e confuso ma con tutte le sue forze per una modifica radicale delle politiche economiche e finanziarie portate avanti dalla maggioranza dei governi di centro-destra dell’eurozona. Molti si sono illusi che ce la potesse fare da solo. Il governo italiano si è comportato in maniera levantina schierandosi a fasi alterne con la Germania e con la Grecia. A quest’ultima , a cui alcuni rimproverano comportamenti levantini, a mio giudizio, va l’onore delle armi per il tentativo insistito e solitario di cambiare una politica economica e finanziaria sbagliata e per avere evidenziato tutti i limiti e difetti della c.d. governance europea. Nella sua ottusità, quest’ultima non si rende conto che il paradigma tecnocratico e autoritario creato da Maastricht (coordinamento semiautomatico delle politiche economiche e finanziarie attraverso parametri anche stupidi) sta promuovendo l’allargamento dei divari economici e territoriali tra le aree centrali e quelle periferiche. Nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (2009) è detto solennemente nel Titolo XVIII e nel Protocollo n. 28 che l’Unione ha competenza concorrente in materia di coesione economica, sociale e territoriale e adotterà tutte le misure necessarie per promuoverla. Senza e, ancor più, con la moneta comune la situazione è peggiorata. Se il problema greco e, in misura minore, quello italiano è la ristrutturazione di tutto il sistema economico, è chiaro che il piano triennale su cui è stato raggiunto l’accordo è solo una risposta parziale. Nel piano non c’è traccia delle politiche industriali che il governo dovrebbe adottare nei diversi settori. Servirebbe un piano a medio-lungo termine (decennale) ed una economia rigorosamente programmata. Purtroppo la questione non è ancora all’ordine del giorno.