Bruno de Finetti, Un matematico tra Utopia e Riformismo, a cura di Giuseppe Amari e Fulvia de Finetti, Casa editrice Ediesse, Roma, 2015
Per De Finetti, Utopia è un sistema di valori e un progetto di società. Valori che implicano preferenze per i beni pubblici e, quindi, diritti. Era un radicale riformatore sociale. Maestro di impegno sociale e civile. Idealista e ottimista della volontà (n.1), ossia, convinto che , alla fine , la verità e la ragione avrebbero trionfato. Più che utopista, BdF è uno scienziato non propenso ad isolarsi nella elaborazione di modelli astratti o squisitamente teorici ma interessato a mettere a disposizione le sue conoscenze per attuare un programma di riforme sociali.
Come matematico e statistico ha contribuito alla elaborazione della teoria della probabilità soggettiva insieme all’inglese Ramsey e all’americano Savage. La probabilità soggettiva non si basa su analisi di dati e distribuzioni di frequenze che inducevano molti a parlare di probabilità oggettiva, ma sulle informazioni disponibili del soggetto e la fiducia che esso ripone sulle probabilità che l’evento incerto si verifichi.
“Come mettono in evidenza le scienze cognitive, dare spazio alla sfera intuitiva e inconscia della mente umana rende l’uomo più forte ad affrontare la realtà. Questa dimensione è, infatti, quella che riesce ad affrontare in modo più efficace l’incertezza e la complessità ambientale” (n. 2). Se penso al suo manuale di matematica intuitiva e alla sua teoria della probabilità soggettiva, arrivo a ritenere che BdF è anche un precursore anche delle c.d. scienze cognitive e della behavioral economics.
Come economista mi occuperò del suo grande interesse per le analisi economiche e , soprattutto, per le politiche economiche e sociali sotto una duplice ottica: in primo luogo, quella della elaborazione degli obiettivi e , dopo, quella della individuazione degli strumenti più adatti per ridurre le incertezze e le diseguaglianze.
In una fase storica in cui anche tra gli economisti si parlava di teoria pura dell’economia e/o di neutralità della scienza , egli insegnava che lo scienziato sociale deve sempre esplicitare i suoi giudizi di valore e, senza giri di parole, bisognava andare subito al cuore del problema e cercare di individuare la relazione di causa ed effetto (n. 3).
Per capire la critica fondamentale di De Finetti a Pareto vedi pag. 57 del libro dove il Nostro definisce “fasulla e ipocrita la conclusione secondo cui dal punto di massimo non ci si può spostare senza togliere qualcosa ad alcuni per darla ad altri”. Secondo me, per valutare più correttamente Pareto bisogna fare un discorso più circostanziato. Detta così, si fa analisi di statica comparata, non dinamica basata sull’assunto di un soggetto razionale che massimizza il suo interesse individuale. La conclusione che si attribuisce a Pareto discende dall’avere assunto che il punto di tangenza tra la frontiera della produzione e la curva di indifferenza individua un unico massimo di utilità possibile. Ma se cambiamo a monte la distribuzione del reddito e introduciamo gli assunti meta-economici che influenzano le decisioni degli uomini, vedremo che ci sono tanti massimi possibili tra cui quelli che vorremmo attuare.
Il problema di BdF è quello di individuare un modello che possa essere di aiuto per addivenire a scelte razionali in materia di politica economica e di giustizia sociale. Per aumentare queste possibilità bisogna assumere un approccio laico che non privi lo studioso degli apporti della teoria del benessere , dell’econometria, della probabilità soggettiva e, in generale, di qualsiasi rilevante disciplina sociale. Senza la prima , ci si priverebbe della possibilità di determinare una scala di priorità nelle scelte, come di determinare le condizioni di efficienza ed inefficienza (relative), di individuare nozioni come quelle di economie e diseconomie esterne; senza la seconda ci si priverebbe di un metodo rigoroso per la verifica della coerenza interna di certi obiettivi, della compatibilità (convergenza) ed incompatibilità (non convergenza) di alcuni di essi; senza la terza , si assumerebbero come oggettivi valori e/o valutazioni (ofelimità direbbe Pareto) che sono strettamente individuali, soggettivi, che tuttavia vanno ponderati dal decisore pubblico realisticamente, ossia, in termini di probabilità soggettiva.
La ricerca di BdF si colloca in parte sotto il fascismo e in parte nei quattro decenni del II dopoguerra. Ancora nei primi decenni del II dopoguerra, la ricerca accademica nelle scienze sociali, a fronte delle implicazioni normative della teoria del benessere e dell’econometria, si rifugiava sulla assunta e non dimostrata neutralità delle scienze sociali – da alcuni paragonate alle scienze fisiche – escludendo dall’analisi i giudizi di valore. In altre parole, molti eludevano in questo modo il dilemma neutralismo-sterilità e realismo-normatività. Si astenevano in pratica dall’entrare nell’analisi dei processi decisionali pubblici dove necessariamente pesano i giudizi di valore (soggettivi), i conflitti di interesse delle varie classi sociali e delle èlites (la classe governante di Gaetano Mosca) che sono chiamate ad assumere le decisioni. Se come scienziato sociale scelgo il neutralismo cado nella sterilità: non ho niente da dire in materia di politica economica. Se scelgo degli obiettivi , una visione della giustizia sociale da realizzare, scelgo il realismo esplicitando i miei giudizi di valore, passo all’approccio normativo alla ricerca del massimo di utilità della collettività o per la collettività. Già ai primi anni sessanta BdF ebbe a definire come il “pernicioso miraggio dell’oggettivismo”. Come precisa quindi il discorso, “lo studio del modello in sé e per sé, è certo oggetto di legittimo studio per un matematico puro che non si interessi all’eventuale (per lui “inesistente”) significato applicativo, ma quando si debba o si voglia passare ad esso, occorre ripensare tutta la costruzione, dagli assiomi alle deduzioni, in termini della realtà e vagliarne passo passo significato e significatività, valore e validità. Prevalgono invece purtroppo tendenze sterilmente formalistiche, talora portate ad identificare frettolosamente modello e realtà, più spesso ora a suggerire un confronto globale grossolanamente empirico tra il modello astratto creato e sviluppato artificialmente ‘in vitro’ e una spesso mal definita o affatto definita interpretazione della realtà in termini di esso, per vedere se si produca (come ‘per caso’ più che rispondenza di assiomi) qualcosa di – non si sa bene in che senso – di ‘accettabile’. Sarebbe come accostare ingranaggi molle e stantuffi a casaccio, e mettersi ad attendere qualche auspicio per gridare alla apparizione di un Deus ex machina”.
Dagli stralci delle opere di BdF ripresi dai curatori appare nella prima parte un contrasto quasi insanabile tra il Nostro e Pareto. In realtà nella seconda parte poi BdF modera il suo giudizio su Pareto e ammette di utilizzare lo stesso modello, ovviamente modificato. Ritengo utile spiegare il perché. Secondo me, tale contrasto è in gran parte apparente e forse dettato dall’ansia di ogni ricercatore di dimostrare che sta conducendo una ricerca del tutto innovativa e diversa da quella dei suoi predecessori (n. 4). Rileggendo il paragrafo 16 (p. 57) “fraintendimenti da evitare”, vorrei chiarire un punto essenziale sulla neutralità dell’economista “nel senso fasullo e ipocrita di Pareto”. Premetto che ho studiato Pareto sotto la guida di Ernesto d’Albergo che era un appassionato paretiano e che gli ha dedicato molti saggi oltre ad averne ripreso i punti fondamentali della impostazione welfarista nel suo manuale di scienza delle finanze. Inoltre, avendo avuto modo di studiare nella seconda metà degli anni ’69 l’economia del benessere, la politica economica e la teoria della programmazione, allora, era difficile trovare un manuale che non prendesse in considerazione i criteri paretiani per spiegare come si poteva migliorare l’efficienza allocativa e la distribuzione dei redditi al di sotto della frontiera del benessere , criteri molto utili per guidare l’azione delle autorità di politica economica e del programmatore. Pareto era nato nel 1848; era un uomo formatosi nella seconda metà del XIX secolo. Era di formazione matematica ma poi si era iscritto a ingegneria. Nel 1890 conobbe Maffeo Pantaleoni che lo aiutò ad avere l’incarico di insegnamento di economia politica proprio sulla cattedra dalla quale aveva insegnato Walras. Pareto segue questa teoria proprio per esaminare se i sistemi liberali potessero raggiungere una condizione di ottimalità, ma non trova convincente le soluzioni allora proposte basate su un meccanismo di concorrenza perfetta. Passa allo studio dei sistemi socialisti e pubblica un suo studio su detti sistemi nel 1902. Nel 1906 (anno della nascita di BdF) Pareto pubblica in italiano il suo manuale di economia politica ma ne abbandona l’insegnamento perché insoddisfatto dei sistemi che allora erano in essere o si proponevano. Passa allo studio della sociologia, alla ricerca di un equilibrio generale sociale che spiegasse in termini scientifici l’evoluzione dei sistemi economici e sociali. In sociologia egli introduce: a) la teoria delle azioni non logiche, sapendo che nei comportamenti umani non c’è distinzione netta tra azioni logiche e non logiche; b) una teoria dei residui (impulsi, sentimenti, ecc.) e delle derivazioni (argomenti pseudo-logici): elementi che sono diversi da persona a persona, quindi, con forti elementi di soggettività e che possono essere valutati solo in termini sociologici; c) una teoria delle èlites che si formano e decadono continuamente, che gli fa dire che “la storia è un cimitero di èlites”; d) una teoria dell’equilibrio sociale generale . Dire che Pareto è stato un esponente della scuola marginalista che non ammette i confronti interpersonali di utilità è una mera semplificazione che non gli rende giustizia. Non solo perché esplicita detti confronti interpersonali nel manuale di sociologia del 1916, ma anche perché accanto al concetto di utilità marginale Pareto introduce quello di ofelimità (per indicare il rapporto strettamente soggettivo tra un bene e la soddisfazione, il godimento che esso procura al suo possessore). Potrei dire che l’utilità marginale decrescente allora veniva assunta come un fatto oggettivo, mentre l’ofelimità era la versione soggettiva dell’utilità, in qualche modo in analogia a quanto farà alcuni decenni dopo BdF con la sua teoria della probabilità soggettiva. Quindi in buona sostanza io vedo non un contrasto insanabile ma una certa continuità tra la ricerca di Pareto e quella di BdF nel respingere il miraggio dell’oggettività e i tentativi di passare alla soggettività per così dire realistica.
Il punto dove BdF ha ragione su Pareto è nella valutazione dell’equità di una certa distribuzione dei redditi. Ma, come detto, di massimi paretiani non c’è solo quello sulla frontiera del benessere dal quale non è possibile migliorare la posizione di un individuo senza peggiorare quella di un altro; ce ne sono tanti quante sono le distribuzioni sottostanti, non senza ricordare che in pratica i sistemi economici e sociali non lavorano sulla ma, per lo più, sotto la frontiera del benessere. Sul dilemma efficienza- equità, bisogna ricordare che Pareto è pessimista e dice che chi studia la morale di un popolo lo fa sempre con interesse, alias, vuole imporre la sua morale. In buona sostanza, Pareto riteneva che la distribuzione dei redditi rifletteva quella dell’intelligenza. Per quanto mi ricordo, non esplicitò una teoria della giustizia sociale. Gli economisti neutrali non l’hanno mai fatto. Molti non lo fanno tuttora ma implicitamente trovano accettabile quella che c’è. Sul punto ha ragione de Finetti che intende l’utopia come un sistema di valori, vuole ridurre l’incertezza, le disuguaglianze sociali, alias, è alla ricerca costante della giustizia sociale.
I suoi seminari di economia matematica avevano questo scopo, portando in Italia studiosi stranieri che avevano affrontato questi temi, perché in Italia tali ricerche non erano molto diffuse richiedendo conoscenze interdisciplinari molto diversificate – di matematica, di econometria, sociologia e filosofia morale. In Italia purtroppo la teoria della giustizia sociale interessa pochi eletti e addetti ai lavori. Non interessa i politici, i partiti, la gente comune e poi, come detto, c’è il residuo della neutralità della scienza. In quei decenni c’era chi voleva far dimenticare il suo passato e c’era chi, in nome della migliore specializzazione, nel mondo accademico promuoveva lo spacchettamento o la frammentazione delle varie discipline che, spesso non fa vedere i problemi della società nel suo insieme e nella loro complessità. Essere o diventare scienziato a tutto tondo è molto difficile e faticoso.
Qual è la giustizia sociale che cerca BdF? In sintesi è il Welfare State generalizzato al massimo, ossia, il bilanciamento dei bisogni individuali con quelli sociali. Esplicita le sue preferenze in materia di disuguaglianze e la personale opinione in materia. Respinge l’idea di una “più o meno esatta uguaglianza in senso “contabile” e/o di reddito monetario. In sostanza BdF è rawlsiano laddove afferma che una “diseguaglianza sul superfluo è meno intollerabile”, alias, “l’esigenza dell’uguaglianza si riterrà tanto più prioritaria quanto più i beni scarseggiano”. Come noto, negli anni post 1968 era già nato il movimento per la decrescita e il PIL non era ritenuto una misura adeguata del benessere. BdF si poneva il problema di abrogare la moneta con la quale gli economisti valorizzano i beni. Con le sue critiche puntute anche nei confronti degli economisti, avvalorava la battuta denigratoria sugli “economisti che conoscono il prezzo di ogni cosa e il valore di niente”. Abbiamo detto che l’Utopia per BdF è un sistema di valori morali, alias, di giustizia sociale.
Nel libro c’è anche un saggio di Roberto Schiattarella che illustra il parallelismo tra la ricerca e gli sforzi di BdF e Federico Caffè per accelerare l’introduzione del welfare state in Italia, che avviene con grande ritardo rispetto agli altri paesi del Centro e Nord Europa. C’era una forte convergenza di interessi culturali supportata anche dal fatto che, nella qualità di Direttore dell’Ente Einaudi, Caffè per diversi anni finanziò i seminari di Economia matematica. Il parallelismo è certamente fondato ma, come risulta anche dalle brevi annotazioni dei curatori del libro, un altro parallelismo di studi e ricerche che sarebbe bello approfondire è quello tra BdF e Gunnar Myrdal e Leonard J. Savage: entrambi con primaria formazione matematica e poi statistici applicati che rifuggono dai modelli teorici e, come De Finetti, si impegnano a studiare metodi e modalità per migliorare le sorti dei più deboli e bisognosi.
Note:
1) Vedi pp. 157-58 su utopia e “volontarismo”.
2) Vedi Riccardo Viale che recensisce due libri su la Lettura, settimanale del Corriere della Sera del 3-07-2016: uno di Cass Sunstein, The world according to Star Wars , Dey Street Books, HarperCollins Publishers, New York, 2016; e un altro di AAVV Cognitive Uncoscious and Human Rationality a cura di Laura Macchi, Maria Bagassi e Riccardo Viale, The MIT Press , Cambridge, MA ,2016.
3) Vedi il suo saggio “Obiettività e oggettività. Critica di un miraggio, in Rivista Trimestrale, n. 2/1962.
4) Prima di me, Grazia Ietto-Gillies fa un’analisi corretta del rapporto De Finetti-Pareto quando dice che BdF vuole una versione normativa dell’approccio paretiano. In altre parole, l’analisi paretiana può essere applicata non per giustificare lo status quo ma per dimostrare che altre soluzioni sono fattibili tenendo conto non solo delle preferenze ma anche di quelle della collettività. Il lavoro della Ietto-Gillies è consultabile sul sito web http://brunodefinetti.it.