Il 2015 è stato un anno positivo per il Sud. Il PIL nel Mezzogiorno è cresciuto dell’1%, dello 0,7% nel Centro-Nord, e dello 0,8% in tutto il Paese. Anche l’annata agraria è stata favorevole. È aumentata l’occupazione anche giovanile. Naturalmente si tratta di segnali positivi ma ancora molto deboli. Anche se le percentuali sono relativamente più alte di quelle del Centro-Nord, ciò non significa che nel Sud si sia messo in moto un processo di crescita sostenuto e sostenibile. La crescita del 2015 non compensa neanche in prospettiva il depauperamento strutturale di medio-lungo termine che, del resto, è in corso in tutto il Paese che, da 14 anni, registra una dinamica negativa della produttività. Nel periodo 2008-2014 il Sud ha perso il 13,2% di PIL, rispetto al 7,8% del Centro-Nord e al 9% del Paese nel suo insieme. Così nell’eccellente Rapporto annuale della Svimez. Anche al Sud c’è stata una certa ricostituzione dei risparmi delle famiglie ed una lieve ripresa degli investimenti privati anche nell’industria in senso stretto. C’è anche una quota di imprese meridionali che esportano ed altre sono “chiuse” nel senso che, per lo più, operano come subfornitrici e, quindi, catturano quote più basse di valore aggiunto.
Secondo la Svimez, cruciale, per il medio-lungo termine, sarà una immediata accelerazione della dinamica degli investimenti pubblici. Questi non sono incompatibili con altre misure tipo la riduzione delle tasse e gli incentivi agli investimenti privati ma quelli pubblici sarebbero molto più efficaci. La Svimez ha calcolato che quelli pubblici hanno un moltiplicatore di primo impatto pari a 1,37 (cumulativo su cinque anni 1,85). Mentre la riduzione di un euro di imposte dirette avrebbe un analogo effetto espansivo dello 0,38. Il problema diventa quindi quello di trovare gli spazi finanziari. Viene menzionato l’utilizzo pieno dei margini della flessibilità a tal fine.
Osservo che se tale scelta è inevitabile nel breve termine, essa non è sufficiente a dare una spinta significativa né per il breve né per il medio-lungo termine. Infatti quello dell’accumulazione è problema di medio-lungo termine e va affrontato proponendo una seria revisione delle regole del Fiscal Compact e dei suoi regolamenti attuativi (Six Pact e Two Pact). Tutta la controversia tra il governo italiano e la Commissione europea gira attorno al calcolo dell’output gap, ossia, alla differenza tra quello che il sistema economico italiano potrebbe produrre e quello che produce in fatto. L’output gap non è un dato osservabile quando viene proiettato al futuro, è una stima e questa dipende dal metodo adottato. Ci sono diversi metodi adottabili e, quindi, sono ottenibili stime diverse con margini di incertezza più o meno ampi. Non ultimo c’è l’incertezza circa il momento (l’anno) in cui dette stime vengono effettuate. Gli ultimi sette anni sono stati anni di straordinaria incertezza, tormentati da una crisi profonda che peraltro in Italia, ha anche radici più lunghe. Se così le stime fatte sono ancor più incerte. Il risultato di queste stime per l’Italia ha portato a gap (divari) negativi, ossia, a livelli di reddito potenziale inferiori a quelli reali e, quindi, a giudizio dei governanti europei, avallano la politica dell’austerità che, biecamente, è stata tradotta in leggi che hanno implementato la flessibilità nell’utilizzo del lavoro. Perché questo risultato? Perché il modello di base all’interno del quale si stima l’output gap è un modello esclusivamente di offerta (supply side). Partendo dalla dotazione di fattori produttivi capitale e lavoro e dalla loro produttività osservata per il passato si stimano le probabili variazioni in aumento e/o in diminuzione della produttività dei fattori di lungo termine – inclusa quella discendente dall’invecchiamento della popolazione. A fronte della distruzione di capacità produttiva provocata dalla crisi, della stagnazione pluridecennale della produttività, dei continui tagli degli investimenti pubblici, alla crescita della disoccupazione strutturale arriviamo appunto al paradosso di un reddito potenziale inferiore a quello effettivo. Di conseguenza, c’è poco o niente da ottenere in termini di flessibilità e/o possibilità di gestire un deficit strutturale superiore allo zero. Da un punto di vista formale, paradossalmente, ha ragione la Commissione europea quando afferma che l’Italia tra il 2015 e il 2016 ha già goduto di deroghe per 19 miliardi e che ulteriori deroghe violano le regole.
Prima di passare alle proposte della Svimez vale la pena ricordare che il modello supply side è un modello monetarista che adottano le banche centrali per minimizzare possibili errori nella regolazione dell’offerta di moneta. Una sopravvalutazione dell’output gap in teoria potrebbe portare ad una eccessiva creazione di base monetaria e compromettere la stabilità dei prezzi. Non è questo il caso della politica monetaria della BCE che è arrivata in ritardo di cinque anni con il quantitative easing e che ha tollerato – se non proprio voluto – un uso improprio della maggiore liquidità creata. Solo una parte del tutto insufficiente di essa ha raggiunto le imprese e le famiglie nei PM periferici e questo spiega la deflazione e/o l’incapacità di arrivare al target prefissato di una inflazione al 2%.
Purtroppo il governo non solo ha utilizzato e intende utilizzare tutti margini di flessibilità, per lo più, per spese correnti ma è già alla sua terza legge finanziaria e/o di bilancio e ancora non ha posto con la necessaria fermezza questo problema sul tavolo del Consiglio europeo.
Ad essere precisi il governo, nel febbraio scorso, ha mandato alla Commissione una specie di memorandum a firma del Ministro Padoan. In detto documento “A shared policy strategy for growth, jobs and stability” si fanno tanti bei discorsi su cui molti possono convenire ma alla fine mancano proposte operative sia per il breve che per il medio termine. Non sorprende: a) che il Ministro tecnico faccia un esplicito riferimento al modello offertista; b) che elogi il Piano Junker (poco o per nulla rilevante per il Sud); c) che auspichi maggiori incentivi per gli investimenti in beni pubblici europei; d) che auspichi un’accelerazione del processo di completamento dell’Unione bancaria e l’approfondimento del mercato unico; e) che chieda di approntare uno strumento che faciliti gli aggiustamenti nel mercato del lavoro; ecc. C’è anche un fugace riferimento alla necessità di promuovere “più convergenza, l’accelerazione delle riforme strutturali ed una più forte domanda interna come fattori necessari per evitare che significative e persistenti perdite di produzione riducano in maniera permanente la crescita potenziale”, ma in tutto il documento di nove pagine non si trova alcun riscontro ai problemi tecnici del calcolo dell’output gap né, tanto meno, ad un’applicazione più intelligente e meno rigida della golden rule che potrebbe aiutare a risolvere i problemi del breve termine. Nelle conclusioni, l Ministro dell’economia e delle finanze coglie bene il nesso tra problemi di breve termine e quelli di medio-lungo, legame che, a suo giudizio, dovrebbe essere rafforzato e costruito su “una visione comune” – che a Bruxelles purtroppo manca. Coglie bene anche la distinzione tra misure che richiedono la riforma dei Trattati e quelle che non dovrebbero essere di ostacolo ad obiettivi di politica economica più ambiziosi ma, come detto, non menziona alcunché di preciso per il breve termine. Se ne esce con la logora ed ambigua frase secondo cui “l’UE può essere parte della soluzione e non parte del problema”.
Ho ripreso questo documento che è una specie di Manifesto per la crescita per avere un esempio chiaro del divario tra i generici documenti che vengono inviati a Bruxelles e le roboanti chiacchiere del Premier.
Come detto, la Svimez giustamente sostiene che bisogna rilanciare gli investimenti pubblici e privati e che i primi possono bene esercitare un effetto traino sui secondi. Ma a questo fine è di ostacolo anche la politica industriale di questo governo. Negli anni scorsi c’è stato un taglio delle agevolazioni fiscali alle imprese meridionali. Negli anni scorsi c’è stata una notevole e non contrastata deindustrializzazione del Sud proprio per l’assenza di una politica industriale. È rimasta solo la politica regionale UE sulla quale si esercita il governo con il Master Plan e gli sbandierati Patti con le regioni e le Città metropolitane. Ciò non impedisce l’aumento delle persone in povertà assoluta e il numero di lavoratori poveri. Cala anche la fecondità delle donne. Si parla di Zone economiche speciali ZES sul modello polacco ma ancora non si vedono realizzazioni. Né bastano i 12 miliardi di investimenti su tre anni che avrebbe a disposizione il Master Plan. È la solita spinta gentile (nudge) che non può cambiare la situazione in maniera significativa.
Un’idea di quello che servirebbe ce la dà il Presidente Giannola nelle sue valutazioni riassuntive. In premessa cita il documento rilasciato dal FMI in occasione della sua visita in Italia che, contrariamente alle previsioni ottimistiche del governo prevede un recupero dei livelli di reddito pre-crisi attorno alla metà degli anni venti. Detto documento è passato sotto silenzio al centro e in periferia. Sarebbe invece necessario un dibattito approfondito sul tipo di politica economica portata avanti dal governo rispetto a quella necessaria per rilanciare la crescita.
Al riguardo la Svimez ha effettuato una simulazione con il suo modello econometrico e ha calcolato che se si volessero recuperare nel 2020 i livelli del 2007 il Sud dovrebbe crescere al 2,7%. Il Nord all’1,5%. E nel 2007 – precisa il Presidente Giannola – eravamo in stagnazione già da dieci anni. Sono tassi non previsti dai documenti di economia e finanza emessi dal governo. Qual è l’obiettivo politica economica del governo a medio termine? Non si sa. Come noto, il governo da un anno a questa parte si esercita a fare propaganda al suo Master Plan per il Mezzogiorno. Ma osserva Giannola il Master Plan dovrebbe essere un programma economico per il paese non solo per il Sud se è vero che non ci può essere vera ripresa del Centro-Nord senza una corrispondente ripresa del Mezzogiorno. Agganciare la crescita della domanda del resto del mondo non basta. Serve una spinta shock sulla domanda interna. Il Sud ha perso il 30% sua capacità produttiva negli anni della crisi. E’ stata accantonata l’attuazione del federalismo fiscale, ossia, della legge n. 42 del 2009 che prevedeva anche criteri importanti per il coordinamento della finanza pubblica e per i trasferimenti compensativi. In fatto quello che vede la Svimez è molta manutenzione dell’esistente e poca discussione delle politiche di sviluppo regionale che potrebbero innescare un processo di crescita sostenibile nelle regioni meridionali. Critica anche la politica industriale c.d. 4.0 perché essa presuppone un capitale umano ad alta qualificazione mentre la politica economica fin qui seguita dal governo sta riducendo in maniera più forte i trasferimenti dal fondo di finanziamento ordinario per le Università meridionali e portando risorse umane anche qualificate fuori dal Sud. Solo una giovane laureata su tre trova lavoro nel Sud.
Secondo me, servono programmi di sviluppo regionali coordinati in un vero e proprio programma economico nazionale. È singolare che nessuno vuole utilizzare questi termini, che le regioni a statuto ordinario subiscano passivamente la centralizzazione di molte loro competenze e che le organizzazioni sindacali non aprano vertenze con le regioni meridionali per affrontare i gravi problemi della crescita del reddito e dell’occupazione nelle regioni disastrate del Mezzogiorno. È singolare e per me incomprensibile ma nessuno vuole parlare di programmazione economica anche se la Commissione europea la prescrive. Concludendo la manifestazione, il Sottosegretario alla Presidenza De Vincenti emblematicamente ha detto: “Non più programmazione calata dall’alto. Pur riconoscendo i meriti della programmazione degli anni 50 e 60, ha detto che il governo ha scelto un nuovo metodo: “dialogo diretto, vivo e forte con le regioni e con le città”.
Eppure – aggiungo io – quando furono istituite le regioni a statuto ordinario nel 1970 la missione fondamentale a loro assegnata era quella della programmazione dello sviluppo e il coordinamento delle attività degli enti locali. In tanto il dialogo può essere diretto e pregnante in quanto si svolga su piani precisi, completi e appropriatamente articolati nel tempo (PPBS) che riguardino non solo la politica regionale della UE o Industria 4.0 ma lo sviluppo economico e sociale di tutto il Paese e, quindi, anche delle regioni meridionali.