Poveri e in declino storico senza un ravvedimento operoso dei governanti.

Alcuni giornali aprono stamani con il titolo “L’Italia più povera senza l’Europa” sintetizzando le considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia di ieri. È vero, ma vediamo perché. Intanto bisogna partire dalla constatazione che l’economia italiana ha un forte grado di interdipendenza con tutti gli altri paesi membri (PM) dell’UE. Al riguardo Visco ci ricorda che il 60% delle nostre importazioni provengono dagli altri PM della UE, il 56% delle nostre esportazioni trova sbocco in detti paesi. Stiamo parlando di un flusso di scambi pari al 18% del PIL. Per chiarire basti ricordare che noi abbiamo un interscambio con la Germania pari al 126 miliardi di euro e altrettanti con la Francia e Spagna sommati. Bastano questi dati assoluti per dire che una via autarchica non è percorribile per l’Italia – come dimostra anche il fallimento del tentativo del governo inglese di portare a termine la Brexit quando pretende di uscire dalle istituzioni europee ma, allo stesso tempo, di rimanere all’interno della Unione doganale. Il titolo è vero perché a un paese trasformatore serve il mercato unico europeo e perché senza l’UE è illusorio pensare che da soli, senza le istituzioni europee, si possa incidere in maniera apprezzabile nel complesso processo della globalizzazione.     

Oggi, in una fase molto avanzata della globalizzazione, l’interdipendenza non si limita ai PM dell’UE; è diventata planetaria e, quindi, diventano ancora più stringenti i vincoli esteri che condizionano la crescita e lo sviluppo dell’economia italiana. Dico subito che questa non è condizionata solo dai vincoli esterni ma anche dai vincoli strutturali interni non meno stringenti di cui dirò più avanti. La globalizzazione dei mercati – come ci ricorda Visco – porta con sé la concorrenza di prezzo dei paesi emergenti che è determinata dal più basso costo del lavoro e dalla minore protezione sociale o maggiore sfruttamento dei lavoratori che si registra in quei Paesi. Il che non è senza conseguenze anche nei paesi più avanzati attraverso la chiusura di imprese non competitive e il c.d. dumping sociale che porta alla riduzione dei livelli di protezione sociale dei lavoratori. Se si aggiunge che i governi dei paesi emergenti fanno di tutto per attirare investimenti dall’estero si determina anche una concorrenza fiscale ed una corsa al ribasso che “costringe” anche molti paesi avanzati a fare altrettanto. Fin qui inutili sono stati i tentativi di stabilire delle regole a livello planetario da parte delle organizzazioni informali come il G20, G8, ecc… Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: a livello globale si sono ridotte le distanze tra i paesi ricchi e quelli in via di sviluppo ma, all’interno dei due blocchi, sono aumentate le diseguaglianze tra i ricchi e i poveri. In particolare nei paesi ricchi si è impoverita la classe media che, in condizioni normali, ha svolto spesso una funzione di stabilizzazione dei sistemi politici. Politici demagoghi, populisti e sovranisti sfruttano questi elementi oggettivi di crisi per costruirci sopra le loro fortune politiche.

Stiamo vivendo in una congiuntura molto speciale dopo una crisi mondiale di straordinaria portata anche per via della digitalizzazione dell’economia, dell’utilizzo della intelligenza artificiale che impongono una grande trasformazione ed in una fase di ulteriore accelerazione della globalizzazione non solo non governata ma addirittura travagliata da guerre commerciali senza quartiere.  Purtroppo, negli ultimi 30 anni, la concorrenza fiscale ha preso piede anche all’interno della UE tra i suoi PM e, fin qui, non si intravede alcun consenso emergente su come porvi rimedio. In queste condizioni, l’invito di Visco a considerare per l’Italia una riforma tributaria di ampio respiro è in teoria opportuno ma ho paura che, senza un preliminare accordo a livello europeo per abbandonare la concorrenza fiscale interna e passare all’armonizzazione fiscale, sia destinato a rimanere un pio desiderio. E questo perché l’invito resta opportuno per cercare di frenare le proposte insensate e irresponsabili del Capo della Lega, e in parte anche del Capo del M5S in materia fiscale ma, a ben riflettere, è chiaro che esse si inseriscono pienamente nel solco della concorrenza fiscale, ossia, della corsa verso il livello più basso della pressione tributaria che evidentemente i due leader della maggioranza del governo giallo-verde ritengono appropriata e utile ai loro fini politici. Né l’uno né l’altro spiegano come sia possibile andare avanti finanziando in deficit spesa corrente (reddito di cittadinanza, anticipazione del pensionamento, riduzione del cuneo fiscale, riduzione di imposte ai forfettari, alle famiglie e alle imprese) senza aumentare il debito pubblico di un paese che ha già un alto debito pubblico (per un 30% in mano a non residenti), di un paese che non investe abbastanza per rimettere in moto un processo di crescita del PIL e dell’occupazione.

Un paese che da oltre 25 anni sta nella c.d. stagnazione secolare perché non riesce a far aumentare la produttività e che ha dei tassi di attività inferiori a quelli medi della UE; un paese che nei prossimi 25 anni vedrebbe ridursi le persone in età lavorativa di 6 milioni di unità nonostante una ipotesi di afflusso netto di 4 milioni di immigrati e che, per contro, vedrà aumentare quelle con età superiore ai 65 anni al 33% della popolazione rispetto al 28% degli altri PM. Eppure il rimedio interno – che non dipende direttamente dalle regole europee – resta quello di spingere l’economia verso il pieno impiego e far aumentare la produttività ma i nostri governanti passati e presenti non riescono a farlo.  

Passando a scenari più o meno ravvicinati Visco dice che: “Da qui al 2030, senza il contributo dell’immigrazione, la popolazione di età compresa tra i 20 e i 64 anni diminuirebbe di 3 milioni e mezzo, calerebbe di ulteriori 7 nei successivi quindici anni. Oggi, per ogni 100 persone ce ne sono 38 con almeno 65 anni; tra venticinque anni ce ne sarebbero 76. Queste prospettive sono rese più preoccupanti dall’incapacità del Paese di attrarre forze di lavoro qualificate dall’estero e dal rischio concreto di continuare anzi a perdere le nostre risorse più qualificate e dinamiche.”

Un Paese altrettanto incapace di attirare investimenti dall’estero e che per altro verso non trova 250 mila lavoratori altamente qualificati.

Nelle sue considerazioni finali Visco cita una massa ingente di dati che, da un lato, consentono di valutare i passi fatti nel decennio del dopo crisi mondiale e, dall’altro, delinea scenari di medio e lungo termine da cui emerge una lezione importante: “è un errore addossare all’Europa le colpe del nostro disagio – direi della nostra crisi profonda; non porta alcun vantaggio e distrae dai problemi reali”. Un’ampia parte delle sue Considerazioni finali è dedicata all’Europa e agli strumenti che si è data e a quelli che dovrebbe darsi per completare l’unione bancaria, per avviare l’integrazione dei mercati dei capitali e, soprattutto, l’Unione di bilancio strumento fondamentale per potere condurre una politica economica idonea almeno ai fini della stabilizzazione macro-economica dei PM che ne hanno bisogno. C’è materia su cui riflettere attentamente ma i nostri due ineffabili Vicepresidenti del Consiglio dalla veduta corta sapranno finirla di sproloquiare individualmente e chiudersi in un seminario riservato con i loro ministri tecnici, confrontarsi seriamente tra di loro per decidere cosa fare dopo le recenti elezioni europee? Lo vedremo nelle prossime settimane.

@enzorusso2020

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