No alle imprese pubbliche si a quelle partecipate a prescindere

Astrid, Iniziativa economica pubblica e società partecipate, a cura di Vincenzo Cerulli Irelli e Mario Libertini, Prefazione di Franco Bassanini, Egea, giugno 2019.

Il volume è dedicato alla valutazione del Testo unico per le società partecipate D. Lgs. N. 175/2016. Dalla lettura emerge chiaramente come il legislatore delegato abbia recepito l’approccio neoliberista secondo cui le imprese pubbliche sono aprioristicamente inefficienti e, quindi, bisogna, ridurne al minimo il numero se non eliminarle del tutto. A scanso di equivoci bisogna precisare subito che le norme generali che traducono l’assunto neoliberista in fatto sono accompagnate da una serie di eccezioni che ne “tradiscono” almeno in parte l’obiettivo.   Ma la cosa per me alquanto sorprendente è come detta impostazione abbia investito non solo la politica ma anche la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione (SCC), del Consiglio di Stato e della stessa Corte di Costituzionale come vedremo meglio più avanti.

Come si spiega tutto ciò? Si può capire meglio l’evoluzione e/o l’involuzione della legislazione italiana a partire dall’analisi di Cesare Pinelli che spiega l’inquadramento del ruolo della impresa pubblica nella Costituzione del 1948 e l’analisi di G. L. Tosato che esamina il successivo quadro del diritto europeo in materia.

Il primo non casualmente cita Luigi Einaudi il quale riferendosi all’ostilità di cui godevano sia i monopoli pubblici che quelli privati, afferma che: ”la maggiora parte dei monopoli più pericolosi è quella che proviene dalla categoria degli imprenditori e degli industriali. Sono essi i quali hanno, con dazi protettivi, contingenti e altri favori governativi, costituito situazioni di privilegio in loro favore che noi liberali dobbiamo contrastare e dobbiamo sforzarci di abbattere”.   E tuttavia nella costituzione del 1948 non entra la parola tutela della concorrenza che arriva solo con la riforma del 2001 all’art. 117 lett. e).

Nella Costituzione del 1948 – spiega Pinelli – si prevede la neutralità tra impresa pubblica e privata. L’art. 41 teorizza la funzione sociale dell’impresa; e in aggiunta l’art. 43 prevede il potere pubblico di nazionalizzare “imprese o gruppi di imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”.

Secondo Cesare Pinelli, nella Costituzione non c’è fondamento per intendere la sussidiarietà come intervento pubblico residuale con buona pace di quanti si arrampicano sugli specchi per sostenerlo.

Ma negli anni settanta cambia il modo; trionfa la Scuola di Chicago secondo cui i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato. Negli anni ottanta segue l’Atto Unico e negli anni novanta il grande mercato unico previa attuazione della piena libertà dei movimenti di capitali.

G.L. Tosato ci spiega l’evoluzione del diritto europeo circa il ruolo dell’impresa pubblica: neutralità prima; parità dopo; e, in un secondo tempo, tutela piena della concorrenza con rigorosa applicazione della disciplina degli aiuti di Stato. E non importa se i due principi in teoria in parte si integrano ed in parte collidono perché in pratica la missione di un’impresa privata e quella di un’impresa pubblica sono diverse.

E non importa se in alcuni casi l’impresa pubblica può promuovere maggiore concorrenza piuttosto che danneggiarla. Vedi ad esempio il caso degli oligopoli mondiali dell’industria farmaceutica alle quali non farebbe male una maggiore concorrenza. Ma il diritto europeo – aggiungo io – è frutto per lo più di governi di centro-destra e/o di larghe intese nelle quali la sinistra ha fatto propri i paradigmi del neoliberismo.

 Su una linea analoga si muove Vincenzo Cerulli Irelli che assevera la legittimità costituzionale di forme organizzative privatistiche nella PA che inevitabilmente implicano complessi contratti di associazione e di fornitura. In altre parole, l’esercizio dell’amministrazione in forma pubblicistica non necessita l’imputazione del potere ad una figura soggettiva di diritto pubblico. Ora una simile conclusione è presente nei migliori manuali di scienza delle finanze e/o di economia pubblica dove si assume che la produzione di beni pubblici non implica che essi siano prodotti necessariamente da imprese pubbliche. Detti beni possono essere anche forniti da imprese private e gli stessi beni (ad esempio le medicine) diventano pubblici per il semplice fatto che siano distribuiti da strutture pubbliche come i servizi sanitari nazionali. Questo avviene attraverso complessi contratti di fornitura e, per questo motivo, diventano molto rilevanti le analisi costi e benefici delle due soluzioni ed i sistemi di controllo.

Mi si potrebbe obiettare che in Italia ci sono una serie di Nuclei di valutazione e verifica degli investimenti pubblici presso la Presidenza del Consiglio, diversi ministeri, presso tutte le regioni e presso una quantità indeterminata di Comuni. Ma nessuno sa esattamente cosa fanno e tutti conosciamo le situazioni di stallo in cui si vengono a trovare non solo le grandi opere (la TAV, il Mose, ecc.) e ma anche i piccoli cantieri per la messa in sicurezza delle scuole, per le strade locali, per il riassetto idrogeologico, ecc.     

Sfortunatamente in Italia i controlli della Corte dei Conti in materia hanno assunto un carattere collaborativo sui governi sub-centrali ex legge 131/2003 – carattere ulteriormente attenuato con la legge n. 213/2012. Da qui una serie interminabile di episodi di corruzione e cattiva gestione del procurement di molte aziende sanitarie locali. Emblematico il caso di quella di Reggio Calabria che apparentemente pagava certe forniture sanitarie con tre anni di ritardo mentre in realtà pagava la stessa fattura tre volte di seguito. Le disposizioni delle leggi appena citate dipendono dall’idea che in attuazione del federalismo bisognava attenuare i controlli centralizzati e aspettare che le regioni attuassero i propri sistemi di controllo. Ma resta il fatto e il diritto che quando si tratta di società private o partecipate interviene l’art. 2392 codice civile che prevede la responsabilità degli amministratori nei confronti della società.  Come spiega meglio Cerulli Irelli nella nota 26 di p. 119 su di essa grava il più recente orientamento giurisprudenziale   della Suprema Corte di Cassazione (SSUU  25-11-2013 n. 26283,  512-2016 n. 24737, 5-05-2017 n. 11983) che ha limitato l’azione di responsabilità per danni erariali e, quindi, la giurisdizione della Corte dei Conti, ai casi in cui ‘l’azione di responsabilità mira ad un risarcimento di un danno che – nel caso di danno di immagine – sia stato arrecato al socio pubblico direttamente e non come riflesso della perdita di valore della partecipazione sociale, conseguente al danno arrecato alla società’” ecc.

Pungenti le critiche di Anna Argentati alla Corte costituzionale che ha abbracciato acriticamente l’idea del legislatore statale secondo cui l’intervento pubblico nell’economia sia distorsivo della concorrenza e, quindi, assumendo l’equazione non dimostrata che meno intervento pubblico è uguale maggiore concorrenza. Quando il problema è l’efficientamento dell’organizzazione vuoi delle strutture amministrative che delle imprese pubbliche nelle quali scarseggiano due fattori fondamentali: a) organizzazione scientifica del lavoro e b) competenze sulle human relations e/o capacità dei manager di motivare i propri dipendenti. Pubbliche o private che siano, l’efficienza delle grandi imprese dipende dalla qualità del management ribadisce Ciocca citando Henry Simon e, quindi, “bisogna muovere dalle condizioni effettuali dell’economia e chiedersi pragmaticamente, senza preconcetti ideologici, se l’impresa pubblica può servire”.

 Anche Libertini conferma che il disegno politico neoliberistico dietro il TUSP: a) arrestare il moltiplicarsi delle società in mano pubblica; b) la loro trasformazione in società partecipate; c) promuovere la loro trasformazione in società partecipate e avviarle verso un regime privatistico. Il tutto ponendo limiti stringenti alla costituzione di società pubbliche e, al contempo, un divieto generale per gli enti pubblici di svolgere attività di impresa.

Secondo gli avvocati Bonura e Fonderico, il modello prefigurato dal TUSP configura un modello generale in cui la legittimità della partecipazione pubblica in una società di capitali è da ricercarsi nell’oggetto stesso del contratto di appalto o di concessione tra socio e amministrazione “debitamente motivato dalla missione di interesse generale, ovvero dalla produzione di un bene o di un servizio a proprio favore e da regolare a mezzo di un ulteriore e specifico contratto rispetto a quello associativo”.  Secondo un Rapporto dello Aspen Institute redatto sotto il coordinamento scientifico di Sabino Cassese, “le quattro principali criticità del TUSP stanno: a) nella mancata considerazione dei rapporti associativi di grandi imprese pubbliche; b) nella lacunosa raccolta della normativa; c) nell’eccessivo numero di deroghe rispetto alle norme generali; d) nell’eccessivo carico di oneri pubblicistici in testa alle società a partecipazione pubblica”.

Al riguardo Stefano Pozzoli cita 9 mila organismi partecipati, 411 mila dipendenti ed esternalizzazioni a gogo. Una vera superfetazione in parte dettata dalla volontà di eludere i vincoli di finanza pubblica e in parte dall’illusione che la flessibilità dello strumento privatistico avrebbe portato maggiore efficienza non senza trascurare le tentazioni imprenditoriali legate alla rendita di posizione degli enti locali. Implicitamente anche Pozzoli esclude che le società partecipate possano essere gestite secondo le tre E (efficienza, efficacia, economicità). Anche in questo specifico settore numerose deroghe ai limiti generali previsti dal TUSP. Cita l’ultima introdotta con legge n. 119/1-10-2019 per le centrali del latte (vedi il Sole 24 Ore del 30-10-2019).  Pozzoli ricorda che prima ancora del D. Lgs. n. 175/2016, il divieto per le PA di svolgere attività prettamente commerciali era stato previsto dall’art. 3 comma 27 della legge 244/2007. Quindi, secondo me, il TUSP costituisce un ulteriore sbraco. Ironicamente Pozzoli si chiede perché non anche i barbieri municipali? E conclude che il TUSP vada riformato secondo logica e nell’interesse generale. E qual é questa logica? Secondo me, è in primo luogo la teoria dei beni pubblici locali che non verrebbero prodotti da parte dei privati o che verrebbero prodotti in contesti di monopolio naturale e, quindi, a costi maggiorati perché, a differenza di una impresa pubblica, una privata deve produrre un profitto normale per i suoi soci privati.   Ma come già detto sopra l’impresa pubblica porta lo stigma dell’inefficienza ma, come di incanto, secondo il principio comunitario della partnership pubblico-privato la partecipazione pubblica non è più inefficiente per il semplice fatto di partecipare ad un’impresa privata. Perché secondo gli assunti neoliberisti l’impresa privata è sempre efficiente, è sempre gestita dai manager più capaci del mondo, alias, per il gioco del mercato concorrenziale che inevitabilmente porterebbe al fallimento delle imprese inefficienti. Si tratta di logica parziale e faziosa perché la concorrenza perfetta sta solo nella testa degli economisti neoliberisti mentre quella che prevale in fatto nel mercato è concorrenza imperfetta se non proprio oligopolistica dove gli operatori si osservano e non hanno alcun interesse a ribassare i prezzi al di sotto di certi livelli che non consentirebbero neanche una remunerazione normale del capitale perché se lo facessero prima o poi dovrebbero fallire o uscire dal mercato. Non voglio tediare il lettore con la efficienza paretiana, l’inefficienza X ecc. ma per la massima chiarezza voglio elencare i motivi fondamentali che giustificano, alias, rendono necessario l’intervento pubblico recuperando il conciso intervento di Ciocca e il commento di De Vincenti: 1) orizzonte temporale lungo degli investimenti pubblici; 2) la connessa produzione di economie esterne dei beni pubblici; 3) la presenza di monopoli naturali pubblici che cita anche De Vincenti osservando che le distorsioni introdotte dai monopoli privati non sono meno gravi; 4) l’offerta insufficiente da parte del mercato rispetto alla domanda pubblica di certi beni (mercati c.d. incompleti); 5) l’esistenza di beni meritori promossi con sussidi ad attività culturali ed artistiche; 6) domanda aggregata di livello inferiore a quella ottimale (in grado di perseguire la piena occupazione vedi sul punto Ciocca che cita disoccupazione al 10% a livello nazionale, 20% al Sud; 30% tra i giovani, senza trascurare la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro che ci vede agli ultimi posti nell’Unione); 7) finanza pubblica funzionale mirata a perseguire l’efficienza allocativa delle risorse, la stabilità dei prezzi e l’equità distributiva; 8) la salvaguardia dell’ambiente oggi diventata una emergenza anche per via dei cambiamenti climatici – i privati da soli non combattono l’inquinamento; 9) la grande trasformazione che stiamo vivendo con la digitalizzazione dell’economia, l’utilizzo della intelligenza artificiale, internet delle cose e gli effetti sul sistema educativo; 10) i fenomeni migratori di massa che sono in essere e che si profilano all’orizzonte in dimensioni ancora più grandi e pericolose  se le Nazioni Unite non riescono a guidare un intervento pubblico coordinato sia in campo economico che in quello civile e militare per prevenire guerre tra Paesi membri e/o all’interno degli stessi. Si può lasciare la guida dei complessi fenomeni della globalizzazione solo alla finanza rapace?  

Non è un elenco esaustivo ma penso possa bastare. Come si vede sono molte le situazioni che richiedono l’intervento pubblico che ovviamente è sempre problematico. Non di rado, è distorto dai Gruppi di interesse organizzati e da disinformazione. L’informazione perfetta, il c.d. modello olimpico di Simon, non esiste nel settore privato né in quello pubblico. Il cattivo funzionamento della democrazia dipende da cattiva informazione, da conflitti di interesse, da partiti e movimenti politici che antepongono gli interessi di parte a quelli generali.  Se così, in termini empirici – afferma De Vincenti – non si possono imporre attraverso il TUSP limiti assoluti. Si può ragionevolmente accedere all’idea di eliminare le imprese pubbliche inefficienti in ossequio al divieto di spreco del denaro pubblico e, a un tempo, muoversi verso il superamento del TUSP abbandonando il vincolo ivi previsto del divieto di attività e valorizzando il vincolo di scopo anche in chiave di sussidiarietà.      

Tornando al pregevole volume di Astrid che viviseziona il TUSP, tenendo presente che detta riforma non mi sembra fattibile in tempi ravvicinati, mi pongo la domanda finale su  come valutare le troppe deroghe rispetto alle norme generali in un paese di guardie e ladri dove le burocrazie e le magistrature chiedono leggi casistiche e il governo a capo dell’esecutivo ha espropriato il Parlamento del potere legislativo; nessun potere dello Stato si fida degli altri due e tutti e tre si illudono che i problemi si risolvano scrivendo nuove leggi.  Negativamente se siete neoliberisti e credete alla favola dei mercati perfettamente efficienti. Positivamente se le deroghe necessarie risolvono realisticamente problemi relativi a fattispecie concrete che richiedono interventi pubblici risolutivi piuttosto che divieti generali (come quello di vietare all’operatore pubblico di creare una impresa pubblica) non consentirebbero. E sappiamo – come illustrato sopra – che la questione è di ben altra portata e riguarda la classica tripartizione delle funzioni del bilancio dell’operatore pubblico ai vari livelli: allocativa, di stabilizzazione, redistributiva.

 Dopo le massicce privatizzazioni degli anni 80 e 90 del secolo scorso, l’operatore pubblico ha oggi meno strumenti di intervento diretto e non causalmente Franco Bassanini si concentra non soltanto sull’attività di regolazione: “C’è bisogno dunque di buone regolazioni (non invasive e opprimenti, ma capaci di difendere e promuovere la concorrenza e nel contempo tutelare i valori e i beni comuni). Ma c’è bisogno anche di buone politiche pubbliche per promuovere un contesto favorevole alla crescita, all’innovazione e alla competitività: politiche pubbliche per la formazione, l’istruzione e la ricerca, per l’ammodernamento del sistema infrastrutturale, per la qualità dei servizi pubblici (dalla giustizia alla tutela della sicurezza delle persone e dei beni, dal servizio sanitario ai trasporti, dai sistemi idrici alla raccolta dei rifiuti, dalla tutela del suolo alla qualità ambientale): politiche capaci, in altri termini, di assicurare la produzione e la messa a disposizione dei beni comuni (la sicurezza, la salute, l’ambiente, la giustizia, l’istruzione, l’acqua, l’energia, ecc.) che spetta al pubblico garantire a tutti, anche in caso di fallimento del mercato” (Bassanini: XII). In sintesi, qui si sta parlando di buon governo, di un governo che sappia intervenire in maniera efficiente ed efficace vuoi con l’impresa pubblica vuoi con la migliore regolazione quando, per un motivo o per un altro, l’offerta di questi beni è insufficiente rispetto alla domanda.

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