Le caratteristiche inquietanti di Silicon Valley.

La Valle oscura, Adelphi Edizioni 2020,  è un memoriale piuttosto inquietante di Anna Wiener, una giovane donna newyorkese che ha lavorato in un’impresa editoriale e che, di sua iniziativa, si trasferisce in California per andare a lavorare nella favolosa Silicon Valley, seguendo la solita moda in vigore già negli anni ’70 del secolo scorso nota come California dream – creata dalla protesta giovanile di quegli anni contro la Guerra del Vietnam, dalla ricerca di modelli di vita alternativa (a quella imposta dal consumismo opulento) da parte dei ragazzi dei fiori, del movimento degli yippies (un pseudo movimento politico giovanile di impronta pacifista, con venature anarchiche, internazionalista e a un tempo comunitario, e dal fiorire della letteratura anti-capitalistica.

Si potrebbe dire che quel movimento contrastava Ronald Reagan prima come Governatore della California dal 1967 al 1975 e, successivamente 1981-89, Presidente degli Stati Uniti d’America. Ma ne è uscito battuto e forse, non casualmente, il nuovo capitalismo della sorveglianza trova le sue radici più profonde a Silicon Valley.  

C’è una prima parte del libro che descrive l’esperienza di Anna Wiener come quella della persona innocente (ingenua) che stenta a capire il contesto in cui sta lavorando ma probabilmente finge di essere tale trattandosi di persona che ha lavorato in una industria editoriale i cui componenti normalmente tengono gli occhi aperti sulla società in cui vivono per registrarne i fenomeni nuovi che vi si manifestano. Ma Lei non cita nessuno che prima di lei ha lavorato in ruoli diversi nella Silicon Valley o gli scritti di autori che hanno osservato e studiato il fenomeno, il venture capital, la finanza rapace patrimonio non solo di New York ma anche della California.   Qui avviene qualcosa di simile alla storica corsa all’oro della seconda parte del 19mo secolo con pochi protagonisti che si arricchiscono e i molti che riescono a guadagnarsi appena da vivere. Solo che questa volta l’oro non è la materia prima da scavare nelle miniere o da setacciare dall’acqua dei fiumi. Ora si tratta di raccogliere tutti i dati comportamentali – il surplus comportamentale della Shoshana Zuboff, mai citata, autrice di un altro libro di successo: Il capitalismo della sorveglianza. Sono i big dati che rilevano i social Networks come Google, Facebook, Microsoft, Amazon e via di seguito. I big data raccolti ed analizzati da algoritmi appositamente costruiti che profilano i comportamenti delle persone ed elaborano modelli predittivi che, letteralmente, sbaragliano le vecchie indagini di mercato sulle preferenze dei consumatori, e vengono venduti alle imprese di produzione e distribuzione. Naturalmente non si limitano a questo. Utilizzando i like, gli emoji, la lettura delle mail, la registrazione delle telefonate, degli spostamenti, dell’appartenenza a gruppi politici e non. Filmano città e campagne, strade e monumenti, tutto quello che vedono. L’aspirapolvere Roumba, elementare esempio dell’internet delle cose, elabora la mappa degli appartamenti in cui lavora e, se c’è un computer o un cellulare acceso, la invia a Google.

Dai big data si individuano non solo le preferenze per i consumi privati ma anche per i beni pubblici, le preferenze politiche, sessuali, e in generale, tutti i comportamenti. Le tradizionali indagini di mercato – anche di quello politico – rilevano di volta in volta quelle che sono le risposte e le preferenze espresse in seguito a specifiche domande proposte dai computer. A pag. 59 Wiener parla di “modalità di Dio” implicitamente una citazione del concetto dello “sguardo di Dio” come elaborato della Zuboff.  lo ripeto mai citata perché nel libro non ci sono citazioni di libri, saggi o articoli di giornale; non ci sono neanche i titoli dei numerosi capitoli sulla fauna umana che anima la Valle Oscura – raggruppati in tre parti: Incentivi, crescita, epilogo.

A p. 118 la Wiener afferma che gli ingegneri e/o esperti di computer science – spesso neanche laureati – che definiscono gli algoritmi, i codici, che progettano robot si comportano o si riducono a robot essi stessi. Si interessano solo alle macchine che stanno costruendo e niente altro. La cultura umanistica non li interessa con disappunto della Wiener. Tutt’al più vogliono capire i principi fondamentali del management aziendale e la finanza del venture capital.  La Wiener sembra non capire perché i giovani rampanti delle start up non amano i libri e la cultura umanistica che Lei occasionalmente proponeva loro. Sono individui razionali secondo il vincente paradigma neoliberista. E sono razionali quelli che massimizzano il proprio interesse, non temono il giudizio degli altri perché loro credono di essere i migliori giudici di sé stessi. È l’essenza del credo neoliberista e la California è il primo Stato della Federazione a recepire la rivoluzione di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia, e della sua scuola di Chicago.         

Tranne un accenno a pag. 98 e 143 nella prima parte di oltre 200 pagine non approfondisce il discorso sulla sorveglianza. Descrive in forma maniacale la vita ordinaria nella start up di analisi dei dati in cui lavora per circa tre anni per poi passare ad un’altra start up open source. Lei si occupa delle relazioni con i clienti. Scrive della predominanza di giovani uomini che elaborano gli algoritmi che godono di stipendi elevati e di generose opzioni sulle azioni della società. Scrive della scarsa considerazione in cui vengono tenute le donne e delle varie forme larvate o meno di molestie sessuali. Descrive tutte le feste aziendali dentro e fuori i locali dell’azienda, i vestiti indossati, le felpe con il marchio aziendale, i cibi e le bibite consumati, le strade che percorrono, i bar che frequentano, le case in condominio, gli appartamenti condivisi anche con uomini, i week end al lago Tahoe, il car sharing, le biciclette utilizzate, il degrado di certi quartieri di S. Francisco.    

Forse avrebbe capito meglio quello che era già successo prima che vi arrivasse Lei se si fosse informata meglio. Sempre in maniera anonima, la Wiener cita il caso Snowden dell’Estate 2013, scoppiato poco dopo il suo arrivo a Silicon Valley, il quale ha rivelato le attività di sorveglianza di massa della National Security Agency con il massiccio utilizzo dei big data prodotti e messi a disposizione da Google e dagli altri social networks.

Non cita quanto era successo dopo l’11 settembre 2001 giorno dell’attacco alle due Torri a New York  e al Pentagono a Washington quando il governo USA scopre che le imprese high tech della Silicon Valley avevano una massa di informazioni ben superiore a quelle a disposizione delle agenzie di sicurezza nazionale per cui queste ultime organizzano delle robuste sinergie con  le imprese high tech – sinergie ovviamente favorite dalla convenienza reciproca e anche da affinità elettive, di volta in volta, adattate ai Presidenti vincenti. Quello che era già avvenuto è che la sorveglianza di massa dei cittadini era passata dalle imprese high tech della Valle Oscura – che la svolgevano in primo luogo a scopo di lucro – alle agenzie di sicurezza di un grande paese formalmente democratico.  È evidente che dette tecnologie di controllo sociale e politico in democrazie deboli consolidano il potere dei governanti e possono condurre a veri e propri regimi totalitari. Vedi al riguardo le riforme costituzionali in Cina, Russia, Turchia, ecc. che estendono ad libitum il mandato presidenziale.   

Che dire di un’autrice come Anna Wiener e dello straordinario successo del suo Memoir? Ella appartiene a quel novero di scrittori che probabilmente non leggono quello che è stato scritto prima da autori che hanno trattato la stessa materia in modo approfondito e con cognizione di causa. Un fenomeno colto bene da Giovanni Sartori sul Corriere Cultura del 5-10-2004. L’eminente politologo attribuisce detto comportamento ai giovani autori che si occupano di teoria della democrazia – e i big data accumulati e utilizzati illegalmente da imprese private e agenzie pubbliche mettono a rischio la democrazia e i diritti alla privacy delle persone – “i nuovi autori più giovani, scrivono sempre più libri senza bibliografie inventati dal loro genio sorgivo. Le loro letture (scarse) risalgono, con poche eccezioni, a venti anni, e più che altro citano coetanei e compagnucci di cordata altrettanto sprovveduti di loro”.   La Wiener non cita neanche i suoi coetanei che, probabilmente, non conosceva, ma rispettando una buona prassi americana ringrazia 68 persone tra cui tre familiari che l’hanno aiutata a scrivere e commercializzare il libro.

Nuova serie della telenovela sulla riforma elettorale. E la riforma della PA?

Un articolo del costituzionalista Enzo Cheli sulla Rivista il Mulino del 9-12-2020 e un editoriale d Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 28-12-2020, in qualche modo, rilanciano il dibattito sulla riforma del sistema elettorale. Dopo che il Parlamento ha approvato la riforma della drastica riduzione del numero dei parlamentari, in effetti, è necessario rivedere il sistema elettorale c.d. Rosatellum ed occorre anche ridisegnare i collegi elettorali. Si tratta di regole importanti: collegi ampi espandono il numero dei voti necessari per eleggere un rappresentante ma rendono più problematico il rapporto diretto tra agente e principale se all’ampiezza del collegio corrisponde una maggiore eterogeneità delle preferenze. Il sistema elettorale si traduce in un meccanismo che, in un modo o nell’altro, traduce i voti in rappresentanti.  Dico subito che non si tratta di meccanismi neutrali e semplici. Entrambi possono essere manipolati ad arte per favorire il partito o i partiti di maggioranza e rendere più difficile l’alternanza.

Enzo Cheli che ha studiato a lungo i sistemi elettorali sulla Rivista l Mulino 9-12-2020 afferma che per 45 anni (1948-19939) in Italia si è utilizzato stabilmente “un sistema elettorale di tipo proporzionale puro sia per la Camera che per il Senato che poggiava su un assetto di partiti stabili e bene organizzati”. È vero ma io aggiungo il vincolo esterno imposto dalla Guerra Fredda (1). In generale, è chiaro che se hai un partito egemone che anche con un sistema elettorale proporzionale raccoglie una maggioranza relativa elevata, il sistema funziona anche se non garantisce l’alternanza.

Il secondo periodo (27 anni) di Cheli è quello dell’ultimo trentennio; è quello che vede le riforme elettorali di stampo maggioritario: elezione diretta dei Sindaci, dei presidenti delle province e dei Presidente delle Regioni nonché di tre importanti leggi elettorali per la Camera e per il Senato. La prima del 1993 che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica Mattarella che prevedeva l’assegnazione dei seggi per 2/3 con il metodo proporzionale e per 1/3 con il sistema maggioritario.    La seconda è la legge Calderoli del 2005. La terza è la legge Renzi del 2015 mai sperimentata. La quarta e la legge Rosato del 2017 attualmente in vigore anche se censurata in parte dalla Corte Costituzionale. Secondo Enzo Cheli, il primo periodo sarebbe stato caratterizzato da stabilità, il secondo da forte instabilità. Secondo Paolo Mieli, storico e in parte politologo, le riforme degli anni 90 sarebbero state provvidenziali e per 15 avrebbero assicurato un’alternanza addirittura virtuosa. Sostiene inoltre che il mandato diretto delle urne al Presidente del Consiglio garantirebbe maggiore legittimazione all’esecutivo.

Dagli anni 90 del secolo scorso il leit-motive delle riforme elettorali propalato dalla destra ma anche dal Centro-sinistra seppure con minore enfasi è stato ed è riforme elettorali di stampo maggioritario, abbandono della Repubblica parlamentare e introduzione del Presidenzialismo o quanto meno del semipresidenzialismo alla francese con esplicito rafforzamento del ruolo dell’esecutivo.  È da chiedersi se le continue modifiche del sistema elettorale sono fatte per contribuire a migliorare il funzionamento della democrazia o per altri motivi.

Tra i costituzionalisti di professione e altri esperti si discute se le riforme elettorali costituiscano vere e proprie riforme costituzionali. Il distinguo in Italia viene basato sul tipo di legge che le due riforme richiedono: le riforme costituzionali richiedono le procedure speciali previste di cui all’art. 138 Cost.  mentre le riforme elettorali si mettono in atto con legge ordinaria.  Ma questo criterio formale, secondo me, non racconta tutta la storia perché se con legge ordinaria e con certe modifiche ai regolamenti parlamentari si compromette il gioco istituzionale e si consente al governo, in linea di prassi, di espropriare il Parlamento del potere legislativo si viola in fatto il principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato. Se una delle Camere – sulla carta paritaria – tra Natale e Capodanno è costretta ad approvare la legge di bilancio senza avere il tempo di esaminarla attentamente, in fatto, si è attuato il bicameralismo imperfetto è in maniera spuria il Presidenzialismo. Si può sostenere fondatamente ancora che la forma di Stato è una Repubblica parlamentare come previsto dalla Costituzione del 1948?  Al di là dei principi costituzionali non sono i comportamenti dei governanti che contano?

Una seconda osservazione riguarda l’appropriatezza di un sistema elettorale maggioritario ad una società pluralista al limite della frammentazione dove sono diffusi la faziosità e il particolarismo. Secondo me, detto sistema non funziona in un Paese a bassa coesione sociale specialmente in una fase storica di polarizzazione del dibattito politico, in un sistema politico in cui i partiti populisti si dividono persino sull’appartenenza all’Europa, sull’euro, sull’Alleanza atlantica, sulla preservazione della Repubblica parlamentare e quant’altro. Paolo Mieli parla di virtuosa alternanza realizzata dal sistema maggioritario. E’ vero l’alternanza c’è stata ma chiamarla virtuosa mi sembra del tutto esagerato se penso che le coalizioni che si sono alternate al governo non hanno assicurato continuità in politiche fondamentali come la lotta alle diverse organizzazioni criminali che imperversano nel paese, alla corruzione, alla politica di consolidamento dei conti pubblici, a quella della ricerca e dell’innovazione necessaria per il rilancio della produttività e competitività del sistema, ecc.. Il Governo di centro-destra del 2001 cancella l’imposta sulla prima casa togliendo un cespite fondamentale per l’autonomia tributaria dei Comuni e l’imposta di successione. Il successivo governo di centro-sinistra reintroduce quest’ultima ma con quote esenti eccessive che ne riducono il gettito a 6-700 milioni all’anno come se l’Italia non fosse il quarto paese più ricco d’Europa ed il nono nel mondo. Il governo di centro-sinistra riduce la progressività dell’Irpef fissando l’aliquota marginale al 43% mentre il centro-destra vuole la flat tax e condoni a go go con buona pace della lotta all’evasione fiscale. Lo schieramento di destra vuole lo spostamento del carico fiscale dalle persone alle cose che penalizzerebbe i redditi medio bassi e un sistema tributario che continui ad alimentare le rendite parassitarie come lo spiega bene Luca Ricolfi nel suo ultimo libro sulla società signorile di massa recensito anche in questo blog. Che cosa significa tutto questo? Che l’Italia è un paese a bassa coesione sociale dove non c’è un principio condiviso di giustizia sociale e, di conseguenza, non ci sono politiche importanti condivise come quelle menzionate sopra. In una situazione di forte aumento delle diseguaglianze sociali servirebbe una politica tributaria maggiormente redistributiva ma questa non è priorità del centro-destra né del centro sinistra. E allora ecco l’elettore comune rimane frastornato. Non sa per chi votare – e non a caso gli vengono proposte liste bloccate – o vota per movimenti politici improvvisati come il M5S.

              L’ascesa del M5S e della Lega al governo del Paese e la crisi degli altri partiti liquidi si può dire che abbia migliorato il funzionamento del sistema politico italiano? In Parlamento prevalgono i competenti o gli incompetenti? Si può dire che abbiamo visto un’alternanza virtuosa? Voglio sottolineare di nuovo questa questione dell’alternanza in un contesto di polarizzazione delle posizioni politiche che porta al ribaltamento o sostanziale modifica delle politiche del governo precedente in un contesto in cui i governi di centro-destra hanno fatto di tutto per delegittimare la magistratura e la pubblica amministrazione. La riforma della giustizia si è ridotta alla complicazione dei codici delle procedure civili e penali certo a maggiore garanzia degli imputati e alla proposta di separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici giudicanti finora non ottenuta ma mai ad una valutazione attenta dell’adeguatezza del numero dei giudici e del personale tecnico che li assiste e/o della efficienza della sua organizzazione.

La riforma della pubblica amministrazione è un’altra telenovela senza fine. Da 70 anni si va avanti con provvedimenti puntuali che mai hanno portato ad un serio miglioramento della sua capacità di implementare le leggi confuse ed incerte che tutti i governi hanno fatto approvare nelle diverse legislature. Il discorso su dette leggi sarebbe lungo e complesso. Qui mi basta ricordare che dagli anni ‘80 il discorso sulle riforme amministrative a livello europeo prevedeva il rafforzamento delle capacità amministrative delle regioni tendenzialmente sul modello dei Lander. In Italia il Partito dei sindaci (per lo più irresponsabili) forti della nuova legge sulla loro elezione diretta negli anni ‘90 temeva il un nuovo centralismo di stampo regionale e riusciva a ottenere che tutte le funzioni amministrative con il nuovo art. 118 del Tit. V Cost.  passassero ai Comuni salvo il potere delle regioni di esercitare la sussidiarietà verticale.  Ma 7000/8103 comuni sono piccoli ed hanno scarsa o nulla capacità amministrativa. Resistono alle fusioni pure incentivate e, tuttora, non comunicano tra di loro nonostante ci siano state diverse leggi che ne prevedono la messa in rete. Da 20 anni il paese è il mezzo al guado non sa se andare verso un assetto maggiormente decentrato (federale) con perno sulle regioni – magari anche esse accorpate – oppure verso una ricentralizzazione delle funzioni assegnate alle regioni dall’art. 117 Cost. novellato nel 2001.  Allo stato attuale non è chiaro quali siano le strutture di amministrazione attiva ai vari livelli di governo sub-centrale. E la questione non si risolve con la istituzione di cabine di regia al livello della Presidenza del Consiglio dei ministri. Semmai dette cabine dovrebbero essere collocate a livello dei diversi ministeri e dei competenti assessori regionali per guidare e controllare da vicino le strutture di amministrazione attiva che hanno l’esperienza di gestione di progetti pubblici e privati e sanno cosa funziona e non funziona nella fase attuativa. Questo per dire che in una fase storica in cui andiamo incontro a grandi trasformazioni come la digitalizzazione e la conversione verde dell’economia, lo sviluppo sostenibile abbiamo bisogno di condivisione piena di detti obiettivi che difficilmente può venire da governi instabili e politicamente contrapposti. È chiaro che le politiche appena menzionate e le riforme legislative che ci chiede la Commissione europea in relazione al Recovery Plan non sono politiche attuabili nel breve termine ma richiedono piani a medio e lungo termine da affidare a strutture amministrative stabili e, allo stesso tempo, flessibili. Una volta definiti e scelti i progetti, una loro congrua attuazione può venire solo da strutture di amministrazione attiva altamente professionalizzate e stabili che attuino sul serio quel sacrosanto principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa – previsto nel d.lgs. n. 29/1993 di attuazione della legge n. 421/1992 voluta da Giuliano Amato e Sabino Cassese.  La nostra pubblica amministrazione è vecchia e di formazione prevalentemente giuridica. C’è l’occasione per ammodernarla e attrezzarla per le nuove esigenze con ingegneri, economisti e tecnici vari. Le biblioteche sono piene di studi ed analisi che indicano come farlo ma la nostra classe governante ai vari livelli sembra ignorarne persino l’esistenza.               

  1. vedi Giorgio Galli, Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa, universale Paperbacks, il Mulino, Bo, 1975. Il sistema politico italiano era bloccato e quando per necessità – per la fine del primo Centro sinistra, la crescita elettorale del PCI all’elezioni amministrative del 1975 e poi a quelle politiche del 1976, il Presidente della DC  Moro chiede  l’appoggio esterno al governo di solidarietà nazionale, l’operazione fu fortemente osteggiata dal governo USA e in particolare da Henry Kissinger allora segretario di Stato – da sempre contrari alla partecipazione diretta del PCI al governo di un Paese membro della NATO. Quando nel 1979 il PCI chiese apertamente sdetta partecipazione, la richiesta fu prontamente respinta dalla Democrazia Cristiana. La possibile alternativa prospettata da Giorgio Galli non si concretizzò.   

Anatema contro chi propone una imposta patrimoniale personale e progressiva.

La presentazione dell’emendamento Fratoianni-Orfini che propone una imposta patrimoniale ordinario ha scatenato un putiferio che non cessa di calmarsi. Il PD prende le distanze confermando di essere il partito dei laureati, degli intellettuali benpensanti, dei ricchi e delle classi agiate. La destra carica a testa bassa come il toro eccitato dal drappo rosso.  Molti reagiscono sostenendo che, da un lato, ci sono già delle imposte patrimoniali reali e, dall’altro, non è il momento giusto per razionalizzare la tassazione patrimoniale. E se non ora, quando?

Voglio ricordare due precedenti storici molto significativi. Il primo risale ad un secolo fa all’indomani della fine della Prima Guerra mondiale. Nel 1919 viene presentato il Progetto Meda che proponeva un’imposta ordinaria sul patrimonio che doveva accompagnare l’istituzione di un’imposta personale sul reddito delle persone fisiche. Quest’ultima al posto della imposta reale di ricchezza mobile. Nello stesso anno il Gov. Nitti riesce a fare approvare il R.D.L. 24-11-1919, n. 2169 per una imposta straordinaria per la quale si prevede una rateizzazione massima di 20 (poi ridotti a 10) anni e, quindi, in fatto, come se fosse stata una imposta ordinaria. Ricordo inoltre che nel 1923 viene introdotta dal Gov. Mussolini (Mifin A. De Stefani) la imposta complementare e progressiva sul reddito delle persone fisiche anche per integrare la ricchezza mobile con un supplemento di progressività e discriminazione qualitativa dei redditi vedi R.D. 30-12-1923 n. 3062.

Il secondo precedente legislativo risale al 1939 – all’inizio della seconda Guerra Mondiale – e al Ministro delle finanze Thaon De Revel che riesce a far approvare una legge che introduce l’Imposta generale sull’entrata (sugli scambi: IGE) e un’imposta ordinaria sul patrimonio con lo scopo fondamentale – teorizzato dagli economisti classici – di attuare la discriminazione qualitativa dei redditi tra quelli di lavoro e quelli di capitale, d’impresa, ecc..

Paradossalmente quest’ultima imposta incontra critiche e opposizioni in sede di Commissione economica dell’assemblea costituente. Di conseguenza l’imposta patrimoniale ordinaria che, nel frattempo, aveva assunto un ruolo significativo nel sistema tributario italiano viene riscattata – in fatto abrogata – a mezzo dell’imposta straordinaria prevista D.L. 19 marzo 1947 n. 143 con aliquote da svendita.

L’argomento dell’imposta patrimoniale è stato ripreso in sede di Commissione per lo studio della riforma tributaria degli anni 1960 ma esso viene accantonato “a causa delle difficoltà tecniche che avrebbe incontrato e dei gravi inconvenienti che avrebbe provocato”. Vedi V. De Nardo e R. Napolitano, La riforma tributaria, in Tributi aprile 1971: p. 27 che riportano opinioni e pareri precedenti espressi in sede ministeriale e parlamentare. 50 anni dopo lo stesso argomento viene propalato a iosa. Devo dire che con la riforma del 1971 fu introdotta l’imposta locale sui redditi ILOR con lo scopo di sostenere la discriminazione qualitativa dei redditi ma detta imposta fu contestata fortemente anche davanti alla Corte costituzionale e infine abrogata. Fu sostituita dall’IRAP che sta subendo la stessa sorte.

Una breve osservazione sull’argomento secondo cui l’introduzione di una imposta patrimoniale danneggerebbe la classe media. Il governo ha rinviato la riforma dell’Irpef al 2021 e, semmai approvata, per farla entrare in vigore nel 2022. Se il governo avesse veramente a cuore le sorti della classe media avrebbe dovuto procedere con l’abrogazione immediata del salto di imposta di 11 punti nell’aliquota marginale tra il secondo e terzo scaglione e, magari, introdurre qualche altro scaglione in alto con incremento dell’aliquota marginale massima. Altrettanto urgente è l’innalzamento delle soglie esenti dell’imposta di successione che produce gettito risibile (6-700 milioni l’anno) in uno dei Paesi più ricchi dell’Europa e del mondo.  Aumenta il debito pubblico e gli oneri del suo servizio ricadranno pesantemente sulle generazioni future. Scartate improbabili cancellazioni del debito servono imposte che assicurino risorse quanto meno per pagare il servizio del debito ed assicurare ai giovani una dotazione universale di capitale al raggiungimento della maggiore età. A livello internazionale, queste sono le proposte che vengono avanzate da più parti non solo da economisti e organizzazioni internazionali specializzate per combattere le crescenti diseguaglianze. Ma in Italia non se ne può discutere serenamente e consapevolmente.

Vito Tanzi revoca in dubbio che l’economia sia materia scientifica.

Il libro di Vito Tanzi, Advanced Introduction to Public Finance, EE, Elgar Publishing, 2020, è un misto di analisi teorica e di storia del pensiero economico e finanziario e, proprio per questo motiv0, rientra nella serie di Introduzioni avanzate. Grande attenzione viene data alla letteratura sulle procedure decisionali nel settore pubblico e in materia finanziaria proprio perché queste si prestano a creare facili illusioni come ci ha insegnato Amilcare Puviani 1903. La maggior parte dei contribuenti che non ha studiato economia e scienza delle finanze è poco avvertita dei fenomeni di traslazione e incidenza delle imposte e, quindi, non distingue, tra chi, in prima istanza, è percosso dall’imposta e chi ne rimane effettivamente inciso dopo gli aggiustamenti reali che avvengono nel mercato. Tasse anche basse infatti modificano i comportamenti degli operatori economici come le famiglie e le imprese. Naturalmente, evitare ogni carico di imposta è missione impossibile, si tratta di minimizzarli e limitarli a quelli veramente inevitabili (68). Da un lato Tanzi ridimensiona le analisi di equilibrio parziale sull’eccesso di pressione di certe imposte che, come tali, non tengono conto dei benefici che apportano ai contribuenti e alla società e dice che quelli che si occupano di riforme fiscali dovrebbero preoccuparsi di più della fattibilità amministrativa di certe imposte anche nei casi in cui questa è fortemente condizionata dalla quantità e qualità del personale assegnato alle amministrazioni finanziarie. Di conseguenza, Tanzi ridimensiona anche la regola di Ramsey (1927) tassare di più i beni a domanda rigida che è alla base della teoria dell’ottima imposta. Afferma quindi che le questioni di progressività, redistribuzione e di giustizia sociale sono questioni essenzialmente politiche; sono e restano problemi di second best (72).

Tanzi utilizza quindi alcune statistiche essenziali per descrivere e valutare l’evoluzione della pressione tributaria negli ultimi 150 anni. Nel 1870 nei paesi avanzati la pressione tributaria (PT) si aggirava sotto il 10% del PIL, solo tre paesi registravano un dato più elevato. Si mantenne stabile sino al 1913. E questo in un periodo di forte sviluppo e di accelerazione della globalizzazione. Nel 1920, la PT sale al 14%, nel 1937 al 17%; nel 1960 al 29%.  Per un gruppo di paesi OCSE la PT passa dal 24,9% del 1965 al 31,5% del 1985, al 33% del 2005 (81-82). Controcorrente, alcuni paesi de Centro e Nord Europa mantengono la PT a livelli elevati: la Svezia al 50%  nel 1987; la Danimarca al 48% ancora nel 2005; il Belgio al 44% nel 2013-14; la Francia al 45% nel 2014; la Finlandia al 46% nel 1994; la Norvegia al 44% nel 1986 salvaguardando crescita economica e alti livelli occupazionali e, quindi, smentendo  teorie dominanti (in molti paesi ma non in tutti) sugli effetti negativi delle alte aliquote delle imposte (84). Intanto si era affermato il credo neoliberista e la PT in molti paesi si stabilizza. Per converso, in altri paesi, non si riesce a frenare la crescita della spesa pubblica e, quindi, il conseguente aumento del debito pubblico. Emblematico anche il caso dell’Italia dove nel 1981 si introduce il cosiddetto divorzio tra il Tesoro e la Banca centrale confidando nella disciplina che il mercato avrebbe imposto ai vari governi e invece il debito passerà dal 59,9% del 1981 al 120,9% del 1991 sfidando non solo la disciplina dei mercati ma anche la coerenza interna di governi che facevano leggi di bilancio a parità di pressione tributaria ma non controllavano il versante della spesa.  Allora, in Italia, ministero delle finanze e del tesoro erano distinti e separati. In presenza di governi di coalizione essi venivano assegnati a personalità di partiti diversi non sempre propensi a coordinarsi strettamente anche perché portatori di diverse preferenze circa le regole fiscali da applicare sugli equilibri di bilancio e/o la sostenibilità del debito pubblico.

All’interno di questi dati statistici è chiaro che la struttura dei sistemi fiscali è fortemente condizionata da due fattori di carattere esterno ai singoli paesi: 1) la forte accelerazione della globalizzazione e 2) la tax competition. Entrambi i fattori sono imposti dalla logica neoliberista per cui, da un lato, la creazione di catene di valore a livello internazionale è comunque positiva perché crea opportunità di sviluppo nei PVS, dall’altro, pone dei freni al potere dei sindacati nei paesi sviluppati. Per decenni si è discussa la necessità di regole che impedissero ai paesi meno avanzati di praticare il dumping sociale ma non si è fatto niente. Per altri verso, i paesi più avanzati hanno visto la competizione fiscale come uno strumento che potesse porre un freno più efficace alla crescita della spesa pubblica. Vedi il caso emblematico dell’Unione europea che negli anni 90 abbandona i piani di armonizzazione fiscale e, in pratica, lascia il campo libero alla competizione fiscale consentendo al suo interno l’esistenza di 7-8 paradisi fiscali che aiutano i ricchi e le organizzazioni criminali a nascondere gran parte della loro ricchezza – anche quella di provenienza illegittima.

Tanzi riconosce la necessità di una intensa cooperazione tra gli Stati e le loro amministrazioni finanziarie che ritiene poco probabile anche se non si stanca di riproporre una Tax Authority a livello mondiale (93).  Anche in Italia sono state approvate rigorose leggi sul riciclaggio e contro la evasione fiscale ma non di rado – come succede anche in altri paesi – dette leggi non vengono applicate rigorosamente per via della lentezza delle rogatorie internazionali che esse comportano oppure perché le agenzie fiscali vengono tenute sottodimensionate in termini di personale specializzato in controlli altamente complicati.  Non ultimo, l’Italia soffre di una lunga tradizione di gestione politica dell’accertamento oggi più che mai attuale data la polarizzazione della politica sull’argomento per cui, da un lato, l’opposizione ritiene e fa credere ai più che la riduzione generalizzata  delle imposte sia la ricetta magica per rilanciare  l’economia;  propone condoni di ogni tipo e anche la maggioranza ne esce condizionata per cui è difficile pensare che una gestione lassista dei conti pubblici possa accompagnarsi ad una rigorosa lotta all’evasione fiscale.  Di conseguenza, neanche la maggioranza vuole pagare i costi di impopolarità di una rigorosa lotta all’evasione.

Tornando alle penetranti osservazioni di Tanzi sulle imposte dirette e il rapporto necessario tra ampiezza delle basi imponibili e altezza delle aliquote Egli osserva giustamente che se riduci le basi imponibili inevitabilmente hai bisogno di aliquote più elevate. Se non hai a lato delle imposte sul reddito imposte anche sul patrimonio inevitabilmente devi contare sulla tassazione indiretta dei consumi in particolare delle imposte sul valore aggiunto. Critica il presunto trickle down effect per cui la forte riduzione delle aliquote marginali delle imposte dirette avrebbe portato ad una più alta crescita e, a sua volta, ad una crescita dei salari medi. Non c’è alcuna evidenza empirica per detto effetto e, per altro verso, si discute poco se la riduzione delle alte aliquote ha contribuito all’aumento delle diseguaglianze. Discute criticamente anche la tesi di R. Lucas e L. Summers a favore dell’abolizione delle imposte sulle società dichiarando che non la condivide e cita il caso negativo della riforma fiscale di Trump 2017. Afferma che la riduzione dell’imposta sulle società ha portato solo all’acquisto di azioni di altre società ma non al capital deepening o acquisto di nuovo capitale con il quale è stata giustificata (91).

Più in generale Tanzi osserva che le scelte fiscali dipendono anche dal contesto storico, dal momento congiunturale, dalla politica monetaria accomodante o meno, ecc.. Solo se si osservano attentamente questi diversi fattori si riesce a capire come funziona o non funziona la politica fiscale dei governi di ieri, oggi e domani. Elenca le problematiche che devono essere affrontate quando si analizzano le questioni dell’efficienza e dell’efficacia di un sistema tributario avendo presente che limitarsi ai soli aspetti del prelievo non basta e che bisogna guardare anche all’utilizzo più o meno efficiente ed efficace della spesa pubblica.  Riassume queste problematiche con il termine ecologia dei sistemi tributari per cui questi sono condizionati in vario modo dalla struttura economica, dalla qualità dell’attività governativa, dal comportamento degli elettori e dei contribuenti, dal grado di inflazione che caratterizza un dato paese e dalle diverse fasi della globalizzazione e della concorrenza economica e fiscale.

Ricorda le difficoltà di tassare i patrimoni complessivi. Cita Piketty 2014 e le crescenti diseguaglianze dovute anche alla caduta della quota dei redditi di lavoro dipendente.  Osserva che ove applicate le imposte personali e progressive sui patrimoni hanno dato gettiti limitati in confronto ai casi in cui sono applicate in maniera estesa property taxes, ossia, imposte patrimoniali reali e proporzionali. Tuttavia considera che oggi la proprietà immobiliare è solo una parte dei patrimoni più grossi e, quindi, richiama l’attenzione degli economisti sui trasferimenti inter vivos e le successioni che contribuiscono non poco a consolidare l’esistente ed iniqua distribuzione della ricchezza.

Nel  cap. 9 Tanzi tratta il crescente ricorso alla regolamentazione che è strumento formalmente alternativo in mano all’operatore pubblico ma, in pratica, equivalente alle imposte per gli effetti economici, in quanto può essere utilizzato per ridurre i costi sociali  di certe operazioni o per produrre e/o assicurare rendite ad alcune clientele fiscali. Ovviamente anche la regolamentazione se bene articolata e sottoposta a periodiche revisioni può contribuire al buon governo. Osserva quindi che come le tasse anche le regolamentazioni sono ostracizzate dagli economisti neoliberisti – o libertarian come li definisce lui  – ma siccome neanche i mercati operano sempre in maniera efficiente ed efficace né producono distribuzioni accettabili del reddito e, meno ancora, dei patrimoni il Nostro realisticamente afferma che non è saggio rigettare la regolamentazione in blocco. Si tratta, invece, di vedere come essa può contribuire a costruire un sistema più equo ed efficiente (124).

Nel cap. 10 si occupa di deficit nei conti pubblici e debito pubblico. Ma qui ci limitiamo a riportare la sua opinione secondo cui la versione originale keynesiana non contemplava un ruolo attivo della politica monetaria. Negli sviluppi delle teorie keynesiane e post-keynesiane si è teorizzata la necessità di un coordinamento e/o un ruolo accomodante atteso che politiche monetarie restrittive avrebbero neutralizzato per ipotesi il segno espansivo della politica fiscale. Naturalmente le cose sono cambiate dopo la rivoluzione monetarista che mette in discussione gli assunti principali delle politiche keynesiane e oggi, specialmente nella Unione europea sino a qualche anno fa, non solo si è teorizzato ma anche praticato un ruolo servente della politica fiscale (l’austerità) rispetto alla politica monetaria anche se non mancano le voci di banchieri centrali secondo cui con tassi prossimi a zero da sola la politica monetaria non ce la fa ad assicurare crescita e sviluppo sostenibili. Negli ultimi 50 anni, sulla spinta dei monetaristi si è rafforzata l’autonomia e l’indipendenza delle Banche centrali ma questa operazione provoca inevitabilmente tensioni con le autorità fiscali più decisamente caratterizzate politicamente anche perché, in non pochi casi, gli obiettivi fissati negli Statuti delle banche centrali non coincidono con quelli cangianti delle autorità di politica economica e finanziaria. 

Quindi Tanzi riprende il discorso della forte crescita della spesa pubblica e individua due cause strettamente connesse. L’invecchiamento della popolazione nei paesi più ricchi e la connessa esigenza di trasferimenti pubblici sostitutivi di quelli che prima venivano operati all’interno delle famiglie – ovviamente più facoltose. Da qui la necessità di politiche redistributive più consistenti a favore delle famiglie con redditi medio-bassi. PQM anche Tanzi prevede un ruolo crescente delle imposte patrimoniali per mettere i governi in grado di finanziare i necessari trasferimenti sociali (138).

Nelle conclusioni Tanzi revoca in dubbio che l’economia sia materia scientifica. L’economia è scienza sociale ed appartiene al grande settore delle c.d. humanities. I governi non possono essere condotti da robot che seguono regole chiare e semplici (158). Aggiungo io che governare gli uomini a mezzo dei robot e dell’intelligenza artificiale è possibile se le persone fossero ridotte a robot con gli stessi gusti per i consumi privati, le stesse preferenze   per i beni pubblici e gli stessi prevedibili comportamenti come cercano di farci diventare le imprese del capitalismo della sorveglianza.  Tanzi cita il modello agente-principale che stenta a funzionare bene quanto i compiti assegnati all’agente sono numerosi e molto complessi e i principali non riescono a controllare i loro agenti. Secondo me, perché, come detto sopra, gusti e preferenze sono ancora fortemente differenziati a causa delle forti diseguaglianze. Visto che anche Tanzi cita en passant Google, mi viene di aggiungere che oggi con le nuove tecnologie della digitalizzazione, internet delle cose e l’utilizzo diffuso dell’intelligenza artificiale molte di queste differenze possono essere ridotte. E’ vero che, come dice Tanzi, oggi non basta più teorizzare il mercato di Adamo Smith per il quale bastavano poche e semplici regole per il suo buon funzionamento. Oggi il mercato internazionale è globalizzato e abbisogna di essere governato adeguatamente. I mercati interni delle principali potenze del mondo sono dominati da nuovi poteri oligopolisti che mirano non solo a standardizzare i consumi ma anche a cambiare i comportamenti anche elettorali dei cittadini vedi Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, 2019. Oggi questi poteri privati collaborano con i poteri pubblici ed influenzano le elezioni politiche. Nei paesi autoritari le nuove tecnologie consolidano il potere di leader autocratici che possono permettersi di far approvare riforme costituzionali che assicurano loro il potere per diversi decenni se non proprio a vita. In questi termini, l’uso spregiudicato di queste nuove tecnologie mette a rischio anche il funzionamento della democrazia nel mondo. Ma il cittadino comune non lo sa o non n’è pienamente consapevole. Sono gli arcana imperii del XXI secolo.

 La lettura di questo libro è altamente raccomandabile perché è un distillato di saggezza prodotta da un’ampia conoscenza della letteratura rilevante, dalla storia del pensiero economico e finanziario e da una trentennale esperienza operativa con il FMI in giro per il mondo.

Luci e ombre nelle proposte di riforma fiscale raccolte dal Sole-24 Ore

AAVV, Fisco. Le tasse del futuro. Il cantiere fiscale nelle analisi del Sole 24 Ore, 2020.

Il Direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini ha aperto le pagine del maggiore quotidiano economico-finanziario a interventi esterni di quattro ex ministri delle finanze (Vincenzo Visco, Franco Gallo, Giulio Tremonti e Giovanni Tria), di alcuni suoi editorialisti (Jean Marie Del Bo, Salvatore Padula, Dino Pesole), di docenti universitari ed esperti in materia fiscale. Tra gli interventi prevalgono, in modo schiacciante, i professori di diritto tributario anche con più di un intervento. Si tratta di iniziativa benemerita che va apprezzata specialmente in un contesto in cui, nei mesi scorsi, si pensava di fare una riforma fiscale ampia senza approfonditi studi preparatori.  

La maggior parte degli interventi vorrebbero una riforma all’insegna della progressività, della semplificazione, della trasparenza, della riduzione della pressione tributaria, riduzione delle agevolazioni fiscali e/o tax expenditures. È evidente come sia molto facile enunciare tali obiettivi ma pochi si rendono conto che alcuni di essi non convergono naturalmente e, non di rado, è molto difficile bilanciarli adeguatamente specialmente se molti tributaristi restano ossessionati dal tributo e non considerano che, in via prioritaria, bisognerebbe partire dai bisogni pubblici da soddisfare, delle spese pubbliche necessarie per soddisfarli e dell’equilibrio dei conti pubblici gestiti sistematicamente in deficit e ora in forte crescita per via dell’acuirsi della crisi sanitaria e della conseguente crisi economica. Nella Nadef 2020 si prevede, per fine anno, un deficit nell’ordine del 10% del PIL all’incirca pari alla riduzione del reddito e non sono pochi, specialmente tra gli oppositori dell’attuale maggioranza, quelli che teorizzano una riduzione della pressione tributaria. Questo ovviamente non esclude che per pensionati e lavoratori dipendenti – le due categorie sociali maggiormente tartassate – si possano prevedere degli sgravi ma non si può ipotizzare una riduzione generalizzata della pressione tributaria, semmai il suo contrario se, in un modo o nell’altro, consapevolmente o meno, non vogliamo che il paese vada incontro ad una grave crisi finanziaria.

Affrontare in maniera organica i trattamenti differenziali, le agevolazioni fiscali o tax expenditure significa mettersi contro tutte le tax clienteles e probabilmente dover battere in ritirata. Servirebbe invece una strategia politica come quella adottata durante la riforma Reagan degli anni ’80 per cui chi proponeva un trattamento differenziale che comportava una minore entrata doveva indicare un’altra fonte equivalente di gettito. Questo in osservanza alla regola secondo cui le riforme fiscali vanno studiate a parità di gettito definendo preventivamente e con precisione gli obiettivi che si intendono perseguire. In teoria, questi sono riassunti in termini di equità ed efficienza ma, in pratica, bisogna andare oltre. In ogni caso occorre necessariamente intervenire sulla riduzione del numero delle agevolazioni (600) se si vogliono recuperare risorse da spendere in modo più efficiente ed equo. Se come sembra questo governo non riuscisse a proporre un approccio selettivo non resta che prenderne atto e procedere con un taglio orizzontale come ha proposto Mauro Marè presidente di apposita Commissione. Nonostante l’accorgimento di cui sopra neanche il legislatore USA del 1986 riuscì a fare tagli selettivi delle tax expenditures e finì coll’adottare la Alternative Minimum Tax. Queste rimanevano nel numero esistente ma il contribuente poteva usufruirne entro i limiti della AMT.  

Tutti, esperti e non, propongono una riforma di ampio respiro come se, in materia di imposte, da un giorno all’altro, si potessero inventare nuovi principi anche costituzionali e criteri operativi nuovi nella gestione amministrativa di un sistema tributario. Per questi motivi, concordo con Salvatore Padula il quale non vede all’orizzonte alcuna riforma radicale del sistema tributario vedi p. XVI. Secondo me, i motivi sono tre: due di carattere sovranazionale e uno interno all’Italia. A livello internazionale, nonostante gli studi e le proposte del FMI e dell’OCSE, il G-20 che ha voce in capitolo fa poco o niente per mettere sotto controllo la concorrenza fiscale al ribasso; lo stesso dicasi al livello dell’Unione Europea dove pure imperversa la concorrenza fiscale promossa e attuata con profitto da 7-8 paradisi fiscali interni. Sintomatico e non casuale il fatto che, dopo le dimissioni del portoghese Mario Centeno, a capo dell’Eurogruppo sia stato eletto un politico irlandese come Paschal Donohe.  È vero che l’Eurogruppo è un organismo informale ma gli esperti di affari europei sanno che, senza il  consenso di questo gruppo, le varie proposte in materia economico-finanziaria non vanno avanti.   Il terzo motivo è la polarizzazione del dibattito interno anche sulla riforma fiscale. Come si fa a far passare una riforma seria se a destra prevale l’approccio neoliberista per cui la ricetta per tutti i mali dell’economia, del consolidamento dei conti pubblici, della riduzione e sostenibilità del debito pubblico deve passare attraverso una riduzione generalizzata delle imposte con una flat tax al 15% e se, a sinistra, tra gli obiettivi della riforma non è prevista una redistribuzione forte in grado di arginare l’espandersi della povertà e la forte crescita delle diseguaglianze. Come si fa a fare una riforma seria se un governo reintroduce la tassazione dell’abitazione principale e subito il governo di colore diversa la abroga?

Se questo è vero, è saggia la decisione del MEF Gualtieri e del governo di chiedere una legge delega per una riforma “complessiva” da attuare in tre anni.  Per il 2021 si interverrebbe solo sull’assegno unico per i figli a carico e per una limitata riduzione del cuneo fiscale per un presunto spazio fiscale di 4,8 miliardi di euro.  La priorità resterebbe l’intervento sull’Irpef da fare nel corso del 2021 e che entrerebbe in vigore nel 2022.  È un errore non dare un segnale immediato, in sede di legge di bilancio 2021 – sull’Irpef eliminando il salto d’imposta (11 punti) tra il secondo e il terzo scaglione – come suggerito da anni dal FMI. Siccome l’aggiustamento comporterebbe una perdita di gettito, secondo me, essa dovrebbe essere compensata con un aumento dell’aliquota marginale superiore (43%), dando così un segnale che si voglia andare verso una maggiore progressività. Come dimostra con i dati Piketty in Europa siamo passati da aliquote marginali massime tra il 70 e l’80% ad una media del 42-43 dove si colloca anche quella italiana. Naturalmente questa situazione non sembra turbare la coscienza di Giulio Tremonti che sembra riproporre di spostare la tassazione “dalle persone alle cose” come se le imposte indirette sulle cose non fossero comunque pagate dalle persone. Ma Tremonti non è isolato perché le ventilate manovre sulle aliquote IVA con innalzamento serio di quelle agevolate vanno proprio nella direzione da lui auspicata di ridurre la progressività. Qui mi piace citare una riflessione di Vito Tanzi che ho letto nel suo recente libro Una introduzione avanzata alla scienza delle finanze: se le basi imponibili sono ristrette servono aliquote elevate; se le basi imponibili sono larghe o onnicomprensive allora possono bastare aliquote basse.

La delega interesserebbe anche l’IRAP ed eventualmente l’IRPEG se passasse l’ipotesi di trasformare la prima in una sorta di addizionale della seconda.

Ancora si parla di riforma della giustizia tributaria dove aleggia ancora in aria la proposta di affidare il contenzioso ai giudici della Corte dei Conti. Appena lanciata nel dibattito la proposta è stata aspramente criticata da accademici, esperti ma nessuno di loro ha colto la sinergia tra controllo della spesa e delle entrate che fanno dei giudici suddetti le persone più qualificate per svolgere detta delicata funzione.     

Quasi del tutto trascurato – salvo alcuni accenni da parte di Dino Pesole, Orsini vicepresidente di Confindustria e altri – il problema dell’amministrazione finanziaria nonostante il problema posto sia stato bene impostato da Enrico De Mita quando afferma che in Italia abbiamo, a monte, un problema di quantità e qualità della legislazione tributaria – ma, a valle, anche di legislazione in generale – e della sua congrua e corretta applicazione. Da questo punto di vista sembra eccentrica o paradossale la posizione dell’ex ministro Giulio Tremonti che qualifica come ottima la struttura della nostra amministrazione finanziaria. Ottima perché non riesce a conseguire alcun significativo risultato in materia di lotta all’evasione? E non solo negli anni più recenti ma negli ultimi 50 anni!

Questi problemi furono rilevati e bene analizzati da Antonio Pedone nel suo brillante e profetico saggio Evasori e tartassati. I nodi della politica tributaria italiana, 1979. Appena 5 anni dopo l’entrata in vigore della grande riforma, individua tutti i problemi del suo mancato funzionamento compresi quelli amministrativi che sull’onda dell’euforia per l’approvazione dei decreti legislativi erano stati rimossi. E così per le riforme successive. 40 anni dopo resiste la dicotomia tra evasori e tartassati.

Non ultimo, sempre in materia di attuazione del sistema tributario, quali che siano i suoi istituti sostanziali, abbiamo un problema con la gestione politicizzata della funzione di accertamento. Purtroppo l’Italia eccelle anche in questo campo. Pochi addetti ai lavori sanno chi sono i capi dell’Internal Revenue Service del governo federale USA e del Board of Inland Revenue nel Regno Unito. In Italia molti direttori dell’Agenzia delle entrate, appena nominati, diventano personaggi pubblici che non si astengono dal fare anche proposte di riforma fiscale vedi sul punto l’intervento di Fabio Ghiselli p. 117. Ma poco o nulla dicono sull’efficienza ed efficacia della struttura che dirigono. Aspettano che lo dica la Corte dei Conti che rimane inascoltata.

Visto che il governo ha deciso di chiedere la delega presumibilmente ampia avremo modo di entrare nel merito di altri problemi di riforma degli istituti sostanziali e della loro gestione che molti colleghi hanno esaminato nei loro contributi pubblicati dal Sole 24 Ore. Voglio sperare che nella delega che il MEF Gualtieri si accinge a chiedere ci siano anche proposte di riordino in materia di tassazione patrimoniale, di imposte di successione, di finanza regionale e locale. A fronte della forte crescita delle diseguaglianze queste sono le proposte che vengono avanzate a livello internazionale e non sono problemi che si possono risolvere con riduzioni più o meno ampie della pressione fiscale.

Enzorus2020@gmail.com

Le mine anti-umanità del capitalismo della sorveglianza.

Comincio questa recensione in modo inusuale con la definizione di capitalismo della sorveglianza in 8 punti proposta della stessa Autrice perché in effetti elenca le varie problematiche che approfondisce nei vari capitoli del libro. Shoshana Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS University Press, 2019: p.9

  1. Un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita;
  2. Una logica economica parassitaria nella quale la produzione di beni e servizi è subordinata a una nuova architettura globale per il cambiamento dei comportamenti;
  3. Una mutazione pirata del capitalismo caratterizzata da concentrazione di ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia dell’umanità;
  4. Lo scenario alla base dell’economia della sorveglianza;
  5. Un’importante minaccia per la natura umana nel Ventunesimo secolo, proprio come il capitalismo industriale lo era per la natura nei secoli Diciannovesimo e Ventesimo;
  6. L’origine di un nuovo potere strumentalizzante che impone il proprio dominio sulla società e sfida la democrazia dei mercati;
  7. Un movimento che cerca di imporre un nuovo ordine collettivo basato sulla sicurezza assoluta;
  8. Un’espropriazione dei diritti umani fondamentali che proviene dall’alto: la sovversione della sovranità del popolo.

Il libro che “vuole essere una prima mappatura di una terra sconosciuta” si divide in tre parti (p. 28). La prima descrive “l’impervio habitat sociale prodotto da decenni di regime economico neoliberale che schiaccia quotidianamente la nostra autostima e il nostro bisogno di autodeterminarci”; il successo di Google costruito anche “sul disprezzo per i limiti del privato e per l’integrità morale degli individui”; tutto ciò nell’assenza di leggi che ne disciplinassero l’invadenza, l’arroganza e la sfrontatezza e anzi con la protezione del governo come vedremo più avanti. In pratica, oggi accanto alla finanza rapace abbiamo il capitalismo della sorveglianza altrettanto rapace.

La seconda parte descrive la transizione veloce dal mondo online a quello reale, una sorta di corsa (rush) all’oro qui definito in termini di “prodotti predittivi in grado di avvicinarsi alla certezza assoluta”; ma il capitalismo della sorveglianza non si limita alla rilevazione dei comportamenti, va oltre, mira alla modifica, alla omogeneizzazione dei comportamenti; e se questo approccio, solo alcuni decenni fa, veniva percepito come una “minaccia all’autonomia individuale e all’ordine democratico, oggi, le stesse pratiche incontrano ben poche resistenze e, di rado, vengono messe in discussione….”.

La terza parte esamina l’ascesa del potere strumentalizzante che la Zuboff chiama Grande Altro per distinguerlo dal Grande Fratello che Orwell vedeva interessare l’evolversi dello Stato totalitario. Giustamente la Zuboff sostiene che siamo davanti a un tipo di potere che non ha precedenti nella storia. Sintetizza la differenza dicendo che “nel totalitarismo lo Stato veniva trasformato in un progetto di possesso totale” della persona mentre nel Grande Altro “il mercato sta diventando un progetto di certezza totale, un’impresa impossibile fuori dal regno digitale e dalla logica del capitalismo della sorveglianza”. Ora se questo funziona nel mercato economico, il passaggio al c.d. mercato politico è breve.   

Il nuovo ordine economico è quello che le grandi corporation informatiche stanno imponendo al mondo dove, al posto del consumatore sovrano che i corsi introduttivi di economia politica teorizzavano, ci sono cittadini tracciati, analizzati, sfruttati e, via via, modificati nei loro gusti di consumatori e nelle loro preferenze per i beni pubblici. È una logica che permea le nuove tecnologie informatiche e la trasforma in azione per produrre profitti privati. Una volta i guru delle ricerche di mercato sostenevano che loro accertavano i bisogni del consumatore prima che questi ne avvertisse l’esistenza ed operavano prevalentemente attraverso ricerche a campione e pubblicità rivolta a tutti. In questo scorcio del XXI secolo, prevale una logica economica parassitaria che non si limita ad influenzare la produzione e il consumo di beni e servizi ma mira a costruire un’architettura globale che va ben oltre la sfera dei principali consumi ma mira alla modifica di tutti i comportamenti compresi quelli politici elettorali.

Dal rovesciamento della sovranità del consumatore che si insegnava nei vecchi manuali introduttivi di economia politica siamo già arrivati al rovesciamento del principio della sovranità popolare.


Secondo Hal Varian capo economista di Google alla base c’è il modello pubblicitario, ossia, l’estrazione di tutti i dati disponibili per elaborare previsioni accurate via il CTR che sta per click through rate: la frequenza con la quale l’utente di un servizio gratuito torna a cliccare su certi pulsanti, su certe domande, su certe immagini, ecc. Il primo punto di svolta avvenne con la crisi delle c.d. dot.com (aziende informatiche) del 2000. La risposta fu che bisognava rendere i profitti più duraturi e sostenibili. Hanno avuto successo. Varian ha scoperto che si potevano fare previsioni più precise estraendo e ammassando dati che, fino ad allora, venivano trascurati e cestinati come cascame  perché non erano direttamente rilevanti per le ricerche in corso. Ha scoperto il c.d. Surplus comportamentale, alias, dati relativi ad ogni comportamento dell’individuo, i big data. Fu come scoprire il Santo Graal della pubblicità: mandare il messaggio alle persone interessate al momento giusto, al momento in cui esse hanno urgente bisogno di risolvere un problema e cercano il prodotto migliore per farlo – non di rado in stato emotivo. La logica del CTR è quella di leggere le menti delle persone non solo con riferimento ai consumi correnti ma con riguardo ad ogni altro aspetto della vita giornaliera e non. È la fine della privacy. E’ stata Google a imparare, prima delle altre, a dominare detto mercato. La Zuboff (p. 276) cita Sundar Pichai il quale afferma “un tempo eravamo noi a fare ricerche su Google, ora è Google che fa ricerche su di noi”. Poi seguono Facebook, Amazon, Microsoft, Netflix, ecc. Le imprese si difendono dicendo che loro non vendono la materia prima ma le accurate previsioni di mercato elaborate con essa. Queste previsioni sostituiscono l’intuizione e, in parte, le tradizionali indagini di mercato a campione. Un altro duro colpo alla privacy avviene subito dopo il clamoroso e tragico attentato alle Due Torri e al Pentagono (11 settembre 2001) quando gli americani scoprono che Fortezza America è vulnerabile. E si pone un difficile problema di bilanciamento tra esigenze di sicurezza legiferate con il Patriot Act (26 ottobre 2001) e privacy. Si scopre che le imprese high tech avevano non solo banche dati più ampie di quelle delle Agenzie nazionali della sicurezza ma avevano approntato anche algoritmi più efficienti per analizzare i big data. Nascono affinità elettive e, quindi, sinergie collaborative in una prima fase tra Google e servizi segreti e poi tra questi e le altre imprese high tech. E questo spiega l’ampia libertà di iniziativa che il governo federale ha lasciato agli Alfieri del capitalismo della sorveglianza.

Siamo entrati in una nuova fase della storia in cui tutto sarà connesso, conoscibile e processabile anche ai fini politici – altro che fine della storia di Francis Fukuyama.

 Leggendo il libro della Zuboff viene spontaneo pensare al romanzo distopico Il Grande Fratello di Orwell (1949) ma ora le cose sono andate ben oltre. Non si tratta solo di intuizioni e/o fantasie più o meno fondate di un autore lungimirante che, comunque, partiva da esperienze vissute e previsioni costruite su fatti storici; nel Grande Altro – come lo chiama la Zuboff – abbiamo la realtà comprovata del potere strumentalizzante delle imprese private che fanno sistematico bracconaggio dei nostri comportamenti per estrarne un profitto. Non lo fanno con la violenza, le persecuzioni, le carcerazioni, le torture, le purghe dei regimi autoritari e dispotici ma con la spinta gentile dell’offerta gratuita di servizi utili. Non è altruismo puro. Spiega la Zuboff che: “se qualcosa è gratis il prodotto sei tu e noi siamo le carcasse abbandonate (p. 394). Il potere strumentalizzante dei capitalisti della sorveglianza produce, per loro, conoscenza che si accumula all’infinito; determina uno squilibrio dell’apprendimento per tutti gli altri – anche per via della loro disponibilità del machine learning – che erode sempre più la nostra autonomia e libertà individuale e mette a rischio la democrazia.

Precisa la Zuboff: “la convinzione di poter scegliere il nostro destino è sotto assedio, e con un capovolgimento di fronte mozzafiato, il sogno di una tecnologia per predire e controllare il comportamento – per la quale Burrhus F. Skinner (1904-1990) era stato irriso pubblicamente – è ora realtà. È un premio che attira un capitale immenso, menti geniali, l’impegno degli scienziati, la protezione del governo, interi ecosistemi di istituzionalizzazione, con immancabile fascino del potere”. Il riferimento è a Skinner psicologo nordamericano esponente di alto rilievo della scienza comportamentale.  Secondo la Zuboff ha tracciato un nuovo sentiero verso l’ingegneria del comportamento.

Come già detto, l’obiettivo è prevedere, influenzare e controllare i comportamenti umani usando ad arte la divisione dell’apprendimento allo scopo di escludere, confondere e obnubilare la gente comune. La Zuboff (365) elabora un’analogia sconcertante: come il capitalismo industriale ha devastato la natura così il capitalismo della sorveglianza se non messo sotto controllo può distruggere l’umanità. E ancora a p. 430 cita Eric Schmidt e Sebastian Thrun che, a proposito di intelligenza artificiale, sostengono che devono assomigliare alle persone ma queste alle macchine.

Ora che Google non è monopolista ma c’è una concorrenza oligopolistica tra i capitalisti della sorveglianza – che negli USA si contano sulle dita delle mani – vince chi impara più in fretta. Anche alcuni governi partecipano a questa competizione ma se essi spendono poco in ricerca e innovazione vince il privato. Se poi si considera che, in teoria, i governi ai vari livelli partono con il possesso di consistenti banche dati si conferma che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato non nel senso di Friedman – intervengono e sbagliano – ma come astensione dal fare. Infatti, spesso questi fallimenti pubblici sono favoriti dall’assenza di regolamentazione idonea a difendere e favorire l’interesse generale che, oggi in fatto, privilegia l’iniziativa privata. Non ultimo, bisogna considerare che i rischi per la libertà individuale e per la democrazia sono altissimi nei limiti in cui il potere strumentalizzante e/o gli strumenti della sorveglianza dovessero finire sotto il controllo di regimi autoritari – come è già in essere in alcuni grandi Paesi con settori digitali avanzati.   

Nelle ultime settimane in Italia si è scatenata la guerra dei cookies – inventati da Netscape nel 1994 di cui ora comprendiamo meglio la loro pericolosa funzione. Tutti li chiedono e spesso ritirano l’offerta di servizi “gratuiti” se no acconsenti. In Italia hanno capito il fenomeno in ritardo- per fortuna si potrebbe dire. Ma se sono giornali a piccola diffusione, cooperative e/o piccole e medie imprese con pochi lettori, utenti o clienti, non si capisce come possano fare a costruire i big data con i quali produrre affidabili prodotti previsivi come fanno Google, Facebook e le altre imprese high tech.   Probabilmente sono mossi dalla logica della blockchain e/o della fidelizzazione dei propri utenti.

Propongo ora un esempio di una caratteristica comportamentale degli alfieri del capitalismo della sorveglianza: la sfrontatezza. Non so a quanti sia capitato da ultimo;  racconto un episodio occorso a me per la prima volta. Nei giorni scorsi, Google Maps Timeline mi ha inviato via mail un riepilogo dei miei spostamenti da luglio a settembre. Visitate cinque città , 23 luoghi diversi di cui 10 nuovi corredati dalle mappe stradali ed esatta individuazione (Via e numero civico della casa al mare oltre che della residenza abituale); registrazione dei ristoranti dove sono andato a cena, dei supermercati dove normalmente faccio lo shopping e dell’autogrill dove a volte mi fermo durante gli spostamenti; conteggio dei giorni in cui sono stato a casa; le strade di Roma  in cui sono passato e il negozio di fiori davanti al quale probabilmente mi sono solo soffermato per qualche minuto.  In realtà, i riepiloghi dei miei spostamenti contengono molti errori perché menzionano Regioni e posti in cui non sono stato. Il fatto è che io non ho richiesto detto servizio. Ho solo usato Google Maps per vedere dove stava una strada di Roma. È vero che Google ti chiede se ti è piaciuto il servizio e ti dà la possibilità di sospenderlo. Quale che sia la tua decisione i tuoi dati restano in possesso della impresa ed è dubbio che essi vengano cancellati.

Credo che tale bracconaggio di dati sia illegittimo anche ai sensi del regolamento UE GDPR (general data protection regulation) n. 679/2016 poi aggiornato e promulgato il 25 maggio 2018 citato positivamente dalla Zuboff. Il regolamento UE nasce dopo che un attivista austriaco Max Schrems nel 2013 aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia europea  contro Facebook per violazione dell’accordo Safe Harbor tra USA e UE in vigore dal 26-07-2000.

L’accusa di Schrems, a sua volta, viene ritenuta maggiormente credibile dopo le rivelazioni di Eduard J. Snowden, ex tecnico della CIA, che a sua volta rese pubblica, nel giugno 2013, l’esistenza di programmi di sorveglianza di massa degli utenti di Facebook, Google, e altre società high tech organizzati dalla National Security Agency.    Con la sentenza del 6-10-2015 la CGUE non solo accoglie il ricorso di Schrems ma annulla il Trattato Safe Harbor. Da qui il lavorio per arrivare al Regolamento n. 679/2016. Basta? No. Racconta la Zuboff che c’è chi propone una nuova Agenzia federale che per contrastare gli algoritmi delle imprese private. Infatti è questo il problema: servono nuove forme di autorità e potere, compresi computer e competenze, per costruire una nuova forma di intelligenza artificiale che renda possibile controllare, discutere e combattere quello che fanno i privati in maniera illegittima. La proposta di una nuova agenzia federale degli algoritmi viene motivata dal fatto che spesso le raccomandazioni della Federal Trade Commission non sono tenute in considerazione e, addirittura, neutralizzate con leggi del Congresso.   

I governi dovrebbero imparare a contrastare l’arroganza e la sfrontatezza delle imprese private ma come possono farlo se ci sono affinità elettive, connivenze, interessi comuni, convergenze programmatiche anche nella UE dove la partnership pubblico-privato è fortemente auspicata e promossa?

Ho visto il docufilm The Social Dilemma prodotto e distribuito da Netflix una delle aziende digitali a maggiore capitalizzazione di mercato. Contiene anche diverse interviste a Shoshana Zuboff. Sarebbe un docufilm da far vedere nelle scuole visto che molti giovani sono assuefatti all’idea di stare sempre connessi e, quindi, maggiormente, soggetti ad assuefazione. Alla fine il docufilm pur menzionando i rischi di queste nuove tecnologie compresa l’intelligenza artificiale chiude sull’idea denunciata dalla Zuboff dell’inevitabilità, dell’assenza di alternative (TINA). La mia speranza è che il docufilm possa contribuire a svegliare anche l’attenzione dei settori più avvertiti dell’opinione pubblica.

Note sulla società signorile di massa in Italia

Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019

Ricolfi definisce la società signorile di massa: “una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano” e godono di consumi opulenti. La transizione verso la società opulenta – secondo Ricolfi – è avvenuta tra gli anni 80 e i primi 2000. Detta società si fonda su tre pilastri:

 1) enorme ricchezza reale e finanziaria; il mancato contenimento della crescita del debito pubblico che si è verificata negli anni ’80 ha contribuito ad alimentare la ricchezza finanziaria delle famiglie; successivamente l’adesione all’euro e la riduzione dei tassi di interesse ha consentito a molte famiglie di accedere a mutui a basso costo consentendo ad alcune l’acquisto di case e ad altre il raddoppio del loro patrimonio immobiliare;

 2) la distruzione della scuola e dell’Università; distruzione è termine a mio giudizio alquanto esagerato utilizzato da Ricolfi che la imputa: a) all’introduzione della scuola media unica (1962); b) alla liberalizzazione degli accessi all’Università e alle varie Facoltà (1969); c) al già dilagante donmilanismo (1967); d) agli effetti deleteri dell’abbassamento degli standard dei percorsi di studio. Anche a me sembra innegabile un certo declino ma non è questa la sede appropriata per approfondirne le cause.   

3) la presenza di una infrastruttura paraschiavistica e di tipo schiavistico vero e proprio (pp. 47-48) che non riguarda solo gli immigrati ma anche i lavoratori italiani poco qualificati, stagionali e di soggetti costretti a lavorare in nero o in condizioni di totale illegalità anche per via del reclutamento fatto dai caporali (71-72). La circostanza è stata confermata dalla ministra Catalfo in occasione della presentazione del Rapporto sul mercato del lavoro[1].

Nel mercato del lavoro Ricolfi individua sette segmenti di cui il primo si riferisce a: lavoratori stagionali per lo più africani ma anche italiani per la raccolta dei pomodori, delle olive, degli agrumi, e di varie specie di frutti e ortaggi. Il secondo riguarda la prostituzione femminile per lo più straniera controllata da organizzazioni criminali più o meno strutturate. Il terzo è costituito per lo più da donne che prestano servizi alle famiglie. Risultano censite dall’INPS solo 865.000 persone, ma secondo la Fondazione Leone Moressa il settore occuperebbe circa due milioni di persone. Il quarto segmento sarebbe costituito da “dipendenti in nero, addetti a mansioni pesanti, usuranti o sgradevoli, sottopagati, licenziabili in ogni momento”.  In concreto, si tratterebbe di braccianti diversi da quelli del segmento 1, di lavoratori dell’edilizia spesso privi di contratto, di addetti alle consegne di elettrodomestici, mobili e beni pesanti. Il totale dei lavoratori occupati in questi quattro segmenti è stimato attorno ai 3 milioni di persone. Ci sono quindi posizioni lavorative border line dove non c’è un “classico rapporto di signoria” ma si “configurano ugualmente condizioni di fragilità e subordinazione estreme”. Quindi Ricolfi individua un quinto segmento: spacciatori e/o tossicodipendenti al servizio delle organizzazioni criminali che controllano la distribuzione di droghe di vario tipo e qualità. Il sesto segmento è quello dei lavoratori impiegati nella c.d. GIG economy (lavoretti con guadagni insignificanti garantiti), gestiti da un algoritmo o con contratti-capestro, pagati a cottimo a seconda del numero delle consegne e della distanza e senza tutele. Il settimo segmento è costituito da lavoratori impegnati servizi esternalizzati da enti pubblici e privati in particolare pulizia di uffici e treni, sorveglianza e portierato, trasporti, istruzione, sanità e assistenza.  Servizi affidati a imprese sociali e a cooperative del c.d. terzo settore che – in spregio di una nobile tradizione – non di rado – praticano bieco sfruttamento. Anche nel c.d. terzo settore ci sono luci e ombre[2].        

Vediamo ora quali sono i consumi opulenti degli italiani “signori”: quelli che mangiano spesso fuori e spendono 83 miliardi (dato relativo al 2017): 18 milioni in fitness che frequentano palestre, spa, centri benessere, ecc.; 55 milioni di italiani connessi con smartphone; quelli che abusano di bevande alcoliche e praticano il binge drinking (assunzione smodata di alcol); quelli (circa 16 milioni di soggetti non sempre benestanti) che spendono 107 in giochi d’azzardo pari all’incirca alla spesa sanitaria nazionale; quelli che hanno doppie e triple case; ecc.. vedi tabella di sintesi a pag. 126. In buona sostanza, Ricolfi conferma la tesi di Geminello Alvi (2006)[3] secondo cui la Repubblica è fondata non sul lavoro ma più realisticamente sulle rendite più o meno parassitarie anche se è un po’ azzardato considerare tali tutte le pensioni di vecchiaia ed anzianità. Ricolfi spiega il più alto numero (25%) di NEET in Europa anche con la tesi dei giovani “bamboccioni” che si trovano bene a casa e non fanno alcuno sforzo per uscirne e trovarsi un lavoro che consenta loro una vita autonoma.  Da un lato può essere visto come un segno di prosperità, dall’altro, di sottosviluppo culturale. Se è fondata la tesi della società signorile di massa che per l’appunto interessa il 52% degli italiani in età lavorativa, è naturale che tra di essi ci siano anche i NEET alcuni almeno in parte per necessità altri per comodità e/o per usufruire di posizioni di rendita; queste ci sono nella società e, quindi, anche nelle famiglie benestanti, quelle con reddito medio di 46 mila euro ed un patrimonio medio di 390 mila euro. Con questi dati, l’Italia demograficamente in declino (con più anziani e meno giovani) si colloca al 4° posto per patrimonio su 14 paesi membri dell’Unione europea.  

Se il “giovin signore” è quello che Ricolfi descrive a p. 161, nessuno gli ha rubato il futuro; è lui che non ci pensa; è lui l’epicureo che, nel suo piccolo, persegue il carpe diem e rimuove il futuro. È lui che non vuole uscire di casa, prende la vita così come viene. E così “scompare l’idea di aspettare, di investire in imprese che comportino un’evoluzione lenta e una fatica”[4]. Prevale la gente dalla veduta corta che quindi non è solo appannaggio dei politici.

Ma le conseguenze di una società signorile di massa, negli ultimi decenni sostenuta dall’imperante ideologia neoliberista in Europa, non si limitano ai consumi opulenti e alla ossessiva cura di sé; Ricolfi  scrive: “in una società altamente individualista, è inevitabile che la cultura civica, intesa come volontà di spendere tempo e risorse per il bene comune, finisca per appassire e, prima o poi, ci si trovi tutti a giocare in proprio  o, per dirla con la celebre analisi di Robert Putnam, a giocare a Bowling da soli”[5]. Oppure c’è lo snaturamento della condivisione che grazie agli smartphone ormai è ridotta allo scambio di foto, di tweet, di like, di fake news, ecc. Si riduce la solidarietà, aumenta il deficit di empatia, si introduce il politicamente corretto, ma nella sostanza si assiste ad un serio declino di cultura civica. Ora se un Paese, una città, una fabbrica, un ufficio è una comunità di interessi e di destino, ma se prevalgono individualismo e la veduta corta, è chiaro che il futuro del Paese viene compromesso. E le cause non sono solo le teorizzazioni della decrescita felice – già presenti negli anni 60 e 70 – né l’eccesso di normazione che avrebbero annullato i benefici del progresso tecnico (p. 208).

Qui l’analisi di Ricolfi mostra un punto di debolezza. È del 1972 il Rapporto sui Limiti dello sviluppo, commissionato nel 1968 da Aurelio Peccei del Club di Roma all’MIT e già allora c’erano le teorizzazioni di Georgescu Roegen, di Illich , di Gorz ed altri. Il tema fu toccato anche da Altiero Spinelli nel suo intervento introduttivo al Convegno di Venezia (aprile 1972) su Industria e società ma allora i sostenitori della decrescita si spingevano a dire che i paesi ricchi non dovevano cercare alti tassi di sviluppo.  Diverso il discorso successivo sulla capacità degli europei di trarre i vantaggi dal progresso tecnico. È bene rendersi conto che questo non opera o non si diffonde spontaneamente e/o autonomamente. Va implementato nelle fabbriche e negli Uffici. Sul tema si è soffermato nell’audizione al Parlamento europeo (11-09-2003) il candidato alla presidenza della Banca centrale europea Jean Claude Trichet rispondendo alla domanda di un componente della Commissione problemi economici e monetari, e dicendo che noi europei abbiamo difficoltà ad applicare le nuove tecnologie specie se prodotte altrove. E le difficoltà sono maggiori in Italia se il sistema produttivo conta circa 6 milioni di imprese, se i servizi pubblici e privati sono inefficienti, se è scarsa la capacità di studiare l’organizzazione scientifica del lavoro e di motivare le persone a dare il meglio di sé nel lavoro e nel tempo libero. Non voglio negare che ci sia un eccesso di normazione in Italia dove negli ultimi decenni è prevalsa l’idea che i problemi si risolvono approvando sempre nuove leggi senza nessuna preventiva analisi delle cause che non hanno consentito a quelle esistenti di esplicare i propri effetti, senza che nessuno si occupi della congrua e coerente applicazione di quelle nuove nel tempo che raramente coincide con quello dei governi che le hanno promosse. Se così, molte  nuove leggi non risolvono alcun problema, creano confusione circa le norme specifiche da applicare e, non di rado, ritardano le decisioni di chi deve decidere a qualsiasi livello di governo. Senza trascurare che, in non pochi casi, l’incertezza sulla normativa da applicare è un buon alibi per non assumere decisioni a volte impopolari.

Per fare un esempio che riguarda la struttura paraschiavistica ben rappresentata da Ricolfi, a me non risulta che ci sia un eccesso di normazione sul caporalato, sull’economia sommersa e sull’evasione contributiva. Il problema è che non si fanno controlli sul rispetto delle leggi e non sorprende che l’economia sommersa si aggiri attorno ai 211 miliardi pari al 12,1% del PIL nonostante i numerosi provvedimenti di incentivazione per l’emersione del sommerso.

Nella stessa linea non condivido la citazione di Giuseppe Schlitzer che chiama in causa il processo di decentramento e le leggi Bassanini del 1997 come fattore principale della brusca inversione di tendenza della produttività a parte dalla metà degli anni 90[6].

Si dà il fatto che il decentramento non solo amministrativo ma soprattutto politico mira o dovrebbe mirare alla ricerca di maggiore efficienza allocativa soprattutto nel settore pubblico. La bassa produttività delle imprese e dei servizi privati non solo della gran parte dell’industria manufatturiera non dipende dalle competenze concorrenti di cui all’art. 117 novellato e/o dall’eccesso di normazione all’interno delle aziende pubbliche e private ma dall’assenza di politiche industriali all’altezza dei problemi, dall’assenza di strutture centrali e/o periferiche che si occupino di programmazione dello sviluppo. E questo per colpa in primo luogo del governo italiano e dell’Unione europea governata da oltre tre decenni da politiche neoliberiste.

Che Francia e Belgio si avvicinino alla società signorile di massa non dipende certo dal nuovo assetto federale del Belgio che ne ha salvato l’unità. Francia e Italia non sono più né classici stati centralizzati né assetti genuinamente federali come la Germania, la Svizzera, il Canada e gli USA. Stanno in mezzo al guado e hanno abbandonato ogni seria attività di programmazione della crescita.  Che in Italia la produttività e la crescita ristagnino, a mio giudizio, dipende innanzitutto dal basso livello degli investimenti pubblici e privati in calo sistematico dagli anni 70, dalla scarsa capacità di innovazione, dalla scarsa qualità del management pubblico e privato a cui abbiamo accennato sopra. Non ultimo dalle politiche europee degli ultimi decenni che hanno individuato come principale riforma strutturale la svalutazione interna dei salari e a flessibilità del mercato del lavoro entrambe mirate a guadagnare competitività attraverso la riduzione del costo del lavoro. Dipende dalla scelta delle imprese più dinamiche di delocalizzare nei paesi dentro e fuori l’Unione sempre allo scopo di risparmiare sul costo del lavoro. Supponiamo per assurdo che la tesi di Ricolfi sia fondata, che facciamo torniamo indietro allo stato centralizzato? I primi 140 anni di storia unitaria con un uno stato centralizzato ed autoritario ci dicono che il record è negativo e per di più la scelta sarebbe antieuropea perché l’Europa vuole essere l’Europa delle regioni e, prima o poi, diventerà un assetto federale compiuto. 

Ricolfi teme che la stagnazione di produttività e crescita si trasformi in declino economico. Purtroppo non si tratta solo di temere. Se uno prende i tassi annui di variazione (%) del PIL e della domanda interna (a prezzi concatenati, anno di riferimento 2010) si vede che la media annua di crescita per il periodo 2001-2018 è pari allo 0,2 (crescita cumulata 3,8); investimenti fissi lordi una media annua del -0,4% (decrescita cumulata: -6,5%). Certo c’è ancora lo 0,2 positivo del PIL ma il calo degli investimenti non promette niente di buono[7]. Siamo in stagnazione secolare e il declino della crescita va avanti da circa 50 anni[8], prima o poi, passerà a valori tutti negativi. E, secondo me, il peggio è che non si tratta solo di declino economico, ma anche civile e culturale e, non ultimo, di etica pubblica. C’è nel paese un clima di diffusa illegalità, corruzione, familismo amorale. Declinano scuola e università e, come argomenta bene Ricolfi, c’è in azione un apparato paraschiavistico che sostiene per ora la maggioranza degli italiani che non lavora. Italiani che sono tra i popoli più vecchi del mondo e, come noto, l’invecchiamento inevitabilmente abbassa la produttività. Che cosa serve di più? La nostra classe dirigente pubblica e privata è in grado di contrastare il declino?

Note e riferimenti bibliografici

  1. Al CNEL l’11-12-2019 è stato presentato il Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione. E’ intervenuta la ministra del lavoro Catalfo che non ha negato l’esistenza della schiavitù in Italia e ha aggiunto che si stava provvedendo con il rafforzamento dei centri per l’impiego.
  2. Sul punto vedi Giovanni Moro, Contro il non profit, editori GLF Laterza, 2014.
  3. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite. Come sono cambiati il lavoro e la ricchezza degli italiani, Mondadori, Milano, 2006.
  4. L’affermazione di Ricolfi è confermata da analisi di una Indagine di AlmaLaurea secondo cui solo il 7,1% dei laureati è fondatore di un’impresa. Vedi AlmaLaurea, Laurea e imprenditorialità, Executive Summary, Dicembre 2019 in collaborazione con Dipartimento di Scienze Aziendali, Università di Bologna e UnionCamere, Roma.
  5. R.D. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon &Schuster 2000 (trad. it. Capitale sociale e individualismo, il Mulino, Bologna, 2004).
  6. Vale la pena riportare le frasi virgolettate   con le quali Schlitzer – a detta di Ricolfi – collegherebbe decentramento amministrativo e caduta della produttività: “Guarda caso proprio nel corso degli anni novanta si dà avvio a un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale dello Stato italiano. Con la legge Bassanini del marzo 1997 inizia il processo di decentramento dello Stato italiano, noto anche come ‘devolution’. Questo progetto, condiviso da tutti i partiti politici, verrà portato a termine nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione. In nessun altro paese europeo, ad eccezione del Belgio che nel 1993 è divenuto uno stato federale, si è assistito ad un processo di decentramento fiscale e amministrativo di simile portata a favore delle regioni”. Se così  Schlitzer finisce con l’ignorare che la Costituzione del 1948 prevede uno stato regionale e che, dopo quelle a statuto speciale, quelle a statuto ordinario sono state attuate nel corso degli anni 70 del secolo scorso e che la riforma del 2001 ha prodotto una redistribuzione delle competenze più rigorosa rispetto a quella originaria del 1948 che subordinava le competenze legislative delle RSO alla emanazione di leggi generali che definissero i principi generali da attuare nella materia.    Per la verità, devo dire che la citazione di Ricolfi non è del tutto corretta perché Schlitzer attribuisce la brusca inversione della produttività a metà anni 90 a concomitanza di diversi fattori anche economici. Inoltre negli anni 90 non c’è stato nessun cambiamento radicale dell’assetto istituzionale dello Stato italiano e, per la verità, neanche dopo la riforma del 2001, come noto rimasta in gran parte non attuata. 

7  Vedi Note di sintesi della presentazione del Rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno, Roma 4 novembre 2019: 13.

8 Il declino è temuto tra gli altri da Vito Tanzi nel suo libro (2015), Dal miracolo economico al declino? Una diagnosi intima, Jorge Pinto Books, New York, 2015.

Ciccarone Giuseppe e Enrico Saltari, Riforma della contrattazione o incentivi agli investimenti per far crescere la produttività, www.nelmerito.Com; 1 luglio 2008;

Saltari Enrico e Travaglini Giuseppe, Le radici del declino economico. Occupazione e produttività in Italia nell’ultimo decennio. Postfazione di Marcello Messori, Utet Università, 2006.


La legge sulla riduzione del numero dei parlamentari va bocciata.

La riduzione del numero dei parlamentari, proposta dal M5S, è oggi legge costituzionale approvata da questa maggioranza politica. Tuttavia resta una riforma vecchia che guarda al passato e non al futuro come dovrebbe.

Visto che siamo inseriti e vogliamo restare nell’Unione Europea possiamo abrogare il Senato e, al limite, il Presidente della Repubblica. Devo precisare che, da circa un quarto di secolo, siamo coinvolti in un processo di trasformazione del nostro sistema istituzionale in senso federale, e la proposta è stata sempre quella di un Senato federale. Da circa 10 anni detto processo è bloccato per via della grande crisi economica e finanziaria che, anche negli Stati federali, di norma, impone un maggior ruolo del governo federale e quindi un processo di centralizzazione. Il nuovo Piano di rilancio dell’economia europea proposto dalla Commissione europea va in questa direzione.

Anche nella riforma Renzi c’era una chiara svolta centralista perché, non avendo avuto il coraggio di mettersi contro la classe politica regionale e dei sindaci che è ben più numerosa e radicata di quella centrale attuale, in nome del superamento del bicameralismo paritario, aveva proposto qualcosa che non era un vero senato federale ma un senato con rappresentanti delle regioni e dei comuni. Un vero papocchio o una camera di serie B non eletta direttamente dai cittadini.

Vengo al mio punto centrale. Se l’Unione Europea, in fatto, è già uno stato federale in fieri e non può essere diversamente visto che abbiamo una moneta unica, una politica economica e finanziaria fortemente coordinata e sorvegliata, con consistenti sanzioni in caso di violazione delle regole fiscali, è chiaro che i compiti dei governi sub-centrali sono consistentemente ridotti anche se restano notevoli compiti di coordinamento e, quindi, i compiti legislativi potrebbero essere svolti più speditamente da una sola Camera.

 Se le costituzioni sono costruite per il futuro, bisognerebbe tener conto che nei sistemi federali veri e propri (Australia, Canada, Repubblica federale tedesca, Svizzera, USA) di norma non ci sono seconde camere né presidenti della repubblica a livello sub-centrale. Fanno eccezione gli USA, con riguardo alle prime, per via delle peculiari modalità in cui si è la Convenzione con il Compromesso di Filadelfia nel 1787 e costruito nel tempo lo Stato federale.

In un assetto istituzionale di stampo federale com’è quello europeo – in buona parte ancora da portare a compimento – la collocazione appropriata del Senato sarebbe al centro al posto dell’attuale Consiglio europeo che io considero il cancro delle istituzioni europee. Non si può costruire un vero Stato federale prevendo in capo ad esso i capi di Stato e di governo dei paesi membri che deliberano all’unanimità. E come se il governo di Roma fosse formato dai presidenti delle regioni. Immaginate quale cacofonia!

Se si tiene conto di queste esperienze e del fatto che anche nella Unione europea parte della legislazione primaria è competenza delle istituzioni comunitarie, la soluzione migliore sarebbe l’abrogazione totale del Senato e possibilmente una riduzione limitata del numero dei deputati. Dico limitata perché in Italia prevale la prassi secondo cui i problemi del paese si risolvono approvando una nuova legge e, nel nostro paese, si legifera non per principi generali ma cercando di prevedere tutte le fattispecie possibili. Missione impossibile in una società molto dinamica, nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione. Una seconda osservazione riguarda le modalità di selezione dei candidati lasciate nelle mani delle oligarchie centraliste di quelle strutture che una volta si chiamavano partiti che, in molti casi, applicavano criteri selettivi più rigorosi. Oggi per via anche del leaderismo e della personalizzazione della politica molti candidati vengono scelti sulla base della presunta fedeltà al leader. Ne consegue che, non di rado, sono scelte persone senza previa esperienza politica e/o amministrativa ai livelli sub-centrali di governo e, per lo più, incompetenti. Non è un fenomeno solo italiano; caratterizza il funzionamento dei sistemi politici a livello generale tanto da far dire a molti politologi che viviamo nell’era dell’incompetenza. “Uno vale uno” sostengono molti politici populisti. Quindi il vero problema non è la quantità dei componenti delle camere legislative o degli organi amministrativi ma la qualità, la professionalità, la specializzazione tematica e l’esperienza operativa delle persone che vanno ad animare le istituzioni.    

Sappiamo che il M5S alla democrazia rappresentativa preferisce quella diretta che però meglio si addice al livello locale e non al livello centrale e, meno ancora, al livello sovranazionale. A nulla è valso che esponenti parlamentari dei 5S nell’ottobre 2018 parteciparono a Roma ad un convegno organizzato per loro dall’Istituto svizzero proprio per illustrare loro il caso della Svizzera ritenuta da molti politologi di fama come una delle più avanzate democrazie del mondo dove a livello locale si pratica la democrazia diretta.

Oggi la proposta del M5S è legge costituzionale e, come tale, sottoposta al giudizio degli elettori. Non c’è stato molto tempo per riflettere attentamente su tutte le implicazioni negative di detta legge che in prima approssimazione riduce la rappresentanza e la rappresentatività del Parlamento. Già questa semplice considerazione, a mio giudizio, è per me motivo sufficiente per votare NO.

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Le 4-5 nuove imposte sulle quali Piketty costruirebbe il fisco europeo.

La teoria secondo cui i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato viene in fatto confermata dal Crollo del muro di Berlino 1989 e dall’implosione dell’Unione sovietica 1990-91 costretta ad un forte aumento della spesa per gli armamenti per rispondere a quella messa in atto da Reagan negli USA (scudo spaziale, ecc.). Piketty osserva che, in qualche modo, la Guerra fredda e, successivamente, la coesistenza pacifica ma competitiva aveva stimolato i partiti socialdemocratici a tenere in più alta considerazione i diritti sociali delle classi lavoratrici. In fondo, i c.d. trenta gloriosi (1945-75) coincidono con lo sviluppo dei sistemi welfaristi nei principali paesi dell’Europa occidentale e negli stessi paesi del blocco sovietico.  Con il crollo di quest’ultimo sistema (1990-91), i partiti socialdemocratici si convincono che la redistribuzione della ricchezza non è più la priorità o che essa poteva farsi agendo, in via principale, dal lato della spesa pubblica – in questa direzione fiancheggiati dal FMI e dalla Banca Mondiale.

L’ideologia (teoria e pratica) del mercato unico e della piena libertà dei movimenti dei capitali, delle merci, delle persone e dei servizi, l’abbandono in Europa della politica dell’armonizzazione a favore di quella della concorrenza fiscale proprio allo scopo di ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e nella società portano ad un forte aumento delle diseguaglianze dei redditi e dei patrimoni. Ai processi di massicce privatizzazioni dei patrimoni si collegano anche fenomeni molto gravi di corruzione sia ad Est che ad Ovest ma questo è solo un effetto collaterale.

Questo profondo cambiamento strutturale anche ad Occidente produce un ribaltamento nel sostegno elettorale dei partiti socialdemocratici europei. Analizzando il voto a favore delle sinistre Piketty osserva che gli elettori meno istruiti hanno smesso di votare per i partiti di sinistra. Nascono nuove categorie sociali: la sinistra intellettuale benestante e la destra mercantile. Nascono partiti c.d. social nativisti, da un lato, ad Est a causa della “pesante delusione post-comunista e anti-universalista che genera una forte deriva identitaria”, dall’altro lato, ad Ovest per via di una organizzazione economica mondiale del tutto inadeguata a gestire politiche economiche coordinate in grado di assicurare lo sviluppo sostenibile e il contenimento delle diseguaglianze crescenti. In Italia e nei paesi mediterranei l’immigrazione alimenta il social nativismo.  

A partire dagli anni 1980-90, i Trattati europei hanno codificato la concorrenza economica e fiscale tra gli Stati, da un lato, adottando una legislazione molto restrittiva sui c.d. aiuti di Stato, dall’altro, legittimando la presenza dei paradisi fiscali anche all’interno dell’eurozona. Le nuove tecnologie informatiche sono state messe al servizio dei ricchi. Volgendo lo sguardo al di là dell’Atlantico le riforme fiscali di Reagan (1986) e quella di Trump (2017)dimostrano, secondo Piketty, che i due Presidenti citati sono portatori di una ideologia mercantile nativista.

PQM Piketty rigetta l’utilizzo della categoria populismo perché i conflitti osservati in varie regioni del mondo ed in Europa sono molto complessi e multidimensionali e, come tali, non possono essere catturati dalle semplificazioni populistiche di destra e/o di sinistra. Non aiuta gran che né ad approfondire e comprendere i vari problemi né ad elaborare risposte adeguate.

La strada che Piketty suggerisce di percorrere è quella social federalista – costruendo anche un’Autorità fiscale internazionale – che dovrebbe recuperare le regole della democrazia maggioritaria a livello sovranazionale e ne detterebbe di nuove per combattere la concorrenza fiscale, l’evasione, l’elusione, il profit shifting. In via preliminare, Piketty si libera di una subordinata alla sua via social federalista: quella c.d. social localistica. Lui la definisce una trappola perché non autosufficiente in un mondo caratterizzato da forti interdipendenze economiche e finanziarie e può funzionare solo se inserita in un quadro più ampio social federalista, ossia, omogeneo. Infatti è chiaro che il vantaggio comparato dell’assetto federalista è quello di moltiplicare le sedi di partecipazione con cittadini sufficientemente attiviche si mobilitano per  far funzionare meglio il meccanismo della rappresentanza, alias, il rapporto agente-principale per cui gli agenti sotto la spinta di un maggiore controllo sociale terrebbero in maggior conto le  preferenze dei cittadini, e i loro bisogni pubblici dovrebbero risultare soddisfatti ai vari livelli di governo in maniera più efficiente ed efficace.

Personalmente non condivido l’attribuzione all’UE di uno status simile a quello di una organizzazione internazionale (1010-11). A me sembra più appropriato vedere l’attuale assetto istituzionale dell’UE più vicino al modello confederale che a quello federale a cui fa pensare il termine Unione. In ogni caso, si tratta di questione che va accertata non solo in termini di diritto formale (quello dei Trattati) ma anche in fatto. Abbiamo un mercato unico e una moneta unica meticolosamente regolamentati. Abbiamo le politiche economiche e fiscali formalmente decentrate ma anche queste fortemente regolamentate dal Patto di stabilità e crescita, come riformato nel 2011, dal Six-Pack, dal Two-Pack e dal Fiscal Compact, rectius, Trattato sulla stabilità, coordinamento e sulla governance, noto anche come Patto di bilancio. Se poi, in fatto, non si riesce a fare un effettivo ed armonico coordinamento delle politiche economiche questo non dipende dalle norme ma dall’assetto istituzionale di vertice (il Consiglio dei Capi di Stato e di governo) che politicamente non riesce ad assicurare unità di intenti.  Non ultimo tenendo presente che coordinamento non significa ricetta unica di politica economica e finanziaria.    

Questi cambiamenti strutturali nell’assetto politico istituzionale della UE aiutano a capire meglio il contesto politico-sociale su cui inserire il discorso sulla capacità fiscale da attribuire alle istituzioni centrali dell’Unione, alle modifiche da apportare ai Trattati esistenti, alle modifiche organizzative da operare nelle strutture operative necessarie a supporto e complemento di quelle dei singoli paesi membri. Non ultimo, alle previe azioni da condurre a livello internazionale ed interno per superare i vincoli stringenti che, fin qui, non hanno consentito di rendere operative le Direttive approvate e di ignorare ben 26 modifiche legislative in materia fiscale proposte dalla Commissione.

Come ho riportato nella prima recensione, per Piketty, il sistema tributario giusto per una società giusta si dovrebbe basare su tre imposte progressive: a) l’imposta progressiva sulla proprietà; b) sulle successioni; e c) quella generale sul reddito. Le prime due dovrebbero produrre un gettito pari al 5% del PIL che verrebbe utilizzato per finanziare la dotazione universale di capitale destinata ai giovani che compiono 25 anni. L’imposta progressiva sul reddito inclusiva dei contributi sociali e della carbon tax “coprirebbe” il 45% del PIL e finanzierebbe   tutte le altre spese pubbliche relative al reddito di base e al welfare. Piketty precisa che nel sistema tributario che propone non ci sono imposte indirette tranne quelle mirate a correggere esternalità negative come la citata carbon tax.

La proposta per il fisco europeo prevede di attribuire ad una Assemblea parlamentare – di cui ci occuperemo dopo – il potere di adottare 4 imposte comunitarie – e in via subordinata una 5a:

1) l’Imposta sugli utili delle società con aliquota del 15%;

2) una imposta rectius sovrimposta europea sugli alti redditi delle persone fisiche con due aliquote: 10% e 20% rispettivamente oltre i 200 e i 400 mila euro;

 3) una imposta comunitaria sui grandi patrimoni con due aliquote: 1% e 2% per patrimoni netti superiori a 1 e 5 milioni di euro;

4) imposta sulle emissioni di CO2 di 30 euro per tonnellata da rivalutare annualmente;

5) un’ulteriore imposta solo ipotizzata sulle successioni con due aliquote 10 e 20% per quote ereditate superiori a 1-2 milioni di euro.

Prospetta delle aliquote e delle cifre relative a redditi e patrimoni esemplificative per spiegare meglio la portata delle sue proposte. Le suddette aliquote si aggiungerebbero a quelle di competenza nazionale: un esempio, la sovrimposta comunitaria sugli utili societari del 15% potrebbe appoggiarsi sopra un’aliquota media a livello nazionale del 22%.

Con riguardo alla dotazione universale di capitale scrive che i giovani che in Europa, negli USA e in Cina compiono 25 anni, ogni anno, sono circa l’1,5% della popolazione adulta (in Francia circa 750-800 mila giovani su una popolazione adulta di circa 50 milioni). La dote universale verrebbe calcolata al 60% della ricchezza media per adulto, pari al 3-3,5 di reddito nazionale medio per adulto; quindi la dotazione di capitale si aggirerebbe sui 120 mila euro. Dice Piketty: “sarebbe come se tutti ricevessero una eredità”. Niente di nuovo sotto il sole, cita analoghe proposte del francese Condorcet, dell’inglese Thomas Paine – poi trapiantato in America- e altri.

Ha proposte emblematiche anche per le aliquote delle imposte sui redditi e sui patrimoni nell’ordine del 60-70% per quelli 10 volte superiori alla media; dell’80-90% per quelli oltre 100 volte superiori alla media. Si tratta di aliquote applicate per diversi decenni nel XX secolo in molti paesi ed, in particolare, negli USA e nel Regno Unito. Oggi, negli USA e in Francia, si applicano imposte sulla proprietà immobiliare nell’ordine dell’1% del valore, ma lasciando fuori la ricchezza finanziaria le prime risultano fortemente regressive sui patrimoni più piccoli.

A p. 1114, Piketty riprende l’analogia tra imposte progressive sui patrimoni netti e riforme agrarie del secondo dopoguerra quando stima in funzione illustrativa aliquote medie nell’ordine del 40-50%. Tenuto conto che a partire dagli anni 80-90 del secolo scorso i grandi patrimoni   sono cresciuti a tassi medi annui tra il 6-8% servirebbero aliquote di imposta del 5-10% per contenere o ridurre la concentrazione della ricchezza nella parte alta della sua distribuzione (1115).

Questi esercizi – ribadisce Piketty – si riferiscono a imposte progressive sui patrimoni, sui redditi e sulle quote ereditarie complessive con basi imponibili onnicomprensive dedotte le passività. In nota, per le imposte di successione, aggiunge che preferisce di evitare la tassazione del c.d. patrimonio globale del de cuius valutando, in caso di necessità, una imposta complementare su tutte le quote ereditate nel ciclo vitale. Riprende nella nota 49 p. 1116 l’esercizio numerico utilizzato sopra. 

Non c’è solo il problema dell’equilibrio dei conti pubblici ma anche quello del debito pregresso, in non pochi paesi, a livelli ritenuti troppo elevati.  Per l’ammortamento e riduzione del debito publico, Piketty non propone una mutualizzazione dei debiti attualmente in essere in testa ai PM dell’Eurozona ma un sistema che può essere utile non solo per l’Europa nel suo insieme ma anche per paesi in contesti diversi e/o a livello internazionale. La sua proposta prende le mosse da quella tedesca discussa nel 2012 sotto il titolo “Fondo europeo di redenzione del debito pubblico”. La differenza più rilevante della proposta del Nostro è che le decisioni sul da fare sono assunte dall’Assemblea parlamentare, in maniera trasparente, via via che i debiti si avvicinano alla scadenza e si deciderebbe quanta parte del debito sarebbe rifinanziato con emissioni di eurobond. Nel sistema proposto sono essenziali i conti separati “in modo che ogni paese membro continui a rimborsare il proprio debito ma a un tasso di interesse uguale per tutti”.

Per ridurre il debito pubblico Piketty ipotizza anche una imposta straordinaria sul patrimonio ma come strumento complementare non principale oppure il congelamento del DP a lungo termine con un tasso di interesse uguale o maggiore di zero come nel caso tedesco 1953 – poi del tutto cancellato nel 1991. Vedi nota 99 p. 1031

Si dice anche ottimista sul progetto dei paesi volenterosi per l’abrogazione dell’unanimità prevista in materia fiscale. E’ stato già fatto per alcuni Trattati intergovernativi che hanno creato strumenti nuovi per fronteggiare situazioni di crisi e, come noto, la Corte di giustizia UE ha avallato e salvaguardato la scelta.

Per potere prevedere dette imposte a livello europeo bisogna trovare le istituzioni legittimate a decidere superando ove quando necessario le regole automatiche previste dal Patto di stabilità e crescita e connesse direttive e regolamenti.

L’idea di Piketty e dei suoi colleghi che hanno scritto il “Progetto di trattato per la democratizzazione della governance economica della UE” (2017) è quella di costruire una sovranità parlamentare europea a partire dalle sovranità parlamentari nazionali ed affiancarla all’attuale PE che, a loro giudizio, non ha veri e propri poteri impositivi. Propone un’assemblea formata da deputati in parte (80 o 50%) eletti dai Parlamenti nazionali in proporzione alla popolazione adulta avente diritto al voto e in parte (20 o 50%) nominati dal PE. A sostegno di questa proposta richiama anche il Manifesto per la democratizzazione dell’Europa del dicembre 2018 e il lavoro collettivo di AAVV , Changer l’Europe, c’èst possible, Seuil, 2019.  Questa assemblea (anche senza deputati nominati dai Parlamenti nazionali) si sovrapporrebbe al PE soltanto per i PM che accettino di parteciparvi. Piketty preferisce la composizione al 50% ma non condivido la prima motivazione dietro detta preferenza: i parlamenti nazionali sono gli unici detentori del potere impositivo. La seconda motivazione è che, in questo modo, i parlamentari nazionali verrebbero eletti anche sulla base di forti temi europei: “la politica nazionale ne risulterebbe fortemente ‘europeizzata’”. È facile osservare che questo potrebbe essere vero solo se i candidati fossero scelti sul serio sulla base delle loro competenze sulle questioni europee e gli elettori fossero sufficientemente informati e consapevoli delle loro scelte.  Ma ci sono altri aspetti che, secondo me, rendono la proposta di democratizzazione della governance non convincente. Uno molto rilevante è che essa non tocca il ruolo del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo: il primo costituisce una specie di cupola di tutte le altre istituzioni; il secondo non ha alcun rapporto fiduciario con la proposta assemblea ma, in fatto, ne condivide la competenza legislativa. Infatti l’art. 7 del Progetto non tocca il Consiglio dei Capi di Stato e di governo e l’Eurogruppo ed io ritengo che finché non si abrogheranno queste due istituzioni e il voto all’unanimità non si imboccherà la strada verso un assetto federale. Al contrario si consolida il modello confederale.  Ai sensi dell’art. 8 del medesimo Progetto che si occupa di convergenza e coordinamento delle politiche economiche e che prevede la Relazione del meccanismo di allerta la Commissione elabora e scrive detta relazione e l’Eurogruppo, espressione dei governi nazionali, decide se va bene o meno. Non senza osservare che la rubrica di detto art. 8 parla di convergenza e coordinamento delle politiche economiche e di bilancio mentre la convergenza dovrebbe riferirsi ai livelli di crescita economica delle diverse regioni che attualmente mantengono cospicui divari quando non li aumentano.  Secondo l’art. 13 del progetto di Trattato, Eurogruppo e l’Assemblea legiferano insieme e, in caso di disaccordo, possono ricorrere ad un Comitato di conciliazione che innescherebbe una procedura lunga sino a 18 settimane di tempo per trovare un accordo.   Anche qui non si rispetta la separazione dei poteri che è necessaria e sufficiente di un sistema democratico. L’art. 16 ridefinisce le risorse proprie con rinvio all’art. 12 che formalmente prevede solo l’imposta sugli utili delle società. L’art. 15 prevede che la proposta di bilancio sia formulata dall’Assemblea, ma poi si dice che il progetto è deliberato dall’Eurogruppo. Se così sono sempre i governi nazionali che decidono il bilancio UE. E questa è logica confederale.  Pure ammettendo che le questioni di bilancio sono complesse e, come tali, non possono essere curate attentamente dai singoli parlamentari, non si capisce perché la elaborazione del progetto di bilancio sia lasciata all’Eurogruppo che formalmente non ha strutture permanenti se non ricorre a quelle della Commissione. Stranamente i proponenti non hanno preso in considerazione il modello USA dove il Presidente ed il Congresso si avvalgono di importanti strutture di supporto che si occupano sistematicamente della elaborazione e valutazione delle politiche di bilancio.

Se negli ultimi decenni in Europa è prevalsa la linea di rafforzamento del ruolo del governo sul terreno legislativo in generale e, in particolare, in materia di leggi di bilancio, con simmetrico indebolimento del ruolo dei Parlamenti nazionali, allora la proposta in esame fatta propria da Piketty non risolverebbe il deficit democratico né a livello nazionale né a livello centrale.

Non c’è governo federale se ci sono solo il Consiglio europeo e l’Eurogruppo e se alla Commissione europea si lasciano compiti meramente istruttori e di studio dei vari problemi oltre a quelli di rappresentanza.  I proponenti del Progetto, a commento dell’art. 1, affermano che hanno voluto costruire un “patto democratico” come contraltare al “patto di bilancio” (Fiscal Compact). Non c’è contraltare se si insiste sulla convergenza delle politiche economiche, alias, ricetta unica di politica economica e finanziaria mentre ad un sistema economico di area vasta con forti squilibri territoriali si addicono politiche economiche e finanziarie differenziate in grado di rispondere adeguatamente a shock simmetrici ed asimmetrici avvalendosi anche di meccanismi di trasferimenti compensativi vari. In realtà, le loro proposte hanno fallito il compito che si erano dati perché c’è governance quando non c’è democrazia e non si può democratizzare la governance europea se non si mette mano alla riforma dei Trattati eliminando del tutto l’attuale modello incerto e confuso che non rispetta la caratteristica fondamentale di un sistema democratico: la classica separazione netta dei poteri.    

Le tre imposte progressive più adatte a combattere le diseguaglianze

Thomas Piketty, Capitale e ideologia, traduzione di Lorenzo Matteoli e Andrea Terranova la nave di Teseo, 2020. Piketty definisce la sua un’analisi storica che sviluppa a livello mondiale o quasi per dimostrare che certe misure di politica economica e fiscale sono state adottate in tempi e luoghi diversi e, se non vengono adottate, non è per fatalità o impossibilità a farlo ma per precise scelte politiche spesso contrabbandate come scelte che non avevano o non hanno alternative (TINA: there is no alternative). Il focus della sua analisi è la lotta alle disuguaglianze cresciute enormemente negli ultimi 4 decenni – gli anni che hanno visto il trionfo dell’ideologia neoliberista. Gli assunti fondamentali di Piketty sono: “la disuguaglianza non è economica o tecnologica, è ideologica e politica”; le disuguaglianze non sono “naturali e necessarie”; dipendono dalle istituzioni; nel passato dipendevano dalle società ternarie articolate sul clero, l’aristocrazia e la plebe. Piketty si autodefinisce ottimista e afferma che anche le attuali istituzioni non sono le uniche possibili; possono cambiare e reinventarsi. Il riferimento va ai paesi europei dove le socialdemocrazie hanno costruito i sistemi di welfare più avanzati del mondo ma poi non hanno saputo innovare le loro piattaforme programmatiche per difenderli e/o adattarli alle nuove condizioni. In questo quadro annota che anche il postcomunismo nelle diverse varianti è diventato il miglior alleato dell’ipercapitalismo. Più in generale aggiungerei che, negli anni 80 del secolo scorso, la sinistra europea si è suicidata, accogliendo in gran parte i paradigmi neoliberisti, in alcuni casi, dilapidando con le privatizzazioni patrimoni pubblici di consistente valore. Come noto, il cuore del compromesso socialdemocratico prevedeva da un lato la rinuncia da parte della sinistra all’obiettivo del superamento del sistema capitalistico, dall’altro lato, il riconoscimento dei più ampi diritti civili e sociali per le classi lavoratrici. Piketty ci vede anche la delegittimazione della proprietà privata e della concorrenza di mercato.  Cita Hannah Arendt (1951) per evidenziare il limite dell’azione e della cultura dei partiti socialdemocratici che, in forza del compromesso socialdemocratico, hanno messo da parte i problemi del superamento del capitalismo e dello Stato-nazione (627). Hanno ritenuto di poter costruire lo Stato fiscale e welfaristico solo all’interno del paese-nazione. E così è stato anche perché erano falliti tutti i tentativi di costruire delle federazioni europee lanciati prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Già da queste brevi e sommarie considerazioni si deduce che Piketty non è un marxista e lo dichiara apertamente. Si definisce gradualista e un socialista partecipativo ed individua la sua identità culturale nel progressismo anglosassone soprattutto degli economisti classici e nella eredità (heritage) della Rivoluzione francese.   Piketty (1093) definisce la società giusta che lui vuole: “quella che consente a tutti i suoi membri di avere l’accesso più ampio possibile ai beni di base: l’istruzione, la salute, il diritto di voto e, più in generale, la più completa partecipazione alle varie forme della vita sociale, culturale, economica, civile e politica.  La società giusta organizza i rapporti socioeconomici, la proprietà e la distribuzione dei redditi e dei patrimoni, allo scopo di permettere ai membri meno privilegiati di beneficiare delle condizioni di vita migliori possibili. Una società giusta non implica uniformità o uguaglianza assoluta. La disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni in una società può essere giusta solo nella misura in cui è il risultato di aspirazioni diverse e di distinte scelte esistenziali, e se permette al contempo di migliorare le condizioni di vita e di aumentare le opportunità dei soggetti più svantaggiati. Ma tale condizione deve essere dimostrata e non solo presunta, ed è un argomento che comunque non può essere impiegato per giustificare qualunque livello di diseguaglianza, come si fa anche troppo spesso”. Vedi assonanza con John Rawls grande filosofo liberal dell’economia e teorico della giustizia sociale e più diretta somiglianza con il socialismo liberale di Piero Gobetti e Carlo Rosselli.

Il programma più ampio si articola: a) possibile proprietà giusta; diritto di voto nelle imprese sociali; proprietà privata temporanea, a tempo e, quindi, sociale; imposte patrimoniali progressive per favorire la mobilità sociale e controllare la concentrazione della proprietà causa fondamentale delle disuguaglianze; dotazione universale di capitale per tutti i giovani.

Le imposte progressive sui redditi e sui patrimoni devono articolare un fisco giusto per una società giusta; il che presuppone una precisa teoria della giustizia sociale di cui buona parte può essere e deve essere assicurata dalla giustizia fiscale. Solo in questo modo si può operare quella ricostruzione della coalizione egualitaria che i partiti socialdemocratici non hanno saputo conservare ed innovare. Per costruire un sistema educativo giusto e un sistema tributario giusto serve la trasparenza piena ed il controllo sociale di tutti i cittadini. Non è solo utopia. Infatti a p. 1092 Piketty denuncia l’insufficiente competenza dei cittadini sulle questioni economiche e finanziarie ma si può migliorare. Data la forte interdipendenza dei sistemi economici non è possibile realizzare un sistema simile senza un contesto internazionale adeguatamente modificato e coordinato. Invoca una organizzazione mondiale dell’economia alternativa che chiama social federalista con forme nuove di solidarietà fiscale, sociale e ambientale che sostituisca o controlli l’attuale libera circolazione delle merci e dei capitali.

Presentare un volume di 1.176 pagine diviso in quattro parti con la storia millenaria della finanza pubblica in diversi paesi di diversi continenti, con ampie introduzioni e conclusioni, non è facile e, per questo motivo, qui mi limito a presentare le sue proposte fiscali sintetizzate nell’obiettivo di un fisco giusto all’interno della sua società giusta. In Europa i partiti socialdemocratici: 1) hanno sottovalutato la questione della giusta tassazione del reddito e della proprietà. Impropriamente, si è posta la questione della proprietà in termini di nazionalizzazioni e non di socializzazione – aggiungo io come proponevano Eugenio Rignano, Walter Rathenau prima e dopo la prima guerra mondiale e, negli anni trenta, Carlo Rosselli); 2) non hanno saputo promuovere un adeguato coordinamento a livello internazionale. Il riferimento va alla concorrenza fiscale che, secondo Piketty, è in flagrante contraddizione con l’idea stessa di giustizia fiscale – su cui concordo pienamente.

Alla fine Piketty propone tre imposte dirette personali e progressive: a) l’imposta personale e progressiva sui redditi ovviamente a base imponibile onnicomprensiva, cioè, inclusiva delle rendite fondiarie e finanziarie; b) un’imposta ordinaria progressiva personale sul patrimonio netto; c) un’imposta progressiva sulle successioni e sui trasferimenti inter vivos delle diverse forme di ricchezza materiale ed immateriale. 

In un contesto di capitalismo e finanza globali, se si vuole salvare il welfare, se si vuole promuovere la crescita bisogna agire,  da un lato, a livello globale per superare i problemi determinati da una liberalizzazione dei movimenti di capitali e delle merci voluta dagli USA e dalla UE “a prescindere da ogni obiettivo fiscale e sociale”, dall’altro lato, a livello nazionale, per superare la propalata ed infondata ipotesi della incompatibilità tra globalizzazione e welfare state. Imputa queste scelte all’impreparazione, incompetenza e improvvisazione dei protagonisti. Come osserva Dani Rodrik 2019, siamo in un contesto in cui la governance internazionale non consente di governare la libertà dei movimenti di capitale e la concorrenza fiscale e, quindi, resta importante il ruolo dei governi nazionali per promuovere una crescita equa e sostenibile solo che si vogliano e si sappiano superare gli ostacoli che vi si frappongono. 

 Con riguardo alle imposte personali sul reddito, Piketty osserva che nel secondo dopoguerra nei principali paesi industriali erano vigenti aliquote marginali tra il 27 e l’80% e sono rimaste in vigore sino a metà degli anni 70. Negli ultimi 40 anni, specialmente in seguito alla progressiva applicazione del regime di piena libertà dei movimenti dei capitali, in media suddette aliquote si sono abbassate in Europa al 42% – vedi l’attuale 43% della nostra Irpef.   Peraltro le alte aliquote delle imposte sul reddito avevano esercitato un freno agli stipendi alti dei manager specialmente dove ci sono forme di cogestione.

Sulle imposte patrimoniali si registra un dibattito incompiuto negli USA e in Europa. La concentrazione dei patrimoni e delle rendite finanziarie molto più elevata di quella dei redditi di lavoro dipendente e delle pensioni. Nel corso del XX secolo (in particolare tra il 1914 e il 1950) detta concentrazione si è considerevolmente abbassata per via delle due Guerre mondiali, le riforme agrarie, i regimi di equo canone, l’abbassamento dei valori patrimoniali e dei relativi rendimenti. (vedi pp. 490-92). La tesi di Piketty è che aliquote marginali elevate nell’ordine del 70-80% applicate con le imposte sul reddito e sulle successioni non si sarebbero potute applicare senza gli sconvolgimenti prodotti dalla I guerra mondiale e poi della II. Subivano un duro colpo le società proprietariste e si costruivano quelle socialdemocratiche. Emblematico il caso della Svezia dove la mobilitazione straordinaria, portata avanti tra il 1890 e il 1930, raggiungeva l’obiettivo del welfare state e del voto egualitario. Negli Stati Uniti, il democratico Bernie Sanders da tempo propone aliquote più alte per le imposte sui redditi e per i patrimoni più alti e limiti ai compensi per gli amministratori delle società.  La Sen. Elisabeth Warren propone anche una patrimoniale del 6% per i patrimoni al di sopra di un miliardo di dollari.   

Negli Ultimi 40 anni la concentrazione della ricchezza è fortemente aumentata. Come si alimenta la concentrazione dei patrimoni?  Come noto, nei principali paesi occidentali si è adottato il c.d. modello duale che sottopone a regimi sostitutivi di favore i redditi di capitale. L’85% del reddito guadagnato dagli americani che costituiscono il 90% della distribuzione è reddito di lavoro dipendente; a questi soggetti va solo il 15% dei redditi di capitale mentre i soggetti del top 1% ne ricevono il 50% in forma di redditi di capitale; e ancora il top 0,1% dei contribuenti la quota di redditi di capitale sale ai due terzi. (Saez-Zucman, 2019: 97).  I dati sono indirettamente confermati da una recente indagine della Federal Reserve secondo cui alla fine del I° trimestre 2020 l’1% degli americani più ricchi possiede il 51,8% – pari a 11.300 miliardi- delle azioni e delle quote dei fondi di investimento di tutti i titoli in possesso di cittadini americani. Il percentile tra il 90-99% possiede in valore assoluto 7.750 miliardi di dollari. Dall’altro lato della distribuzione il 50% dei più poveri ne possiedono solo 160 miliardi. Vittorio Carlini il Sole 24 Ore del 14-07-2020.

Come si confronta l’Europa con gli USA. Secondo Piketty il 10% degli europei più ricchi è passato dal 30% degli anni 80 a oltre il 35% del 2019 avvicinandosi ai paperoni americani. Le disuguaglianze aumentano a partire dagli anni 80 da quando sia in America che in Europa si è operato alacremente per abbassare le aliquote sia delle imposte sul reddito che di quelle sul patrimonio. N’è responsabile anche il c.d. Washington Consensus, cioè, la linea di politica tributaria portata avanti dal FMI e della Banca Mondiale sostenendo che si potevano tranquillamente abbassare suddette aliquote marginali elevate se, sul versante della spesa pubblica, l’operatore pubblico mirava a soddisfare i bisogni delle classi meno favorite. Non ultimo, un contributo alla crescita delle disuguaglianze è venuto anche dal declino della sindacalizzazione e del potere negoziale degli stessi sindacati come hanno rilevato due ricercatrici del FMI: Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron. In particolare in quei paesi che hanno ritenuto di preservare la competitività delle imprese esportatrici con politiche generalizzate di contenimento dei costi del lavoro, alias, con svalutazioni interne dei prezzi e dei salari.

Secondo Piketty, le imposte patrimoniali progressive sono necessarie perché consentono la circolazione del capitale e in questo consiste il vero superamento del capitalismo perché quello che si ottiene attraverso la proprietà sociale e il diritto di voto dei lavoratori all’interno delle aziende non è sufficiente. Accettato che la proprietà privata continuerà ad avere un ruolo nell’economia specialmente attraverso le piccole e medie imprese si deve modificare la regolazione del sistema economico e sociale in modo da evitare la concentrazione incontrollata della ricchezza e, quindi, controllare non solo la dinamica dei redditi ma anche quella dei patrimoni. A sostegno della sua tesi Piketty cita i dati dei primi anni del XX secolo e quelli del II dopoguerra che dimostrano una minore concentrazione della ricchezza ed una più rapida crescita economica. L’estrema disuguaglianza non favorisce la crescita ed il benessere collettivo; non è il prezzo da pagare per la prosperità e, meno che mai, per il c.d. sgocciolamento di cui parlano alcuni neoliberisti d’accatto. Come dire che i meno fortunati o meglio quelli poco protetti dal sistema si devono accontentare delle briciole che i ricchi lasciano cadere dai loro tavoli. Ovviamente si tratta di visione miope   perché la disuguaglianza contribuisce ad esacerbare il conflitto sociale, il nazionalismo, erode la coesione sociale e, alla fine, la stessa democrazia; sottrae risorse all’investimento nel sociale, nell’istruzione, nella sanità che deprime il reddito potenziale con danno per tutti.  Denuncia le privatizzazioni a sconto di cui hanno beneficiato solo i privati e le loro rendite finanziarie.   

Le imposte di successione e/o sui trasferimenti mortis causa ed inter vivos. Anche queste per Piketty sono strumenti fondamentali per controllare la dinamica patrimoniale in chiave ordinaria e straordinaria. Il loro ruolo diventa più chiaro se si tiene presente l’obbiettivo strategico della socializzazione della proprietà. Ci sono tre regimi che si concepiscono per la proprietà: pubblica, sociale, temporanea.   Un regime generale di proprietà pubblica sostituisce i proprietari privati con funzionari pubblici ai diversi livelli di governo;  nella proprietà sociale, i lavoratori e/o dipendenti dell’impresa partecipano alla gestione della stessa direttamente o indirettamente attraverso loro rappresentanti; nel terzo regime, ogni anno i proprietari devono restituire alla collettività una quota parte della proprietà acquisita per finanziare la dotazione universale di capitale da dare ad ogni giovane , per sostenere la circolazione della proprietà, per contenere la concentrazione della proprietà e del potere.  “Tutti i dati storici oggi disponibili – aggiunge Piketty: 564 – suggeriscono che queste tre forme di superamento della proprietà privata sono complementari tra di loro”.

In Italia, non abbiamo una imposta patrimoniale ordinaria personale e progressiva ma abbiamo una imposta di successione con quota esente abnorme (un milione di euro) reintrodotta dal Ministro Visco del governo Prodi-2 dopo che il governo Berlusconi l’aveva abrogata.  Lo Stato incassa 759 milioni all’anno (vedi RGS bilancio semplificato 2020-22) una somma risibile verosimilmente pagata da quanti non sanno o non vogliono avvalersi delle scappatoie legali lasciate aperte da legislatori colpevoli. Abbiamo l’imposta di registro e altre imposte sulle seconde case che complessivamente assicurano allo Stato e agli enti sub-centrali   40-45 miliardi di gettito – Tari inclusa che ha un profilo marcatamente regressivo e sempre che la si voglia considerare un’imposta patrimoniale vedi Messina-Savegnago-Sechi. Ma quel che conta è che dette imposte non moderano il flusso di risorse che alimentano le rendite finanziarie e consentono alla maggioranza degli italiani in età di lavoro di vivere di rendita immobiliare e mobiliare. In Italia il 10% più ricco della popolazione nel 1995 controllava circa il 50% della ricchezza, nel 2016 più del 60% – vedi Luca Ricolfi e il sito web ForumDD dove trovare moltissimi studi e dati sulle disuguaglianze in Italia.

Allo stato, non si può mettere in atto alcun coordinamento serio tra queste imposte patrimoniali reali su singoli cespiti e l’imposta di successione e, quindi, a mio parere, il riordino della tassazione patrimoniale è più urgente di quella della tassazione sul reddito specialmente se quest’ultima dovesse andare nella direzione del consolidamento del modello duale.  Se questo è vero e se l’obiettivo prioritario delle imposte patrimoniali deve essere da un lato quello di controllare la dinamica patrimoniale e, dall’altro, quello di assicurare ai giovani una dotazione universale di capitale, allora bisogna procedere con gradualità sostenendo proposte come quella di Granaglia-Morelli 2019 per l’imposta di successione riveduta e corretta e di un riordino opportuno dell’imposta di registro per renderla più equa ed efficiente e, non ultimo, prevedendo l’adozione del metodo delle variazioni patrimoniali come strumento generale di accertamento delle imposte dirette sui redditi e sui patrimoni. 

Cenni bibliografici:

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1967;

https://www.fiscooggi.it/rubrica/analisi-e-commenti/articolo/limposta-successione-storia-tributo-complesso Stefano Manestra 2013;

Elena Granaglia e Salvatore Morelli, Contro la disuguaglianza da ricchezza originaria: una proposta, Rivista il Mulino n. 4/2019;

Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, 2019;

IMF Staff Paper: Linkages Between Labor Market Institutions and Inequality, IMF Survey online;

Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019

A. Johansson, C. Heady, J. Arnold, B. Brys, L. Vartia, Taxation and economic growth, Economic Department Working Paper No. 629, 2008. Un altro studio contesta queste conclusioni, argomentando che un aumento delle imposte indirette accompagnato da una riduzione delle imposte dirette ha effettivi positivi sulla crescita solo a lungo termine (D. Baiardi P. Profeta, R. Puglisi, S. Scabrosetti, Tax policy and economic growth: does it really matter?, Società italiana di economia pubblica, Working Paper n. 718, gennaio 2017).  http://www.siepweb.it/siep/images/joomd/1485942065Baiardi_et_al_WP_SIEP_718.pdf

Per la proposta di una imposta patrimoniale di tipo europeo, si rimanda a A Krenek M Schratzenstaller, A European Net Wealth Tax, WIFO Working Papers, No. 561, aprile 2018.  

https://berniesanders.com/issues/income-inequality-tax-plan/

https://www.taxpolicycenter.org/tags/elizabeth-warren

Enzo Russo, “De Profundis per l’imposta di successione”, in Rivista dei Tributi Locali, n.1/2002, pp. 33-51;

G. Messina, M. Savegnago e A. Sechi, Il prelievo locale sui rifiuti in Italia: benefit tax o patrimoniale occulta? Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n. 474, dicembre 2018;  

G. Messina, M. Savegnago e A. Sechi, Il prelievo locale sui rifiuti in Italia: benefit tax o patrimoniale occulta? Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n. 474, dicembre 2018;  Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, The Triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W. W. Norton & Company, 2019.