Cosa fare per lottare contro l’ingiustizia fiscale negli USA.

Se fiducia e cooperazione creano la società coesa, senza tasse non c’è né fiducia né cooperazione, non c’è coesione sociale nè prosperità; non c’è una comunità di destino perché bisogna sapere che i sistemi tributari delle democrazie più avanzate funzionano non grazie ai controlli più o meno efficaci ma grazie all’adesione spontanea. Se prevale l’egoismo, l’individualismo metodologico, l’individuo razionale individuato come quello che sa massimizzare il proprio interesse predicato dai neoliberisti negli ultimi 40 anni dopo il trionfo della Scuola di Chicago con l’assegnazione del Premio Nobel a Milton Friedman e l’arrivo della Signora Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli USA i sistemi tributari vengono manipolati ad arte non solo per ridurne il gettito ma anche per favorire i più ricchi. Sono gli anni che hanno consentito il trionfo dell’ingiustizia fiscale e della negazione della democrazia di cui parlano Emmanuel Saez e Gabriel Zucman nel loro libro: The Triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W. W. Norton & Company, 2019.

Seguendo la loro introduzione, il primo contributo del libro è quello di raccontare,  per filo e per segno, la grande trasformazione – non quella di Karl Polanyi 1944 – ma quella del sistema tributario USA e di altri paesi che ne hanno seguito il modello passando da imposte con aliquote marginali molto elevate nell’ordine dell’80-90% delle imposte sul reddito a imposte personali con aliquote proporzionali o addirittura regressive per i più ricchi con aliquote massime nell’ordine del 42-43% in pratica dimezzate. Per dimostrare la loro tesi i due economisti si avvalgono di un data-base di oltre un secolo di statistiche che coprono abbondantemente l’introduzione dell’imposta personale sul reddito introdotta negli USA nel 1913.

Con il secondo contributo, mettono in evidenza che nel 1970 i ricchi americani – considerate tutte le imposte – pagavano più del 50% (aliquota media effettiva) del loro reddito equivalente al doppio di quello che pagava la classe lavoratrice. Nel 2018 dopo la riforma fiscale di Trump e, per la prima volta in cento anni, i miliardari americani pagano meno dei lavoratori metalmeccanici, insegnanti e pensionati.  Gli autori sostengono che di per sé la drastica riduzione delle tasse che si è verificata negli ultimi 40-50 anni non dipende – come alcuni propalano – dalla globalizzazione. Questa non impedisce di tassare i ricchi all’interno dei diversi paesi e, se così, la buona notizia è che ci sono le condizioni per ridurre l’ingiustizia fiscale e gli Autori indicano alcuni modi per farlo.

Il terzo contributo consiste nel mettere a disposizione di tutti un sito web denominato  www.taxjusticenow.org nel quale  gli esperti potranno controllare le simulazioni operate dagli Autori e farne di proprie con i dati disponili.    Lo scopo fondamentale del sito è quello di riempire di dati fattuali le chiacchiere di quanti, sia a sinistra che al centro, ragionano in termini vaghi e aiutarli a costruire un sistema tributario per il XXI secolo e fare tornare gli USA un faro di giustizia tributaria come lo è stato negli anni 30-70 del secolo scorso.

Saez e Zucman suddividono i contribuenti americani in tre classi sociali: 1) la classe lavoratrice, ossia, quelli che stanno nel 50% più basso dei redditi e in media guadagnano 18.500 $ all’anno – si tratta di 122 milioni di persone che percepiscono un reddito pari a circa un quarto della media nazionale (75 mila dollari)  ; 2) segue la classe media che annovera 100 milioni di adulti (40% del totale) e guadagna 75 mila dollari casualmente pari alla media nazionale; nonostante che a livello internazionale si parli di impoverimento della classe media, quella americana resta ancora una di quelle più prospere; 3) in cima alla piramide c’è il 10% dei contribuenti che Saez e Zucman distinguono in upper middle class (22 milioni=9%) e l’1% più ricco pari a 2,4 milioni di contribuenti.    Il reddito medio dei primi si ragguaglia a 220 mila dollari quello dei secondi a 1,5 milioni in media annuale. Il che significa che, in media, i più ricchi denunciano un reddito imponibile 81 volte più grande della classe lavoratrice prima delle tasse e dei trasferimenti. Si tratta di dato che ovviamente nasconde differenze molto più divaricate se si tiene conto che i redditi dichiarati dai più ricchi sono molto diversi da quelli effettivamente guadagnati e goduti. Secondo Saez e Zucman il risultato è che il sistema tributario nordamericano non è democratico ma plutocratico.   

Conviene riprendere un secondo calcolo che i due economisti fanno dividendo l’ultimo decile in gruppi più piccoli sino ad arrivare ai 400 americani più ricchi e calcolando quanto pagano di imposte. Contro ogni aspettativa della gente comune, viene fuori che l’aliquota media effettiva dell’imposta sul reddito è pari al 28% ma le tre principali classi sociali pagano tra il 20 e il 25%. Includendo quello che paga la upper middle class la media si stabilizza attorno al 28% mentre i 400 americani più ricchi pagano solo il 23% confermando quello che i giornali riportano ormai da diversi decenni secondo cui i miliardari come Zucherberg e Buffett pagano meno imposte sul reddito degli insegnanti e/o delle loro segretarie. All’ingrosso questo succede perché la maggior parte dei loro redditi di capitale godono di agevolazioni, regimi sostituivi, aliquote ridotte per non parlare di forme diverse più o meno sofisticate di elusione, erosione ed evasione diretta. Sulla base di questa analisi essenziale Saez e Zucman concludono che l’imposta diretta sul reddito è una grande flat tax, ossia, è progressiva per i redditi più bassi e quelli intermedi e regressiva per i più ricchi. Leggendo il libro troverete non solo molti più numeri di quelli citati ma anche molti grafici che rendono molto più chiare le dinamiche degli ultimi decenni.

Come abbiamo visto sopra l’imposta personale sul reddito è arrivata piuttosto tardi negli USA (1913) ma le imposte sul patrimonio risalgono al 17mo secolo. Tassavano ogni forma di ricchezza gioielli inclusi con aliquote basse per lo più proporzionali ma i metodi di accertamento non erano omogenei o applicati con lo stesso rigore nei diversi Stati. C’erano forti differenze tra Massachusetts e la Virginia, tuttavia il principio era mantenuto ad un tempo con il supremo primato della proprietà privata. Molto interessanti i dati più recenti del gettito delle imposte di successione e dei trasferimenti inter vivos che ancora nei primi anni 70 del secolo scorso producevano un gettito pari allo 0,20% del patrimonio netto delle famiglie. Dal 2010 raramente il gettito di dette imposte ha raggiunto lo 0,03-0,04% all’anno a causa dell’innalzamento delle quote esenti e alla riduzione dell’aliquota massima dal 77% nel 1976 al 40% di oggi ma soprattutto a causa del crollo degli accertamenti. Affermano Saez e Zucman: “sembrerebbe che in America o non ci sono ricchi oppure se ci sono non muoiono mai”. Lo stesso posso dire per l’Italia.  

A partire dagli 80 è iniziata la commercializzazione della sovranità dello Stato e la rifioritura dei paradisi fiscali. Assistiamo al trionfo della concorrenza fiscale che viene utilizzata strumentalmente per “affamare la bestia”, ossia, facendo venire meno le entrate nella speranza che i governi taglino la spesa pubblica. In fatto molti di questi tentativi sono falliti in diversi paesi e il risultato è stato un aumento del debito pubblico i cui interessi sono tassati con aliquote di favore quando non esentati del tutto. Il debito pubblico viene per lo più sottoscritto dai ricchi e questo meccanismo perverso va ad alimentare le rendite finanziarie e la crescita delle disuguaglianze. Ipocritamente alla concorrenza fiscale non si oppone alcun serio tentativo di tornare all’armonizzazione fiscale neanche all’interno dell’UE e/o coordinamento a livello internazionale. All’OCSE si studiano e si producono buoni documenti anche in materia di erosione e armonizzazione delle basi imponibili delle imposte sulle società, trasferimento dei profitti in paesi a bassa fiscalità, ecc. ma non si parla di armonizzare le aliquote d’imposta. In fatto le organizzazioni internazionali specializzate delle Nazioni Unite non fanno niente per combattere i paradisi fiscali. In fatto appoggiano o proteggono le forze non democratiche dietro di essi.

Si è giunti a questo punto anche perché, nel tempo, si sono ridotte le risorse economiche e umane qualificate allo IRS per fare i controlli. A questo riguardo, i due economisti propongono a public protection bureau, alias, una sorta di autorità amministrativa indipendente per mettere al riparo lo IRS dalle pressioni politiche del Presidente o delle maggioranze del Congresso. Secondo me, la proposta è debole e illusoria e non mi sembra possa risultare efficiente ed efficace. Anche negli USA c’è un’ampia letteratura sul come dette AAI vengono catturate dai soggetti che dovrebbero controllare. Robert Reich ministro del lavoro con Clinton sostiene che Wall Street è in grado di influire in maniera determinante sulle elezioni dei Presidenti e di molti parlamentari dei due principali partiti politici. Che cosa fare allora? Bisogna informare meglio l’opinione pubblica e sperare in una sua reazione. In Italia c’è stata una significativa reazione avverso gli evasori alla fine degli anni 70 tanto che fu istituito un corpo speciale di ispettori tributari poi lentamente trasformato in mero organo di consulenza e, quindi, sciolto. Negli USA più recentemente c’è stato il movimento Occupy Wall Street. Siamo il 99% a partire dal settembre 2011 che denunciava la forte crescita delle disuguaglianze, la finanziarizzazione dell’economia a danno di quella produttiva e la concentrazione della ricchezza sull’1%, ma il suo appello non è stato accolto dai governanti nordamericani. Vedi al riguardo il libro di Noam Chomsky, Siamo il 99%, Cronachenottetempo editore, luglio 212.

I super ricchi avvalendosi di qualificate consulenze sanno sfruttare tutte le scappatoie e i buchi neri che le legislazioni fiscali lasciano aperti ed organizzano i loro affari in modo da percepire e dichiarare redditi imponibili bassi mentre fanno aumentare i loro patrimoni. E’ rimasto inascoltato il monito storico di James Madison uno dei più intelligenti e attivi padri della Costituzione degli Stati Uniti secondo cui l’obiettivo dei partiti doveva essere quello di combattere il male: 1) stabilendo l’uguaglianza tra tutti; 2) impedendo ai pochi di fare aumentare le disuguaglianze per via di smodate e immeritate accumulazioni di ricchezze.   Madison aggiungeva che una forte concentrazione della ricchezza è per la democrazia così velenosa come la guerra. Per dimostrare che queste considerazioni non sono elaborazioni teoriche di benpensanti, i due economisti di Berkeley citano tre fatti. Il primo è che per via dell’assistenza sanitaria non universale finanziate a mezzo di assicurazioni private, in questi ultimi decenni, si è registrato negli USA un calo dell’aspettativa di vita; i ricchi vivono più a lungo mentre i poveri muoiono più giovani. Il secondo fatto riguarda i conti della sanità USA. Il paese spende il 20% del PIL per un sistema che ancora lascia il 14% della popolazione senza copertura; negli altri paesi avanzati si spende il 10% o giù di lì. I datori di lavoro formalmente pagano i premi di assicurazione per i loro dipendenti ma per essi sono un costo del lavoro che abbassa la possibilità di alzare i salari. Per un lavoratore che guadagna 40 mila dollari il premio ammonta a 12 mila dollari pari al 23% del salario lordo. Il premio di assicurazione è proporzionale sino ad un certo livello e si traduce in una poll tax. Se gli USA riuscissero a portare la spesa sanitaria a livello dei paesi europei un lavoratore del 50% con redditi più bassi ne riceverebbe un vantaggio pari a 7.500 dollari. 

Il terzo fatto è che, se i ricchi accumulano grandi patrimoni e dichiarano redditi relativamente molto bassi, tornare ad aliquote marginali massime come nei 40 anni successivi alla II guerra mondiale non basterebbe a raccogliere il gettito necessario per un welfare universale in grado di combattere efficacemente le disuguaglianze. Perché negli USA e nella UE non siamo riusciti a farlo? Perché in questi Paesi è prevalsa l’opinione – non priva di qualche fondamento teorico – secondo cui non servono le imposte progressive né sul reddito né sul patrimonio netto se l’operatore pubblico riesce ad aiutare i più bisognosi con la spesa pubblica. Anche il FMI e la Banca Mondiale seguono questa linea di politica redistributiva in Africa e in Asia ma Saez e Zucman sostengono – secondo me a ragione – che detta linea non produce sviluppo e non aumenta la fiducia nelle istituzioni e nei governi. La questione non è teorica ma pratica. Detta linea è fallita negli USA dove il welfare non è universale ma è fallita anche in quei paesi europei che notoriamente hanno un welfare più avanzato ma non assicurano il pieno impiego e, quindi, hanno larghe fasce di disoccupati, inattivi e working poor. Da qui le proposte di basic income e/o di reddito di cittadinanza.

PQM Saez e Zucman ritengono che l’imposta personale e progressiva sul patrimonio netto è la maniera più appropriata di tassare i più ricchi – ovviamente non solo con essa. La concorrenza fiscale, la piena libertà dei movimenti di capitale nel mondo globalizzato non sono leggi di natura, sono frutto di decisioni legislative che possono essere abrogate, modificate o meglio coordinate e regolamentate. La decisione spetta a noi tutti.

Ingannevole il trionfalismo sull’accordo raggiunto nel recente Consiglio europeo.

 

Continuano i “festeggiamenti” per l’importante accordo raggiunto nel Consiglio straordinario del 17-21/07/20. Nella retorica trionfalistica di molti esponenti della maggioranza si attribuisce all’accordo portata storica. Personalmente ci vedo poco di storico. È storica la decisione di autorizzare la Commissione ad indebitarsi accedendo direttamente ai mercati finanziari emettendo nuovi eurobond. A ben riflettere, c’è il precedente del Meccanismo europeo di stabilità di dieci anni fa ma sappiamo che in Italia parlare del MES è un tabù. Inoltre alcuni ti fanno notare che la governance del MES è frutto di un Trattato intergovernativo ma questo per un economista è un problema secondario e formale.  In fatto quello che conta è che è l’Unione che emette eurobond. Nel caso del MES, i prestiti erano e sono destinati a sostenere i Paesi membri che avevano perso l’accesso diretto ai mercati. Il MES si occupa prevalentemente di stabilizzazione finanziaria con il Piano di rilancio la Commissione si occuperebbe di stabilizzazione del ciclo economico, alias, di contrasto della recessione conseguente alla Pandemia. Perché – al di là del meritorio lavoro svolto dal Presidente Conte in sede di negoziato con i c.d. Paesi frugali – non accetto la retorica trionfalistica del Piano di rilancio? Perché al di là della controversia sulla composizione del Fondo tra trasferimenti a fondo perduto e prestiti i “vincitori” ingannano i rispettivi elettorati non spiegando che i trasferimenti a fondo perduto non sono donazioni dai paesi ricchi a quelli meno ricchi. Questi ultimi – e in particolare l’Italia che contribuisce più di quanto ottiene di ritorno – dovrà contribuire di più per finanziare il Quadro finanziario poliennale che a sua volta dovrà finanziare il servizio sul debito pubblico acceso a questo scopo. Quindi la controversia di cui sopra per i PM contributori netti è una questione di lana caprina.  Anche i PM c.d. frugali avrebbero dovuto contribuire di più ma grazie alla meschina battaglia che hanno condotto essi hanno ottenuto anticipatamente uno sconto sulle loro contribuzioni al QFP. In altre parole hanno venduto il loro consenso o si sono lasciati comprare per alcune centinaia di milioni di euro. Prima del vertice ho sostenuto che il governo italiano faceva accattonaggio nella UE. Dopo il Vertice possiamo dire che anche i paesi c.d. frugali non si sono comportati meglio.

Tornando ora alle questioni di sostanza, osservo che neanche dopo il vertice che si è chiuso con un comunicato finale di 68 pagine, non vedo alcuna seria indagine sui fabbisogni: a) per un adeguato contrasto della grave recessione in cui siamo entrati; b) per la conversione ecologica dell’economia e lo sviluppo sostenibile; c) per la digitalizzazione dell’economia e la formazione permanente che essa comporta; d) per un piano di infrastrutture europee materiai e immateriali;  e) per misure concrete di lotta alle crescenti disuguaglianze e povertà nei diversi PM; f) per trasferimenti a fondo perduto (borse di studio, alias, investimenti nel capitale umano) per creare vere scuole e università europee ristrutturando quelle nazionali esistenti; ecc.  Se non ci sono stime attendibili sui fabbisogni e non ci sono piani poliennali per raggiungere gli ambiziosi obiettivi che la Commissione prevede per sé e per i PM, non si può dire se il Fondo concordato è sufficiente o meno. Con tutti i limiti di un confronto su dati macro tra USA e UE vediamo che gli stanziamenti del governo del primo paese fin qui ammontano a 3.500 miliardi di dollari e ora si cerca l’accordo con i Democratici per un provvedimento di altri mille miliardi di dollari mentre la Commissione prevede di spendere 750 miliardi di euro in quattro anni.  Senza considerare quello che le rispettive Banche centrali stanno facendo, è questa la differenza tra quello che può fare un vero e proprio governo federale e la Commissione europea – che con il rispetto dovuto mi sembra l’amministratore di un condominio condannato ad amministrare l’esistente, che non riconosce il valore aggiunto comune che può maturare investendo nel suo miglioramento.  Nella valutazione del Parlamento europeo si sottolinea il rischio che nel 2024 (fase intermedia del QFP) le risorse potrebbero risultare inferiori a quelle disponibili per il 2020 (punto 14). Ma questo non impedisce ai vari tromboni nazionali di fare propaganda ingannevole affermando che abbiamo  209 miliardi di euro a disposizione, che abbiamo le risorse per uscire dalla recessione ed entrare nel nuovo mondo. Questi signori evidentemente non hanno letto o fanno finta di ignorare la risoluzione del Parlamento europeo (23-07) sugli esiti del Vertice. Su 27 paragrafi, 23-24 esprimono aperte critiche o riserve sull’accordo raggiunto e, quindi, mi sento in buona compagnia e non isolato come mi capita spesso.

Non voglio sottovalutare l’importanza del risultato raggiunto in ritardo ma c’è da considerare il ridimensionamento al margine del QFP e meno che mai il raddoppio che aveva proposto la Commissione europea. In ogni caso, resta il fatto che il QFP non é un bilancio vero e proprio di un paese di media grandezza come l’Italia: 895,4 miliardi circa di pagamenti finali. È sfasato rispetto al ciclo politico; di dimensioni assolutamente inadeguate per contrastare una recessione grave come quella in cui siamo entrati e della quale non si vede nessuna luce in fondo al tunnel. Il bilancio dell’UE ammonta a 148 miliardi all’anno e, come afferma la Commissione in una sua pubblicazione annuale, “costa al cittadino medio meno di un caffè al giorno”. Certo con i 750 miliardi da spendere in 4 anni subirà un significativo aumento ma resta ancora ben lontano dal raggiungere la massa critica necessaria per contribuire in maniera significativa al contrasto di congiunture negative. Infatti è facile previsione che le risorse del piano di rilancio arriveranno gradualmente e lentamente per via dei tempi necessari per la selezione dei progetti da finanziare e le complesse procedure di approvazione. Sappiamo che se scoppia un incendio nel condominio è più facile spegnerlo se intervieni tempestivamente all’inizio non quando ha già distrutto metà degli appartamenti e tutte le suppellettili.  Molti non sembrano rendersi conto che siamo entrati in una recessione mondiale e la Pandemia sta nella fase espansiva su tre continenti del mondo e c’è chi teme una terza ondata in Cina.  La domanda mondiale rallenta e le recenti previsioni del FMI sono veramente allarmanti. E come se tutto questo non bastasse, aggiungo che nelle due ultime settimane il tasso di cambio tra euro e dollaro è passato 1,13 a 1,17. Non è un aumento sbalorditivo del cambio della moneta comune ma se questo trend dovesse confermarsi, c’è da preoccuparsi anche per le nostre esportazioni. A me sembra che non ci sia spazio per trionfalismi di sorta.

Carlo Rosselli alla ricerca della terza via nella libertà e nella democrazia*.

Nella sua Premessa agli “Scritti inediti di economia (1924-1927) di Carlo Rosselli, Biblion Edizioni, 2020, Paolo Bagnoli giustamente afferma che l’autore di questi scritti è stato un leader dell’antifascismo europeo, un grande politologo e teorico della democrazia. In Italia si era posto il problema di come rinnovare la piattaforma programmatica del Partito Socialista Italiano e di porre al centro di essa una teoria della giustizia sociale. In questa Premessa Bagnoli delinea il quadro storico politico all’interno del quale si muove Rosselli nei primi anni 20 quando i socialisti e le altre forze politiche non erano riusciti a bloccare la presa del potere da parte di Mussolini. Secondo Bagnoli al di là delle loro divisioni interne che avevano prima visto la scissione di Livorno (21 gennaio 1921) e poi quella (ottobre 1922) tra massimalisti e i riformisti di Filippo Turati che fondava poi il PSU, ai socialisti mancava un disegno strategico condiviso di salvaguardia della libertà e della democrazia. Il Partito Socialista Italiano non aveva capito la gravità della crisi economica e sociale che si era determinata nell’immediato dopoguerra a causa del diciannovismo che aveva provocato un violento scontro sociale e della illusione circa una possibile svolta rivoluzionaria alimentata dalla diffusa concezione deterministica della storia importata dal marxismo: “era accaduto in Russia poteva accadere in Italia”. Tra l’altro i socialisti non avevano neanche veri e propri leader rivoluzionari alla cui formazione Lenin aveva lavorato per 10 anni. I socialisti – continua Bagnoli – avevano una considerevole esperienza in termini di lotte mirate al riscatto sociale ma “non erano Stato e nemmeno si sentivano parte di esso”; non avevano capito il rapporto tra cittadini e istituzioni. Anche i popolari erano indecisi sul da fare tranne Don Luigi Sturzo. Più gravi le responsabilità dei liberali perché essi erano stati forza politica influente dall’unità in poi; si illusero che da sola la monarchia avrebbe resistito a Mussolini e salvato le istituzioni democratiche. Al capo dei fascisti bastò conquistarsi la fiducia del Re per raggiungere l’obiettivo.

Carlo Rosselli, tornato dalla guerra, avverte l’esigenza di capire, riflettere, di studiare e di confrontarsi con i compagni che si riunivano attorno a Gaetano Salvemini. Dopo anni di studio Carlo Rosselli capisce che il problema fondamentale dell’Italia è la libertà; la sua idea coincide con quella di Piero Gobetti secondo cui la libertà è il motore della storia. Tra i due nasce un grande sodalizio intellettuale. Cito da Bagnoli la frase che Gobetti scrive nel luglio 1924 presentando un articolo di Rosselli intitolato Liberalismo socialista sulla sua rivista La Rivoluzione liberale: “Una volta ammesso, come ammette Rosselli, che il socialismo è conquista da parte del proletariato di una relativa indispensabile autonomia economica e l’aspirazione delle masse ad affermarsi nella storia, il passo più difficile per intendersi è compiuto. Anche il nostro liberalismo è socialista se si accetta il bilancio del marxismo e del socialismo da noi offerto più volte. Basta che si accetti il principio che tutte le libertà sono solidali”. 

Evaso da Lipari con Emilio Lussu e Fausto Nitti, nell’agosto 1929, Rosselli fonda Giustizia e Libertà che non era e non voleva essere una costola del socialismo liberale ma un “movimento rivoluzionario dell’antifascismo democratico”, ossia, un movimento di quanti, archiviate le tessere e allargati gli orizzonti, vogliono combattere il fascismo per rifondare lo Stato sul paradigma libertà, democrazia e giustizia sociale. Nel gennaio 1932 elabora lo Schema di programma di Giustizia e Libertà vista come luogo di ricomposizione delle forze della sinistra italiana.  Paolo Bagnoli scrive di Carlo Rosselli economista non puramente accademico ma come scienziato sociale, uomo di azione che mira alla realizzazione di un progetto politico. Da qui lo studio attento del pensiero non solo economico degli economisti classici inglesi che, per l’appunto, erano anche filosofi morali, sociologi, storici economici, studiosi di etica privata e pubblica, in sintesi, scienziati sociali.  Infatti, se gli economisti si occupano non solo di produzione ma anche di distribuzione, delle due l’una: o ritengono che la distribuzione primaria conseguita dal mercato è “naturale” e soddisfacente – e non mancano economisti classici che lo fanno – oppure la ritengono socialmente inaccettabile e allora hanno bisogno di una teoria della giustizia sociale per cambiarla.

L’economista Marco Dardi elabora un giudizio su Carlo Rosselli economista riprendendo l’autodefinizione del Nostro: “economista né pivellino né eretico”. Sulle Dispense genovesi per gli studenti vede il modo in cui Carlo Rosselli svolge la sua funzione di docente mentre negli 11 dei 14 fascicoli di appunti ora raccolti nel volume della Biblion Edizioni vede la ricerca degli sviluppi del pensiero degli economisti classici tra il Sette e l’Ottocento che portano alla crescita del pensiero liberale caratterizzato da individualismo e utilitarismo – binomio con il quale Carlo Rosselli vuole fare i conti – mentre nel testo “Sulla razionalizzazione economica” del 1927 vede la ricerca di una via d’uscita dal sistema capitalistico.         Piuttosto secco il giudizio di Dardi su questi appunti: “quello che abbiamo non è la sua interpretazione degli economisti classici ma una interpretazione delle interpretazioni”.  A me sembra chiaro che gli appunti non possono essere valutati alla stregua di un saggio o di un trattato di economia, se l’obiettivo di Carlo Rosselli era quello di capire come ragionavano gli economisti classici che ipotizzavano (congetturavano) una “armonia spontanea fra interesse privato e interesse generale” basato sull’assunto che l’individuo è il miglior giudice di se stesso, la flessibilità dei salari e la capacità del mercato di autoregolarsi: se ognuno raggiunge il massimo di utilità, questa è la più alta per la collettività. Le citazioni delle interpretazioni precedenti la sua erano inevitabili.  Carlo Rosselli  respinge sia la visione ottimistica dell’armonia spontanea (naturale) sia quella Benthamiana del “massimo di benessere per il maggior numero di soggetti” dove i massimi sono vincolati per via della scarsità delle risorse e dai comportamenti e dalle preferenze degli operatori economici. Inoltre respinge l’idea della “illimitata proprietà privata dei mezzi di produzione e connesso incontrollato diritto di iniziativa affermando nel testo del 1927 il loro superamento a favore di quello che oggi chiamiamo un principio di regolazione mirato a garantire l’interesse generale o, come i costituenti del 1948 hanno scritto nell’art. 42 comma 2 della nostra Costituzione la funzione sociale che anche la proprietà privata deve assolvere. Di conseguenza, Carlo Rosselli supera il concetto di libertà individuale per passare a quella che oggi Axel Honneth** chiama libertà sociale, alias, la libertà dal bisogno delle masse diseredate. Per cui la libertà o è sociale oppure è solo privilegio di pochi; è enorme diseguaglianza. Vedi al riguardo l’analisi del suddetto direttore della Scuola di Francoforte sul fallimento del Trittico della Rivoluzione francese (libertà, uguaglianza, fratellanza) interpretato alla lettera. In questi termini, Dardi correttamente qualifica come socialmente radicato l’individualismo di Carlo Rosselli il quale condanna la socializzazione di tutti i mezzi di produzione (di stampo sovietico) perché al padrone in carne e ossa sostituisce un padrone anonimo, severo, lontano. Alquanto ingeneroso invece mi sembra il giudizio di Dardi quando afferma che Carlo Rosselli non ha fatto una revisione profonda del pensiero economico classico. Non era questo l’obiettivo che il Nostro si era dato e che stava perseguendo dentro e fuori le carceri: a) perché si tratta di appunti; b) perché non si è occupato di teoria economica ma di modelli e/o sistemi economici; c)  perché non ha avuto, secondo me, né tempo né interesse a rielaborarli in un Trattato; d) perché stiamo parlando non solo di storia del pensiero economico ma anche di etica individuale e pubblica,  di filosofia, sociologia, scienza politica e quant’altro nell’arco di un secolo e mezzo se si considerano anche le interpretazioni coeve e successive. Stiamo parlando di annotazioni varie su 50-60 personalità e scienziati sociali che hanno aggiunto vette molto alte del pensiero. Non basta una vita intera di più persone per fare una simile revisione.

Enno Ghiandelli aggiunge altre analisi sul pensiero politico di CR come uomo politico. Precisa che il Nostro liquida il sindacalismo di ispirazione cristiana a suo giudizio impregnato di un eccesso di solidarismo; critica pure il sindacalismo rivoluzionario perché accoglie la rigida suddivisione in due classi sociali; e sceglie quello riformista che, a suo giudizio, poteva evolvere nella direzione del socialismo liberale sul principio della libertà come motore della storia. Ghiandelli evidenzia questa scelta di Carlo Rosselli e la collega al Gildismo socialista inglese e ricorda la sua tesi di laurea dal titolo “Prime linee di una teoria economica dei sindacati operai”. Qui l’Autore “dimostra per via induttiva e deduttiva come non si possa estendere normalmente al mondo delle Leghe il teorema del massimo di utilità assicurato dal regime di libera concorrenza “.  A questo proposito mi corre l’obbligo di precisare di nuovo che per gli economisti classici, chi più e chi meno, la libera concorrenza era l’ordine naturale delle cose e, come ho ricordato sopra, l’Attore principale era solo l’individuo visto come produttore e/o come consumatore. Le Leghe e le organizzazioni dei lavoratori nascono e si sviluppano nella seconda parte dell’Ottocento in contemporanea con il fiorire del pensiero filosofico radicale. Nel suo Manifesto del 1948 Carlo Marx invoca l’organizzazione e l’unità anche internazionale degli operai. È solo nel ventesimo secolo che si studia a fondo la logica dell’azione collettiva. Oggi è più facile capire come i sindacati liberi dei lavoratori attraverso la libera contrattazione dei salari hanno un ruolo non secondario nella determinazione di una variabile importante i salari che insieme a profitti e rendite caratterizzano il funzionamento del sistema economico. Andando avanti nell’analisi del percorso intellettuale di Carlo Rosselli, Ghiandelli ci ricorda le critiche che il Nostro avanza nei confronti dei coniugi Webb. Non ne condivide la proposta politica della “democrazia industriale” perché assoggettata allo Stato democratico ma anche burocratico e, quindi, statalista. La sua preferenza va alla Comunità dei produttori. In questi termini, conferma la sua preferenza per il Gildismo di Cole e Hobson: la democrazia industriale fondata sul controllo operaio dal basso, no all’autoritarismo dall’alto. Prende definitivamente le distanze dai coniugi Webb perché non condivide il loro giudizio sull’URSS e sul fascismo.  Ghiandelli continua citando i discorsi e le analisi sul controllo operaio, le assonanze e dissonanze con Gramsci e la democrazia nelle fabbriche. Per capire quanto queste analisi e proposte fossero innovative basta ricordare che solo nel 1970 si arriva allo Statuto dei lavoratori passando per Filippo Turati, Bruno Buozzi, Giuseppe Di Vittorio, Giacomo Brodolini e Carlo Donat Cattin.

Carlo Rosselli ha una visione alternativa dello Stato e della Società che emerge con tutta chiarezza da un suo articolo del 1934 su Giustizia e Libertà” anno I, n. 19 riportato da Ghiandelli. Avendo sotto gli occhi il regime fascista scrive: “la rivoluzione italiana …. dovrà, sulle macerie dello Stato fascista capitalista, far risorgere la Società, federazione di associazioni quanto più libere e varie possibili. Avremo bisogno anche domani di un’amministrazione centrale, di un governo; ma così l’una come l’altro saranno agli ordini della società e non viceversa. L’uomo è il fine non lo Stato”. Così, Carlo Rosselli supera il dilemma individualismo/utilitarismo considerandosi un individualista egualitario.

Non ultimo devo dire che il saggio introduttivo di Ghiandelli non introduce solo agli scritti di economia 1924-1927 ma si estende a tutto il percorso intellettuale di Carlo Rosselli non solo come economista ma soprattutto come pensatore sociale e uomo politico, come oppositore del fascismo che gli costò la vita insieme a quella del fratello Nello. Un saggio illuminante e con un apparato di note esplicative e bibliografiche veramente impressionante che non solo rende più chiara la figura di studioso di Carlo Rosselli ma offre molti stimoli alla migliore comprensione di quella ricerca che negli anni 20 e 30 del secolo scorso veniva rubricata come “ricerca della terza via”.   Dopo i “trenta gloriosi” oggi viviamo ancora nei “quaranta vergognosi” sotto l’egemonia del neoliberismo. Discutiamo di possibili aggiustamenti al sistema capitalistico. A parte l’arcadica tesi della decrescita felice non si vedono tentativi così forti e decisi come quelli di Rosselli e di altri suoi contemporanei di tracciare i lineamenti di un modello alternativo.

                *Recensione destinata alla Rivista Storica del Socialismo, numero di imminente pubblicazione.

**Axel Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, Campi del sapere, Feltrinelli, 2016

Come affrontare il post Covid-19 secondo la CES

Il 9 giugno scorso il comitato esecutivo della Confederazione dei Sindacati europei una interessante dichiarazione sulla crisi covid-19 e la strategia di rilancio delle economie europee. Nella versione italiana c’è qualche piccolo problema di traduzione ma nella sostanza mi sembra che il documento colga bene i principali problemi che la doppia transizione o grande trasformazione che le economie europee devono affrontare. Su questo fronte l’Italia è indietro e agli ultimi posti. Basta citare due problemi. Secondo un’indagine di fonte datoriale, a dicembre 2019, 1.200.000 posti di lavoro sono rimasti vuoti perché dal lato dell’offerta non c’erano le qualifiche richieste. Quindi abbiamo un problema di formazione permanente molto grave e la Pandemia sta mettendo a rischio i processi formativi nelle scuole, nelle Università e nelle imprese. 

Per erogare i fondi del Piano di rilancio a partire dal 2021, la Commissione europea chiede progetti precisi. Sappiamo che l’Italia è in sistematico ritardo sull’utilizzo appropriato del 71% dei fondi strutturali e collegati previsti dal Quadro finanziario 2014-2020. Tutti parlano genericamente di responsabilità della burocrazia ma nessuno individua con precisione oltre alle responsabilità del governo centrale quelle ancora più gravi delle regioni specialmente di quelle meridionali. Da diversi decenni seguo le attività che comunica la Conferenza delle regioni e non ho mai letto che qualcuna di esse abbia presentato un vero piano di sviluppo territoriale con l’indicazione dei progetti specifici e dei programmi di formazione professionale che dovrebbero essere il nerbo strategico delle loro politiche attive del lavoro. Ritengo che il documento di parte sindacale contenga proposte e suggerimenti rilevanti in materia ma questo non mi esime dal criticare quelli italiani  per non avere modulato adeguatamente la loro struttura organizzativa di secondo livello (intermedio, regionale) per aprire vertenze a questo livello e stimolare la elaborazione dei piani regionali specialmente dopo la riforma del Titolo V  della Costituzione del 2011 e come suggerisce la Commissione europea in sede di valutazione degli utilizzi non di rado disinvolti dei fondi strutturali. Sarei lieto di essere smentito a questo riguardo.

Nel documento di domande e risposte sul piano di rilancio e resilienza dell’economia europea pubblicato il 28 maggio scorso la Commissione, dopo aver accordato all’Italia il rinvio a ottobre del Piano nazionale di riforme, prescrive a tutti i paesi membri di presentare piani (o progetti) nel 2021 e 2022 al più tardi entro il 30 aprile.  A questo riguardo c’è un grosso equivoco da chiarire sulle c.d. riforme strutturali. finora il discorso si è ridotto a riforme giuridiche per la flessibilizzazione del mercato del lavoro, per la semplificazione delle procedure amministrative, per la riduzione dei tempi lunghi della giustizia, ecc. Le prime 

hanno compresso i diritti dei lavoratori che sul terreno economico hanno subito la svalutazione interna dei salari senza alcun recupero sostanziale e duraturo della produttività del sistema economico su cui, come noto, pesa l’inefficienza dei servizi privati e pubblici. Anche le altre riforme hanno dato risultati insufficienti e perciò bisogna insistere nel portarle avanti ma esse non bastano da sole ad assicurare il rilancio e la resilienza e/o capacità del sistema economico di riparare i danni inflitti dalla Pandemia  e provvedere ai cambiamenti necessari (conversione ecologica, digitale). Infatti, se la crisi è doppia( di domanda effettiva e di offerta servono  massicci investimenti nei vari settori dell’economia reale diretti dell’operatore pubblico ai vari livelli e di sostegno ai privati ove questi siano ritenuti insufficienti. Non bastano le semplificazioni delle leggi sugli appalti e non sono solo i tempi della giustizia che ostacolano gli investimenti dall’estero nelle regioni meridionali se non si riduce il grande gap infrastrutturale, il peso delle organizzazioni criminali e la diffusa corruzione. Nè si affronta in termini approfonditi il problema di come suddividere questi compiti complessi tra governo centrale, regioni ed EELL. Ci si trastulla con i discorsi indubbiamente importanti di grandi leader europei ma inevitabilmente generici e non intrusivi negli affari interni mentre stiamo ignorando l’invito della Commissione a presentare un primo gruppo di progetti anche entro il 2020.

State bene e buona lettura.

@enzorus2020

ETUC statement on COVID-19 outbreak and recovery strategy 9 June 2020

The COVID-19 pandemic and its consequences have put the European project and democracy at risk. The lockdown and the measures adopted by European governments to face the emergency have generated terrible consequences in terms of economic recession, massive unemployment, obstacles to the freedom of movement, deterioration of working conditions and rights, increased inequality and social exclusion.

For the ETUC, the health of citizens and workers and the protection of jobs and rights have been the priority when the institutions were taking lockdown measures. At a time when these measures are relaxed in order to achieve a gradual return to economic activity, the health and safety of citizens and workers must be fully protected.

The effects of the financial crisis on healthcare systems and public services have been devastating, proving that cuts and privatisation have been the wrong recipe for the wellbeing of people and the safety of our societies. Austerity policies, the neoliberal approach to fiscal policies, competition and trade, led to a dramatic decrease in public and private investment and to many Member States not been able to provide adequate health services to the population and protection to workers in the health and care sectors.

The reaction to the outbreak in terms of Member States’ coordination and EU initiatives has come very late. The emergency measures put in place to support workers, healthcare systems and companies hit by the crisis still show serious limits: many workers and companies are not supported by such measures, which are often not adequate, while in many cases the deployed resources did not reach the ground with concrete help. This has to be fixed as soon as possible.

Additionally, some governments used the outbreak as an excuse to attack the rule of law, human, workers’ and trade union rights, particularly collective bargaining. This situation, together with the increasing economic and social emergency, is boosting people’s desperation and anger, with far-right populistic and anti-European forces exploiting the opportunity to regain political space.

Back to normal is not acceptable if this means business as usual. A sound European response is necessary to prevent and contain economic recession, unemployment and poverty and to rebuild the European project and democracy. The EU is at a crossroads: either it makes a relevant change of direction and commits to its founding principles, or it will face an unprecedent political crisis.

The ETUC has been urging the EU institutions and Member States to start immediately a clear, ambitious, and coordinated recovery strategy. We advocate for a recovery built on a more sustainable, inclusive and fair economic model and a social market economy where the environment is respected, digital innovation is put at the service of people, the European economy is protected, a massive fiscal stimulus for investment and quality job creation is triggered, a fair distribution between profits and wages is ensured, workers and social rights are protected, public services – particularly health care and education and training – are restored and reinforced, universal social protection is ensured.

The recovery plan proposed by the European Commission, which took up and broadened the proposal presented by France and Germany and includes many demands pushed forward by the ETUC, is a significant step in the right direction.

The ETUC advocates for massive financing for investment to be provided to member states, and for the money to be raised via common debt instruments guaranteed by the European Commission through the increase of EU own resources, thus avoiding creating additional unsustainable debt in EU countries.

The recovery strategy must repair the damage of the crisis and build a new economic and social model based on solidarity, economic and social convergence and cohesion, finally breaking with austerity policies. The suspension of the Stability Pact has made possible to take the necessary emergency measures, but only a radical revision of the EU economic and social governance and Semester process can ensure a fair recovery.

Investment to get out of recession must contribute to EU commitments to climate action and fight unemployment, particularly for youth, and these have to be overarching conditions for all funding. Public services, health care and education and training, social protection systems and social infrastructures must be strongly supported.

It’s important to increase the EU own resources, based on the Emissions Trading Scheme, a Carbon Border Adjustment Mechanism and taxation of operations of large companies, including a new digital tax and a tax on non-recycled plastics. Unfair tax competition has to be stopped through EU minimum corporate tax base and rate, and reinforced fight against tax havens, tax evasion, avoidance and fraud.

The ETUC expects the recovery strategy to focus on just transition at all levels, on reinforcing EU industries and economic sectors, on supporting workers affected by insolvency and restructuring process, on redesign European supply chains to make them more sustainable, on redesign our competition rules, and on making our trade policy fairer and more inclusive, in particular through binding and enforceable labour provisions in trade agreements.

The EU must not give money to businesses without exercising control on how they behave. The recovery plan funding should be conditional on providing decent jobs, paying taxes and working towards agreed climate goals through just transition. It is important that any company refusing to negotiate with the trade unions does not receive any grants, funds or other public procurement contracts.

The ETUC has always demanded that respect for the rule of law and fundamental rights is one of the conditions of funding for recovery, while stressing the need for labour, trade union and social rights, social dialogue and economic and workplace democracy, the European Pillar of Social Rights and the Agenda 2030 of the UN, to be at the basis of all funding granted.

It is also very important that the European Commission confirms all initiatives which would boost a fair and socially sustainable recovery, while increasing the profile of its neighbourhood, development and international cooperation policy, and strengthening its commitments for an European Democracy Action Plan and the relaunch of the Conference on the Future of Europe. In the current extraordinary circumstances, solidarity is needed more than ever. Without an ambitious strategy which is shared by all Member States and driven by the EU in a communitarian spirit, Europe cannot succeed.

Therefore, ETUC appeals to all governments to shoulder their responsibility, overcome their divisions and go for a swift approval and implementation of the recovery strategy, which is not enough but it’s urgently needed. European workers and citizens need help and cannot wait longer.

The ETUC, together with its member organisations, is ready to contribute to national and sectoral plans to make the recovery strategy fully operational. We call for effective social dialogue and full involvement of trade unions and social partners at the highest level with EU institutions and Member States’ governments.

The future of European democracy, economy and social cohesion is at stake. The trade union movement in Europe has always defended the strengthening of the European project by promoting a European Union that protects its citizens and working people. The European Trade Union Confederation, representing all workers across all countries, is united in calling for a fairer Europe of solidarity, rights and social and environmental justice.

Il bicchiere resta mezzo vuoto ma é diventato molto più grande.

Nel 2019 in occasione delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo siamo riusciti a contenere l’ondata populista-sovranità ma già durante la campagna elettorale non è che i partiti più europeisti avessero messo grande attenzione ai temi della riforma dei Trattati. Sta qui il problema. L’assetto istituzionale dell’Unione è incompleto, debole e caratterizzato da un enorme deficit democratico. Il Consiglio europeo composto dai Capi di Stato e di governo – soprattutto da questi ultimi – è eletto con sistemi elettorali diversi, sono espressione delle maggioranze locali, rispondono al loro elettori locali. Gli stessi componenti della Commissione sono in buona sostanza nominati dai governi del PM. È come se il governo di Roma fosse composto dai Presidenti delle regioni. La Comunità europea prima e poi l’Unione non è mai stata una Confederazione e non è una federazione vera e propria. Per la struttura sovranazionale dell’Unione si parla di governance ma – come spiega bene Gustavo Zagrebelsky – dove c’è governance non c’è democrazia vera. Concordo con lui e aggiungo che la stragrande maggioranza degli elettori non sono cittadini attivi, non hanno tempo o voglia di occuparsi di politica interna e meno ancora di quella sovranazionale. E questo è vero non solo nella ricca ed evoluta Europa ma anche in Inghilterra, negli USA, in Brasile, in Cina, in India, in Russia. In questo ultimo paese si sta introducendo una riforma costituzionale per consentirebbe a Putin di restare al potere sino al 2036 e, magari, a vita come Xi in Cina.

In Italia e nel mondo c’è una forte ansia di delega lasciando ai delegati stessi il compito di scriversi i termini del rapporto agente-principale. Non sorprende che la democrazia arretri dappertutto. Non sorprende che 2/3 dei paesi membri della Nazioni Unite siano governati da dittature più o meno soft, più o meno crudeli. L’obiettivo fondamentale di questi dittatori è quello di non essere disturbati a casa loro con buona pace dei diritti fondamentali dei loro concittadini. Questa spiega come negli ultimi decenni pochi siano stati gli interventi diretti dei caschi blu a parte quei pochi dedicati a mantenere la pace dopo sanguinose guerre civili.

In Europa negli ultimi dieci anni si sono fatte riforme che hanno incrementato il ruolo decisionale del governo a scapito dell’iniziative legislative dei Parlamenti. I Trattati di Lisbona riflettono questa tendenza. La Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa ma sotto la tutela del Consiglio europeo. Il PE non ha autonomo potere di imporre tasse ed imposte o autorizzare l’emissione di debito pubblico. Ha solo potere condiviso. Come ho scritto in altri post, dopo la presentazione del piano di rilancio da parte della Presidente della Commissione UVDL, si è aperto il dibattito in aula. Sono stati concessi due minuti ai capigruppo e un solo minuto ai singoli parlamentari. Hanno potuto dire si o no con brevi pistolotti. Spero che nelle Commissioni ci sia un dibattito più attento che entri nel merito e nei dettagli dei problemi. Sappiamo che il diavolo si nasconde nei dettagli. Sappiamo che non basta concordare o dissentire sugli obiettivi generali. Di norma, si dissente e ci si divide sugli strumenti, sulle risorse stanziate, sulle modalità e i tempi di attuazione degli obiettivi.

Dopo l’introduzione dell’Unione economica e monetaria – costruzione notoriamente incompleta. si sono susseguiti due eventi molto importanti: l’allargamento ad Est e la crisi del 2009-12. Molti hanno criticato la scelta attuata dal Presidente Prodi sostenendo che bisognava fare prima l’approfondimento istituzionale. A mio parere, avremmo dovuto fare le due cose insieme e, in qualche modo, così è stato fatto se pensiamo alla istituzione della Convenzione che ha definito il Trattato costituzionale poi bocciata dai referendum francese e olandese e al ripiegamento sui Trattati di Lisbona. Per brevità, salto alla crisi finanziaria ed economica del 2009-12 (doppia recessione) con disastrose conseguenze per alcuni paesi periferici. Oggi è chiaro che i paesi egemoni hanno preso atto di quegli errori ed hanno cambiato passo muovendosi nella direzione giusta almeno in termini di misure volte a rafforzare le strutture sanitarie, gli ammortizzatori sociale, l’aiuto alle imprese in difficoltà, ecc. Ma non c’è una vera strategia per contrastare la recessione che rischia di trasformarsi in una Grande depressione. Manca a Bruxelles e manca a Roma.

Nei giorni scorsi la Banca d’Italia ha pubblicato le sue previsioni di crescita per l’Italia si rischia un calo del PIL del 13% previsione pessimistica massima per le economie dei PM. A Bruxelles mancano piani precisi per la conversione ecologica e la digitalizzazione dell’economia o sono redatti in termini di obiettivi generali che i PM devono attuare; manca un piano europeo per le infrastrutture materiali ed immateriali. Più vagamente si parla di prestiti collegati a riforme strutturali.   La solita solfa. In un documento pubblicato dalla Commissione il 28 maggio u.s. (vedi indirizzo sotto) leggo che le riforme strutturali 2020 riguardano le imposte ambientali e la valutazione del loro impatto. In realtà in attuazione delle Direttiva comunitaria n. 2019/904/904UE del 5-06-2019 l’Italia ha introdotto la plastica tax nella legge di bilancio 2020 ma in seguito alle proteste dei produttori ha previsto la sua entrata in vigore a partire dal 1° luglio p.v. Vedremo presto se l’impegno sarà mantenuto. 

Accanto al DEF sino al 2010 il governo doveva presentare il Piano nazionale delle riforme PNR. Ai sensi della legge 7-04-2011 e con l’introduzione del Semestre europeo di coordinamento delle politiche economiche il PNR è stato integrato nel DEF come parte terza. Inutilmente ho cercato nel DEF 2020 il PNR. Da fonti di stampa ho appreso che il Governo lo presenterà in ritardo insieme alla legge di stabilità 2021. Nel DEF ho trovato solo la seguente frase: “Il contrasto all’evasione fiscale e le imposte ambientali, unitamente ad una riforma della tassazione che ne migliori l’equità e ad una revisione organica della spesa pubblica, dovranno pertanto essere i pilastri della strategia di miglioramento dei saldi di bilancio e di riduzione del rapporto debito/PIL nel prossimo decennio”. In teoria una simile strategia andrebbe bene per tempi normali e per una economia in crescita normale anche se ritengo che precedenti governi hanno sempre fallito sui due obiettivi più importanti: la lotta all’evasione e la revisione organica della spesa pubblica. In ogni caso – lo ripeto – suddette misure non sono sufficienti per fare uscire l’economia italiana dalla stagnazione secolare e dalla recessione che rischia di aggravarsi vieppiù.   Per citare un articolo di Gianfranco Pasquino sul Sole 24 Ore del 16 maggio 2004 : “il bicchiere resta mezzo vuoto ma è diventato molto più grande”. Allora l’illustre politologo si riferiva al testo del Trattato costituzionale uscito dalla Convenzione. Sappiamo che la situazione è stata recuperata in gran parte con i Trattati di Lisbona. Oggi sul terreno economico abbiamo il tentativo di portare il QFP attorno al 2% annuo ma è un obiettivo ancora minimale se si pensa che negli Stati federali il bilancio impegna il 20-25% del PIL. Sul terreno istituzionale c’è la proposta della Conferenza sul futuro dell’Europa che rischia di tradursi in una immane perdita di tempo perché è già in ritardo sulla partenza, avrà due anni di tempo per redigere un rapporto che dovrà essere esaminata dal Consiglio europeo quando la presente legislatura sarà vicina alla sua naturale conclusione. Ma sia chiaro, tutto questo non è colpa e responsabilità dell’Europa ma dei suoi singoli paesi membri e dei loro specifici governanti.

@enzorus2020

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Il Piano di rilancio UE della Commissione

Sentito due volte il discorso della Presidente della Commissione europea (CE) al Parlamento europeo in diretta il 27-05-2020 e subito dopo registrato ho trovato tante belle parole anche commoventi e due cifre importanti 500 miliardi di trasferimenti a fondo perduto e 250 di prestiti. Concordo con quanti valutano il “piano” una svolta storica – in realtà fatta dalla Merkel nel discorso al Parlamento tedesco la mattina dello stesso giorno in cui nel pomeriggio si doveva tener il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo in seguito anche all’accordo raggiunto con il Presidente Macron.  Il discorso della UVDL è stato una succinta presentazione di un piano che ancora non c’è per due probabili motivi: 1) perché ancora non c’è accordo con i governi dei Paesi membri (PM); è nota l’opposizione dei 4 paesi nordici c.d. frugali (Austria, Olanda, Danimarca e Svezia), alias, egoisti che non vogliono trasferimenti a fondo perduto; 2) perché il piano Le è stato commissionato dal Consiglio europeo e probabilmente per motivi vari UVDL vuole o deve presentare la prima bozza a quella che da alcuni osservatori viene definita la Cupola delle istituzioni europee. A fronte dei rischi crescenti di disgregazione, la Merkel ha passato il Rubicone e, come avevo previsto e sostenuto, la Germania paese leader dell’Europa integrata non poteva e non doveva rinunciare al suo ruolo storico in Europa.

A scanso di equivoci anche io ritengo che si tratta di una scolta storica ma nel suo discorso al PE UVDL non ha dato alcun dettaglio tecnico del piano che ha approntato per il Consiglio europeo a partire su come si realizzerà l’aggancio al QFP ancora non approvato, allo strumento esistente o da creare che emetterà gli eurobond; alle condizionalità collegate sia ai trasferimenti a fondo perduto che ai prestiti; ai tempi di questi ultimi; alla leva che potrà essere realizzata per finanziare gli ambiziosi obiettivi che l’UE in quanto tale intende perseguire: Green New Deal, digitalizzazione dell’economia, lotta alle diseguaglianze, convergenza tra le regioni periferiche e quelle centrali, ecc..

Non ultimo se è vera l’ipotesi che i dettagli tecnici del piano saranno svelati al momento della presentazione del piano al Consiglio europeo, io starei attento a parlare di piano o risultato acquisito dopo la presentazione dello stesso al PE. Come in casi precedenti potrebbe verificarsi un compromesso al ribasso verosimilmente riguardante il fondo dei trasferimenti a fondo perduto che potrebbe essere dimezzato. Al riguardo va tenuta presente una recente dichiarazione della Cancelliera Merkel secondo cui la trattativa con alcuni PM sarà lunga e difficile. E qui rileva la questione dei tempi. Quali che siano le dimensioni dei fondi, l’UE deve procurarsi fondi e metterli a disposizione in tempi brevi. Aspettare la Primavera prossima sarebbe esiziale perché intervenire in ritardo aggreverebbe e prolungherebbe la crisi non solo economica ma anche sociale.

Alcune forze politiche e tra di essi anche il Movimento federalista europeo punta ancora su quello che potrebbe proporre la Conferenza per il futuro dell’Europa dopo che è stata respinta la proposta di Macron di una nuova Convenzione per aprire il cantiere della riforma dei Trattati. Vale la pena ricordare che sull’argomento esiste il Libro bianco sul futuro dell’Europa preparato dalla Commissione Juncker nel 2017 in occasione del 60° anniversario dei Trattati di Roma. È vero che nei mesi scorsi è intervenuta la crisi Covid-19 che ha sconvolto ogni scenario sanitario ed economico precedente ma i problemi istituzionali europei  sono sempre gli stessi ed abbastanza approfonditi. La Commissione nel 2017 ha disegnato 5 scenari: 1) avanti così (business as usual); 2) solo il mercato unico; 3) chi vuole di più fa di più;  4) fare meno in modo più efficiente; 5) fare molto di più insieme. Per un federalista lo scenario ottimo (first best) sarebbe il 5° ma sappiamo che esso non è condiviso all’unanimità. È d’uopo ripiegare sul terzo scenario (second best) “chi vuole di più fa di più” e nei tempi più stretti possibili. La geometria variabile è consentita dai Trattati e la impone la situazione drammatica e auspicabilmente non tagica della recessione mondiale. Abbiamo già circa 40 milioni di disoccupati negli USA e forse altrettanti nella UE dove per via dei forti ammortizzatori sociali i tempi saranno più lunghi.

Il 29 u.s. in TV hanno citato una intervista a Daniel Cohn Bendit il quale ha proposto di “accomodare fuori” i 4 Paesi nordici che non vogliono aumentare i trasferimenti a fondo perduto. Personalmente non arrivo a tanto, credo che detti PM non vogliano uscire dall’Unione come ha fatto il Regno Unito ma non si può consentire loro o al Gruppo di Visegrad di bloccare o ritardare il processo decisionale e di maggiore integrazione dell’UE. Bisogna sospendere la regola dell’unanimità e/o utilizzare le c.d. passerelle (art. 48 par. 7 del TUE) che consentono le più appropriate maggioranze qualificate. Anche questo è un modo per superare il grave deficit democratico che caratterizza l’attuale funzionamento dell’UE.

Il problema tecnico di politica economica e finanziaria è quello di coordinamento di appropriate politiche fiscali con la politica monetaria espansiva che sta conducendo tempestivamente la BCE. Ma sappiamo che da sola la politica monetaria non basta. Il pacchetto di proposte che la Commissione sta mettendo a punto se adeguatamente finanziato potrebbe consentire il coordinamento che è mancato nella crisi del 2009 e che ha prodotto la seconda recessione europea del 2012. Il lungo dibattito economico che si è svolto in quest’ultimo decennio ha ben chiarito gli errori commessi a livello UE e dei PM.  Le misure proposte vanno nella direzione giusta. Si tratta di passare dalle parole ai fatti nella massima urgenza.

https://www.project-syndicate.org/commentary/france-germany-covid19-recovery-fund-eu-by-lucrezia-reichlin-2020-05

https://formiche.net/2020/05/ue-crisi-antonio-parenti-commission-italia/

sulle passerelle vedi Astrid, Le nuove istituzioni europee. Commento al Trattato di Lisbona, a cura di Franco Bassanini e Giulia Tiberi, nuova edizione riveduta e aggiornata, il mulino, 2010; in particolare il cap. 13° di Luigi Carbone, Luigi Cozzolino, Luigi Gianniti e Cesare Pinelli; pp.266 e segg.

Appunti per un dibattito più serio sul MES

Il MES (meccanismo per la stabilità dell’Eurozona, alias, fondo salva Stati) nasce nel 2010 come evoluzione della EFSF (strumento per la stabilità finanziaria europea) per offrire assistenza finanziaria sulla base di un emendamento all’art. 136 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Questo dice che i Paesi membri PM dell’Eurozona “possono attivare il meccanismo se indispensabile per la salvaguardia della stabilità dell’eurozona nel suo insieme e che la necessaria assistenza finanziaria richiesta sarà assoggettata a precisa condizionalità”.

Chiariamo subito che la missione fondamentale del MES è garantire la stabilità finanziaria dell’area euro nel suo insieme e che stabilizzazione finanziaria non significa quella del ciclo economico che resta compito delle politiche economiche dei Paesi Membri (PM). La dotazione iniziale di risorse da prestare ai PM che lo richiedano fu fissata in 500 miliardi ed è stata incrementata successivamente.

L’art. 12 prevede le condizionalità che il MES può collegare alle due principali linee di credito attivabili su richiesta di un PM in difficoltà: a)  le PCCL (Precautionary Conditioned Credit Line), che comportano una condizionalità attenuata; e linee di credito rafforzate, ECCL (Enhanced Conditions Credit Line), dove la condizionalità è relativamente maggiore ma sempre concordata nel Memorandum d’intesa.

L’art. 13 prevede i termini della condizionalità che sono concordati all’interno di un Memorandum di intesa tra il paese richiedente assistenza e il MES anche attraverso le c.d. Clausole di azione collettiva a suo tempo fissate dall’Eurogruppo il 28-11-2010. La procedura di richiesta di assistenza da parte degli PM scatta dopo che si sia accertata l’esistenza di un rischio per la stabilità dell’area euro o di uno o più PM. È prevista anche la possibilità di partecipazione del Fondo monetario internazionale FMI in ragione della sua storica esperienza in materia.

L’art. 14 prevede la precautionary financial assistance, ossia, l’assistenza finanziaria precauzionale tesa a prevenire le crisi che, se non affrontate tempestivamente, di norma, portano alla perdita dell’accesso ai mercati finanziari come è successo alla Grecia. Il programma di assistenza preventiva viene elaborato dal Consiglio e dal Direttore del MES sulla base di un Report preparato dalla Commissione europea. Dopo un primo utilizzo delle risorse (prestito oppure il ricavo di un acquisto di titoli del DP (debito pubblico) emessi dal PM richiedente nel mercato primario) il MES d’intesa con la Commissione europea e con la BCE decidono se la linea di credito aperta è sufficiente per continuare oppure se occorre attivare altri strumenti di assistenza finanziaria. Credo che anche da questa sintesi dell’art 14 emerge chiaramente come l’alternativa proposta da alcuni critici del MES (BCE si MES no) è mal posta e infondata. La BCE è comunque coinvolta. Il MES interviene con operazioni analoghe che fa la BCE. Ma c’è di più, senza un intervento preliminare del MES, la BCE non potrebbe attivare le Outright Monetary Transactions OMT che prevedono acquisti illimitati di titoli del debito pubblico di PM in difficoltà nonostante i primi interventi del MES.   È coinvolta soprattutto la Commissione che è organo di governo che deve prevenire i rischi di crisi sistemiche della stabilità dell’Eurozona innescati da uno o più PM per motivi diversi, cause simmetriche e asimmetriche.  Rebus sic stantibus, il rifiuto di avvalersi degli strumenti di assistenza del MES sarebbe un suicidio.

L’Art. 15 prevede l’utilizzo di linee di credito attivabili dal MES per la ricapitalizzazione di istituzioni finanziarie dei PM. Questi prestiti vengono concessi seguendo la stessa procedura riassunta nell’art. 14: Memorandum d’intesa tra MES e PM richiedenti a seguito di un Report della Commissione europea.

L’art. 16 è rubricato come prestiti (diretti) del MES ed è probabilmente l’articolo che i suoi contestatori hanno in mente quando attaccano questa istituzione. Non lo dicono perché molti di loro non hanno letto il Trattato e parlano per sentito dire. Ai sensi dell’art. 16 il MES offre i suoi prestiti in cambio di programmi di aggiustamenti macro-economici concordati nel Memorandum d’intesa definito anche questo sulla base di un Report della Commissione europea che, di noma, propone le famigerate riforme strutturali. È questa la odiata condizionalità che esponenti dell’opposizione non vogliono trascurando che squilibri macroeconomici nei conti pubblici, nella bilancia dei pagamenti, prima o poi, creano rischi di instabilità non solo per il paese che li ha causati o subiti ma anche per l’area euro nel suo insieme. Trascurando che nella Commissione e nello stesso Board del MES e della BCE ogni PM ha i suoi rappresentanti e che nel MES l’Italia, come la Francia e la Germania, ha potere di veto in ragione dell’entità della sua quota di partecipazione e del suo voto per i casi di particolare urgenza. Trascurando che in una istituzione sovranazionale e anche in uno Stato federale vero e proprio uno Stato federato non ottiene aiuti ad libitum senza alcuna condizionalità. Non pochi Italiani credono nelle favole e nella Fata Misericordiosa che li deve assistere comunque a prescindere da ogni valutazione di merito di credito. E’ noto che non pochi italiani sono creduloni e, per questo motivo, politici disinvolti dell’opposizione e anche del M5S hanno gioco facile a continuare ad ingannare i loro stessi elettori.  Chiusa la parentesi, ribadisco che questa appena descritta è la missione fondamentale del MES: assistenza finanziaria ai PM dell’Eurozona aprendo linee di   credito, acquistando titoli del debito pubblico emessi dai PM in difficoltà che ne fanno richiesta, offrendo direttamente prestiti ai sensi dell’art. 16 citato. Da ultimo il MES è stato autorizzato ad aprire una linea di credito per le spese sanitarie dirette ed indirette provocate dal Covid-19 ma per carità non solo l’opposizione ma neanche il governo vuole avvalersi di essa. 

Come previsto dall’art. 21 del Trattato, il MES si procura la liquidità per svolgere la sua missione emettendo titoli da piazzare nei mercati finanziari, indebitandosi con banche, con istituzioni finanziarie o “con altre persone o istituzioni” – sì proprio così. Detto in altre parole, a ben riflettere il ruolo del MES è quello di un Ufficio del Tesoro e/o del debito pubblico che fa quello che attualmente non possono fare la Commissione europea e la BCE. Se questo è vero, è del tutto infondata la demonizzazione che del MES si è fatta in Italia. Di certo, porta lo stigma del caso Grecia ma pochi sanno o ricordano che a prescrivere quelle operazioni non era il solo MES. Dietro e sopra di esso c’era la Troika formata da delegati della BCE, FMI e CE. E sappiamo ancora chi c’era dietro e sopra la stessa Troika: il Consiglio europeo e l’Eurogruppo.  E se l’Italia non avesse voluto il massacro della Grecia avrebbe potuto porre il veto. Ma non l’ha fatto.

Venendo brevemente alle questioni urgenti sul tavolo: come trovare le ingenti risorse per finanziare il rilancio della crescita che, in questa fase, si collega alla riconversione ecologica e alla digitalizzazione dell’economia, ai fabbisogni straordinari di finanziamento degli ammortizzatori sociali, allo sviluppo sostenibile, in sintesi, ai cosiddetti Recovery Bond ed ora anche ad un aggiuntivo e/o collaterale strumento di trasferimenti a fondo perduto, collegati al  QFP (Quadro finanziario poliennale)  non ancora approvato è stato posto e sollevato anche dalla Presidente della CE Ursula Von Der Leyen la questione di soluzioni ponte nel suo recente discorso davanti al PE. Se si dovesse prendere sul serio la proposta di una soluzione ponte non vedo altra soluzione “tempestiva” che l’utilizzo del MES che, nel giro di qualche mese, potrebbe essere autorizzato ad aprire nuove linee di credito previa emissione dei famigerati eurobond. Ogni altra soluzione rischia di slittare alla Primavera 2021 se non oltre.    

Ancora non sappiamo cosa significhi esattamente l’aggancio del Recovery Fund al QFP (non un vero bilancio come a disposizione di ogni governo di un paese centralizzato o decentralizzato). Secondo me, non significa granché o meglio può significare che il servizio del debito pubblico emesso dal Fondo sarà finanziato con i contributi dei PM al QFP – ancora non approvato. La cosa non cambia radicalmente rispetto al modo in cui viene finanziato il MES. Agganciare l’emissione di eurobond alla contestuale costituzione di una capacità fiscale all’interno del bilancio come alcuni propongono è proposta  fumosa per due motivi principali: 1) richiede tempi lunghi per raggiungere un accordo tra i PM pur in presenza di elaborate proposte di diversa consistenza e provenienza; 2) perché data l’entità delle risorse necessarie per la grande trasformazione e per uscire dalla recessione servono alcune migliaia di miliardi di euro e non vedo tributi propri che possano finanziare un tale livello di spesa pubblica. Ragionevolmente possono finanziare il servizio del nuovo debito pubblico da emettere. Ma data la natura delle spese da fare (a media e lunga produttività) è scelta obbligata ed equa ricorrere alla emissione di debito pubblico. 

Ho spiegato in miei interventi precedenti   che per come è finanziato il QFP non c’è solidarietà se non in termini minimi in relazioni ai fondi strutturali, regionali e in generale di coesione. Infatti, il QFP è costruito con il metodo dei saldi netti: ognuno contribuisce in base al PIL; poi cerca di riprendersi il massimo possibile riducendo la contribuzione netta. anche questa è concorrenza fiscale al ribasso.

L’altro modello, in una necessitata fase transitoria, è e resta quello del MES questo costruito sulla base del modello BCE; qual è allora la differenza? Agganciando il Recovery Fund al QFP avremmo un modello generale analogo a quello della BCE per interventi su shock simmetrici e asimmetrici; il MES resterebbe uno strumento speciale complementare e integrativo per correggere o combattere shock asimmetrici riguardanti uno o più PM con squilibri particolari sui conti pubblici, sul debito, nella sanità pubblica, ecc.

In Italia il MES è stato demonizzato dallo stesso governo Conte per via del dissenso interno alla stessa maggioranza di governo che ripetutamente ha dichiarato che non si avvarrà dei finanziamenti che potrebbe ricevere per le spese sanitarie dirette e indirette che ha dovuto effettuare a causa del Covid-19. Raffinati giuristi mettono in evidenza che la Commissione e la BCE sono istituzioni europee previste dai Trattati e quindi di diritto comunitario mentre il MES è una istituzione creata con un Trattato intergovernativo e quindi di diritto internazionale. Come economista osservo che gli obiettivi di politica economica perseguiti sono gli stessi anche il MES è istituzione europea in ragione della missione che gli è stata affidata.  E questa può riassumersi nel coordinamento delle politiche economiche e finanziarie che la Commissione non riesce a conseguire nonostante le norme del Patto di stabilità e crescita, del semestre europeo, del MES e quelle del Fiscal Compact di cui, a suo tempo, si è detto e scritto di peggio rispetto al MES.

Nella teoria della politica economica si sono sempre contrapposte due visioni di condotta pratica della stessa: regole o discrezionalità. I paesi egemoni dell’UE che non si fidano degli altri né di loro stessi hanno scelto di sviluppare le regolamentazioni più particolareggiate ma si scontrano con quelli che prendono sottogamba dette regole. Secondo studi e ricerche del FMI le regole elaborate direttamente nei Trattati e negli annessi regolamenti, direttive e raccomandazioni sono state sempre ampiamente violate e/o ignorate. Nel frattempo per via della globalizzazione e della piena libertà dei movimenti di capitale si sono sviluppate le società di rating che guidano gli investitori internazionali e valutano le prospettive di crescita dei vari paesi del mondo. In altre parole, si è sviluppata una certa funzione di monitoraggio (secondo alcuni di disciplina) dei mercati che, in qualche caso, essa è stata utilizzata a fini di lucro. Nella UE, alcuni governi egemoni hanno ammonito i PM poco propensi al rispetto delle regole concordate minacciando di lasciarli in preda a detta “disciplina dei mercati” ma neanche questa ha funzionato secondo le aspettative. La mia valutazione è che non è possibile elaborare regole scritte casistiche che prevedano tutti gli eventi futuri. Pochi avevano previsto l’arrivo della crisi dei mutui subprime e il suo diffondersi a livello mondiale nel 2008. Nessuno ha previsto l’arrivo del Covid-19.  Il senno di poi ci conferma che l’UE ha affrontato male e tardi la prima crisi. Adesso sta rispondendo meglio e più rapidamente alla Pandemia e alla recessione ma resta il fatto che l’assetto istituzionale e gli strumenti a disposizione sono inadeguati. Non abbiamo l’Unione bancaria, meno che mai un mercato unico dei capitali, non abbiamo un vero e proprio governo al centro in grado di svolgere una politica economica ad un tempo unitaria e debitamente articolata a livello continentale. Abbiamo un Parlamento europeo senza il potere sovrano di istituire tributi propri. Abbiamo al vertice un Consiglio europeo giano bifronte più attento agli interessi nazionali che a quelli europei. Va sostituito con un Senato federale eletto direttamente dai cittadini europei.  Anche i nuovi strumenti che sono stati proposti recentemente che segnano una significativa svolta nella direzione giusta restano insufficienti rispetto alla dimensione e complessità dei problemi da affrontare. PQM è urgente abbandonare la prevista Conferenza e riaprire il cantiere delle riforme istituzionali per passare ad un assetto di stampo più genuinamente federale. L’unica istituzione che può aprire una tale fase costituente è il Parlamento europeo. Ma sarà in grado di farlo?         

Proposte USA e UE per affrontare la crisi. Carlo Giannone

Il dibattito sulle conseguenze del Covid-19 è ampio e oggetto precipuo delle argomentazioni degli studiosi di svariate discipline, molteplici essendo infatti i prevedibili effetti sull’intero pianeta. Per cercare di riassumere, limitatamente a quelli economico e sociali, le posizioni in campo, è utile un sommario confronto tra le principali posizioni espresse nei più recenti commenti sull’argomento su entrambe le sponde dell’Atlantico, ossia restringendo l’obiettivo al mondo occidentale. Negli USA, si può accennare – fermi restando i ruoli decisionali delle autorità monetarie, e soprattutto quello del Presidente – a quanto espresso in sintesi da alcuni dei più autorevoli economisti.

Per Dani Rodrik: il mutamento l’innovazione tecnologica non segue un’unica direzione ma può essere indirizzata a beneficio della società. La risposta convenzionale consiste in più e migliore qualità dell’istruzione e della ricerca scientifica. Molto dipende dagli incentivi. In realtà, nuove tecnologie, inclusa quelle nella sanità, attraverso un nuovo e intrusivo modello di globalizzazione concentrato sulle aree di forte cooperazione, e si rivela tuttavia spesso non sostenibile. Occorrono, dunque, diversi modelli di sviluppo.

Nel giudizio di Barry Eichengreen, la crisi è stata trattata come temporanea, con una moratoria sul pagamento degli interessi e promesse di crediti commerciali di breve durata, sovente inadeguata alle situazioni di singoli paesi. Egli cita il precedente del 1982 e del c.d. Baker plan, che non funzionò. Stavolta i governi del G20 hanno risposto in fretta, prevedendo una moratoria dei pagamenti per i paesi a basso reddito, il triplo di quanto avvenne nei primi mesi del 2008. La realtà di oggi andrebbe gestita dal FMI, quale istituzione dell’ONU nel richiedere l’utilizzo del Capitolo VII della Carta per evitare l’azione di investitori opportunisti (speculatori).

Secondo Ken Rogoff, lo shock globale è più rapido e severo di quello del 2008 e forse della stessa ‘Grande Depressione’, poiché in pratica ogni componente della domanda aggregata, consumi, spesa in c/capitale per investimenti, ed esportazioni, appare in caduta libera. Anche immaginando che le banche centrali taglino i tassi d’interesse fino a raggiungere un valore di -3%, o meno, numerosi paese necessiterebbero di moratorie: un dollaro debole, unitamente a una più forte crescita globale aiuterebbe, specialmente nei grandi mercati emergenti e, sebbene non risolutivo, potrebbe consentire una ripartenza. Ad oggi, oltre 90 paesi hanno fatto richiesta al FMI e alla Banca Mondiale e il WTO prevede un declino nel 2020 nel commercio mondiale dell’ordine del 13-32%. Le più recenti evidenze empiriche confortano questa tesi, in quanto i tassi negativi opererebbero in modo simile all’ordinaria politica monetaria, favorendo l’aumento della domanda aggregata e dell’occupazione, pur richiedendo la moratoria del debito per le aree in ritardo di sviluppo, e in generale tutti gli altri , ad esclusione dei “paesi contraddistinti dalla tripla AAA”.

Inoltre, lo stesso Rogoff e Carmen Reinhart affermano che consentire il prolungarsi della depressione sia molto rischioso, ricordando che il punto più basso nella crisi di metà anni ’80 ammontava, i sviluppo, in generale tutti, ad esclusione dei “paesi contraddistinti dalla tripla AAA”  a circa il 18% del PIL mondiale per i paesi in ritardo, misurato in dollari; nel 2020, tocca il 41% (del 60% in PPP). Il parere di Nouriel Roubini, attento conoscitore della materia e delle vicende europee, oltre che noto per aver anticipato la precedente crisi economico finanziaria con riferimento polemico all’assenza di un supposto ‘cigno nero’, è che i mercati sono ribassati del 35% e persino le società finanziarie mainstream (Goldman Sachs, JP Morgan and Morgan Stanley) prevedono una caduta del PIL USA  di un valore del 6% nel I , e del  24%-30% nel II trimestre dell’anno e disoccupazione eccedente il 20 %, come mai in passato. Quantunque la maggioranza dei commentatori anticipi una crisi a V,  la COVID-19 è assai differente, in quanto la contrazione non rassomiglia né alla V e nemmeno ad una U o alla  L (crisi, seguita da stagnazione). Essa è piuttosto simile ad una I,  una linea verticale, in entrambi i mercati finanziari e l’economia reale; solo i governi centrali (federali) hanno dotazioni sufficienti ad impedire il collasso. I disavanzi vanno monetizzati (Quantitative Easing) in toto, non con debiti governativi standard, i cui saggi   d’interesse monterebbero bruscamente in maniera considerevole.  I sostenitori delle azioni da tempo avanzate dagli economisti di sinistra della ‘Modern Monetary Theory School’, comprendenti anche helicopter drops, sono divenuti in gran parte accettabili, ma condizionate a tre fattori di rischio: incontenibili pandemie, politiche economiche con strumenti  insufficienti , e  cigni (bianchi) geopolitici, cui si può aggiungere l’offerta di petrolio, che possono avere la meglio. La forse insanabile rivalità USA- Cina presenta tutte le caratteristiche di una ” Trappola di Tucidide”, bene esemplificata nella disputa nel primato tecnologico delle telecomunicazioni (TLC). Per concludere questa breve e certo non esaustiva serie di argomenti elaborati da autorevoli studiosi e, in tutta evidenza, ampiamente legati a immaginare gli interventi necessari nel medio lungo periodo per l’intera economia mondiale, J. Stiglitz sostiene come, nei sistemi economici più avanzati (‘democratici’) la compassione potrebbe di per sé motivare un forte sostegno a un ritorno a una risposta  multilaterale alla crisi in atto. Tuttavia, l’azione a livello globale è altresì una questione di interesse egoistico, laddove la pandemia resta una minaccia dovunque.

Sull’altro versante, quello europeo, il dibattito è non sorprendentemente circoscritto nei confini geografici e istituzionali rispetto a quanto riportato nel più grande e potente paese federale, il cui orizzonte appare solitamente universale (in misura magari ridotta rispetto al passato) concerne in sostanza gli strumenti messi a disposizione, dal MES temporaneamente sospeso, che riguarda i paesi molto indebitati come il nostro e certo memori della vicenda greca, a quelli nuovi ancora ‘in fieri’ e da scoprire, come il Recovery fund,  State supported short time work,  meglio noto come SURE (alla lettera, sicuro), ad altri in cantiere e/o da definire in maggior dettaglio. La Commissione ha appena presentato una proposta, che sarà oggetto di discussione, circa un Recovery Plan  e un riferimento al bilancio dell’ormai imminente settennio. Si possono avanzare alcune riserve rispetto alla eccessiva durata della road map e soprattutto sui margini ridotti per predisporre un documento importante, ancora da definire.  E’ nota soltanto, infatti, la volontà di farvi rientrare numerose  forme di facilitazioni  (note con acronimi, qui trascurati: SGP/SA, PPEF, CRII)  per adesso elencate senza specificazioni sul piano distributivo, per un totale complessivo di 500 miliardi di euro. Si tratta di una leva di una certa consistenza, ma di cui occorre stimare l’impatto. Nel prossimo Quadro Finanziario Pluriennale (QFP)  restano da quantificare molti punti essenziali, anche se l’indicazione di passaggi intermedi implica qualche elemento di fiducia nel metodo stabilito per un cauto avvio, pur nell’urgenza dei tempi. In particolare, sembra di interesse la scelta di finanziamento mediante l’uso di strumenti temporanei sulla scorta dell’art. 122.1 e ritenuti in grado di ottenere dai mercati  fino a più di 300 md. di euro. Il che dovrebbe avvenire, negli scarsi sei mesi e mezzo da oggi all’inizio del 2021, in pratica congiuntamente al QFP, denominato anche “prospettive finanziarie” che serve a regolare i futuri bilanci annuali rivolti a sostenere programmi dell’Unione. Non va trascurato  di notare, poi, che quest’ultimo è stabilito in un regolamento del Consiglio adottato all’unanimità, con il consenso del Parlamento. Intanto, sarà forse opportuno provvedere ad esaminare in maggior dettaglio le opportunità, tuttora non indagate a sufficienza, offerte dal MES. Esistono infine, nel sottofondo, numerosi altri spinosi temi tra cui primeggiano quelli istituzionali, quali il deficit democratico e il ruolo ora subalterno del Parlamento europeo, l’eccesso di decisioni alla unanimità, sino alla riforma dei Trattati. Inoltre, e non certo inferiori nella valenza, vanno considerate tanto l’assenza sempre osteggiata di trasferimenti perequativi tra i membri quanto l’ostinazione sulle regole che fanno da ostacolo insormontabile alla considerazione della stabilità non in mero senso finanziario, piuttosto che incidere nell’economia reale. Nella quasi totalità della stampa europea, non solo italiana, la tragedia della pandemia è sovente vissuta come di natura temporanea, vale a dire con grave sottovalutazione, discutendo di strumenti atti a superarla. In Francia e in una Inghilterra (autoesclusasi dall’Unione) la situazione varia tra la richiesta di monetizzare la crisi e l’Analisi Costi-Benefici (ABC) di un’integrazione non piena ed ancora lontana. È notizia di ieri, infine, la proposta franco tedesca di trasferimenti straordinari a fondo perduto per 500 md. ai paesi membri: un ulteriore significativo passo verso più solidarietà. 

L’odore eversivo della decisione dei Giudici di Karlsruhe.

Oggetto del ricorso davanti alla Corte di Karlsruhe è il PSPP (public sector purchase program) della BCE che, a giudizio dei ricorrenti, – per lo più economisti e cittadini di destra facenti capo alla AFD di cui il prof. di economia Bernd Lucke è stato fondatore e che poi si è ritirato non condividendo il crescente estremismo della sua creatura – violerebbe in diversi aspetti la Costituzione tedesca. Il PSPP è parte di un più ampio programma EAPP (expanded asset prurchase program) mirato a tenere il tasso di inflazione al di sotto ma vicino al 2%. Sulla base di detto programma sono stati effettuati acquisti di titoli del debito per 2.557,800 miliardi di euro. I ricorrenti sostengono che con tale misura è stato violato anche l’art. 123 del TFUE che vieta il finanziamento monetario dei bilanci pubblici dei paesi membri.

Già in premessa i giudici di Karlsruhe si mettono chiaramente in contrasto con la decisione della Corte di giustizia europea del 2018 che ha avallato la legittimità del Quantitative Easing a suo tempo attuato da Mario Draghi a partire dal gennaio 2015 sulla base dell’art. 5 del TUE (Trattato sull’Unione europea). Sostengono che la BCE è andata ultra vires nella misura e nella durata dell’operazione per cui se loro accettassero di non fare alcun serio scrutinio (review) dell’operazione, essi accetterebbero una modifica dei Trattati ed un allargamento illegittimo delle competenze dell’Unione. I giudici di Karlsruhe criticano esplicitamente quelli della Corte di giustizia europea perché si sono autoimposti un self restraint nel non valutare attentamente quello che ha fatto la BCE non per avere intrapreso un’operazione assolutamente vietata ma perché è andata oltre quello che era necessario per raggiungere l’obiettivo: la stabilità dei prezzi e quindi dell’euro.

Dico subito che a me sembra un’affermazione apodittica perché non c’è e non può esserci alcun controfattuale e perché erroneamente pensano che la politica monetaria possa essere dosata in quantità strettamente necessarie. In altri termini, non hanno idea dei leads and lags delle politiche monetarie e che l’efficacia di certe misure può essere verificata ex post perché intervengono fattori imprevisti ed imprevedibili.  

Assurdo, second me, che una Corte Costituzionale di un PM possa emettere una tale sentenza e, ancor peggio, che possa dare ordini a una istituzione sovranazionale come sostengono alcuni osservatori incompetenti. Anche i giudici di Karlsruhe hanno una visione non appropriata di come si può gestire la politica monetaria dell’Unione. Non si può prevedere tutto nello Statuto della BCE e meno che mai nei Trattati internazionali. Hanno la visione casistica del tutto previsto dalla legge. Non gli passa minimamente per la testa di cercare un precedente anche nella storia di altre Banche centrali.

I giudici di Karlsruhe criticano quelli europei del Lussemburgo perché si sarebbero autoimposti un self-restraint nel non valutare attentamente quello che ha fatto la BCE. Ribadiscono che questa è andata ultra vires, alias, non che l’operazione fosse del tutto illegittima ma è andata oltre quello che – a loro dire – era (strettamente) necessario per raggiungere il suo obiettivo. A me sembra anche questa sia un’affermazione apodittica perché non c’è controfattuale e, quindi, lascia il tempo che trova.

Per suddetti motivi i giudici di Karlsruhe non si ritengono vincolati dalla decisione dei giudici del Lussemburgo del dicembre 2018 (C-493/17 HeinrichWeiss). Ribadiscono che questi ultimi non hanno considerato tutti gli effetti redistributivi diretti e indiretti del QE del 2015-17 ed esplicitano il discorso sull’ampiezza dell’operazione attuata nel tempo. Ragionano come gli antichi farmacisti o l’avveniristica medicina di precisione che confezionavano e confezionerà medicine ad personam – anche se in un passaggio successivo – contradicendosi- devono ammettere che l’obiettivo dell’inflazione prefissato dalla BCE non è stato raggiunto. In particolare, sostengono che la BCE avrebbe potuto conseguire esiti migliori se avesse regolato le sue operazioni secondo le previsioni degli artt. 12 e segg. del Trattato del MES.

Gli effetti negativi del QE di Draghi secondo i giudici di Karlsruhe si sarebbero esplicati virtualmente su tutti i cittadini ma in particolare, elencano: possessori di azioni, affittuari e proprietari di beni reali, risparmiatori, titolari di polizze di assicurazione, ecc.. Per altro verso, ha consentito la sopravvivenza di imprese inefficienti grazie ai bassi tassi di interesse e, non ultimo, detta politica monetaria avrebbe compromesso la stessa autonomia e indipendenza della BCE perché le pressioni politiche dei PM non le consentirebbe di porre fine al QE. Vedremo più avanti come il giudizio non si limita al QE di Draghi ma a tutti i QE anche quello attualmente in atto. La sintesi della sentenza utilizzata nella Conferenza stampa  non dice nulla in merito alla nuova operazione Pandemic Emergency Purchase Program avviata quest’anno in risposta alla pandemia perché, come noto, l’argomento non poteva essere utilizzato nel ricorso presentato molto prima dell’arrivo della epidemia in Italia.

Nel parag. III i giudici di Karlsruhe dicono che, al momento, non sono in grado di giudicare se il governo federale tedesco e la Bundesbank abbiamo fatto abbastanza per mettere fine al QE di Draghi.

 Nel parag. IV tornano a criticare i giudici del Lussemburgo perché non avrebbero sottoposto a serio scrutinio il rispetto delle salvaguardie che erano state formulate nel giudizio Gauweiler. In fatto, le hanno ignorate ed affermano che la valutazione se il QE è andata in contrasto con l’art. 123 del TFUE deve essere fatta sulla base di criteri diversi: 1) adeguatezza del volume degli acquisti; 2) ampiezza dell’informazione offerta da parte dell’Eurosystem; 3) rispetto del limite del 33% di asset internazionali ISIN; 4) acquisti secondo la capital Key; 5) acquisti di bond che abbiano una soglia minima di sicurezza; 6) acquisti da ridurre o da fermare se non più necessari per raggiungere il target dell’inflazione. Si tratta ovviamente di indicazioni e/o domande alle quali deve rispondere il rapporto richiesto alla BCE attraverso la Bundesbank e su cui tornerò più avanti.

Nel paragrafo successivo, i giudici di Karlsruhe ammettono che non è accertabile se il PSPP violi l’art. 79 della Costituzione tedesca e/o le competenze e responsabilità della Bundesbank perché sembrano consapevoli che si tratta di una questione di misura menzionando i duemila miliardi dell’operazione e il risk sharing tra la BCE e le banche centrali dei PM dell’Eurosistema. Tuttavia chiamano in causa la responsabilità di bilancio della Bundesbank.   Evocano inoltre le responsabilità del governo federale e della Bundesbank collegate al processo di integrazione europea ed affermano che dette istituzioni hanno il dovere di agire contro il PSPP nella sua attuale versione. Non è un ordine ma poco ci manca se si tengono presenti le analisi che i giudici di Karlsruhe svolgono nelle seguenti tre considerazioni finali.

VI/1-2 In presenza di manifesto e strutturale esercizio di competenze non proprie, gli organi costituzionali (tedeschi) devono mettere in atto misure e passi per il rispetto delle competenze previste nell’agenda di integrazione europea. Nello specifico, questo significa che il governo federale e la Bundesbank devono chiedere che la BCE faccia un accertamento del rispetto del principio di proporzionalità per il PSPP iniziato il 1° gennaio 2019 e il suo rilancio deciso l’1-11-2019 invitando il governo federale e la Bundesbank a monitorare continuamente le decisioni dell’Eurosystem per assicurarsi che la BCE rispetti i limiti del suo mandato.

VI/3 i giudici di Karlsruhe “ordinano”, ammoniscono organi costituzionali, autorità amministrative, Tribunali  a non applicare, non eseguire e non attuare atti ultra vires. Concedono un periodo di tre mesi per il coordinamento con l’Eurosystem. Dopo la Bundesbank potrà non partecipare all’attuazione ed esecuzione delle decisioni della BCE a meno che nel frattempo questa dimostri in maniera “comprehensible and substantiated” che il PSPP rispetta la proporzionalità. Se no, la Bundesbank deve vendere i titoli nel frattempo acquistati. Se non è una minaccia di una improbabile secessione, poco ci manca. Ma resta basata sul nulla perché non c’è controfattuale per valutare attentamente la proporzionalità e non è competenza dei giudici costituzionali decidere della secessione. Giustamente Martin Sandbu nel Financial Times del 6 maggio u.s. ha definito questa decisione “una bomba sotto l’ordinamento dell’Unione europea”. Forse il commentatore inglese esagera ma se il Governo federale e la Bundesbank dovessero prendere sul serio i loro giudici costituzionali sarebbero guai per tutti e per il progetto europeo.  Da parte sua,  la Presidente della BCE Lagarde  ha dichiarato oggi 7 maggio che andrà avanti indisturbata – posizione che condivido pienamente.

Prima di esprimere alcune mie osservazioni e considerazioni finali voglio dichiarare che io sono stato e resto favorevole al c.d scrutinio giudiziario delle leggi dello Stato vuoi centralizzato o federale. Ma, in questo caso, i giudici di Karlsruhe probabilmente non si rendono conto che le autorità di politica economica all’interno delle quali riconduco le autorità di politica monetaria, oltre le leggi formali, e le procedure di bilancio devono rispettare le leggi economiche non scritte – o elaborate solo nei migliori manuali universitari di analisi e politica economica –  e che nelle Costituzioni, nei Trattati internazionali e/o intergovernativi non si può prevedere l’imprevedibile per cui, non di rado, dette autorità devono assumersi delle responsabilità che non trovano riscontro esplicito nelle leggi e negli statuti delle istituzioni che governano. Forse i giudici di Karlsruhe non si rendono conto che le ricette di politica economica, monetaria, finanziaria, in ultima analisi, dipendono in quantità variabili dai comportamenti variabili e non del tutto prevedibili degli operatori (famiglie, imprese, amministrazioni pubbliche) non solo nazionali e/o comunitari ma anche internazionali.

Ai Giudici di Karlsruhe sembra sfuggire che il PSPP e/o QE sono strumenti macroeconomici come lo sono gli obiettivi che perseguono con l’immissione di liquidità nel sistema, mantenendo l’inflazione al disotto di una certa soglia, senza compromettere il tasso di cambio dell’euro, cercando di sostenere la domanda aggregata, il tasso di crescita, a livello dell’economia dell’eurozona, ecc. In questi termini, non regge la loro affermazione secondo cui la BCE avrebbe potuto conseguire esiti migliori seguendo le procedure di assistenza finanziaria a Stati che rischiano di perdere l’accesso ai mercati finanziari sulla base di un Memorandum di intesa con il quale le parti contraenti concordano le misure specifiche di aggiustamento macroeconomico che il singolo stato deve assumere. Non è elegante, ma vale la pena ricordare le conseguenze disastrose che le prescrizioni che il MES anteriforma impose alla Grecia che aveva perso l’accesso ai mercati finanziari: il rifiuto di un taglio del debito pubblico e la perdita di un quarto del PIL pur di proteggere i bilanci delle banche francesi, inglesi e tedesche. Se questo è vero, è chiaro che la proporzionalità e/o adeguatezza di strumenti macroeconomici come la politica monetaria espansiva va verificata in itinere ed ex post non solo sul volume e la durata ma anche sulla efficacia immediata e nel tempo.

Inoltre, vale la pena ricordare, in tutta sintesi, che con l’annuncio del luglio 2012, Draghi salvò l’euro e la stabilità valutaria dell’eurozona ma non la crescita armonica dell’economia europea. Con la sua credibilità e determinazione convinse gli speculatori che non era il caso di attaccare il debito pubblico di alcuni PM ingigantito dai salvataggi delle banche. Allora non era arrivato il QE ma c’erano le stringenti regole del PSC 2011 con annessi e connessi regolamenti e c’era il Fiscal Compact. Se l’obiettivo allora fosse stato il sostegno della crescita e dei livelli occupazionali la politica monetaria da sola non avrebbe potuto conseguirli e, infatti, non li ha conseguiti neanche dopo l’arrivo del QE del 2015. Questo per dire ai giudici di Karlsruhe che la valutazione della proporzionalità in materia di politica economica e monetaria non è così semplice da conseguire e non bastano i criteri da loro prescritti. Ma non basta e non è un paradosso. Posso sostenere che se l’ossessione della Germania prima e dopo l’introduzione della moneta comune è stata sempre la stabilità dei prezzi e dell’euro questi obiettivi sono stati ampiamente conseguiti dalla BCE e dal PSC del 2011. Se l’inflazione è stata bel al disotto del mitico 2%, gli effetti negativi sui risparmiatori discendono dai tassi di interesse negativi o prossimi allo zero del Bund tedesco che è diventato il termine di riferimento nella Yardstick competion tra i titoli del debito pubblico dei PM dell’eurozona. Ma i tedeschi non possono volere il massimo di stabilità finanziaria dell’euro e allo stesso tempo lamentarsi se i loro tassi di interesse scendono attorno allo zero perché molti risparmiatori di altri PM comprano i titoli del loro debito pubblico. Bisogna pure ricordare loro che, in tutti questi anni, hanno accumulato ingenti avanzi nella loro bilancia commerciale – così violando anche loro le regole fiscali europee. Quando si usano strumenti macroeconomici per obiettivi macro ci sono sempre degli effetti collaterali non desiderabili e i giudici di Karlsruhe farebbero bene a considerare quelli prodotti dalle politiche di austerità imposte ai PM periferici la cui convergenza con le regioni centrali si allontana vieppiù all’orizzonte minando la sostenibilità del progetto europeo così come ora gestito. Certo i giudici di Karlsruhe possono sempre nascondersi dietro al fatto che loro hanno risposto alle domande che non conosciamo dei ricorrenti ma una simile risposta sarebbe opportunistica e non nasconde l’odore eversivo delle loro intimazioni alla Corte di giustizia europea, al governo federale e al Parlamento tedesco che ritengono di valorizzare.

Ancora sul deficit di solidarietà nella UE.

Anche per via della crisi sanitaria si invoca a proposito e a sproposito la solidarietà; si stigmatizza che gli altri Paesi membri (PM) della ricca Europa hanno fatto poco o niente per aiutare l’Italia colpita per prima dalla Covid-19. A mio giudizio, questo ritornello sta diventando stucchevole e noioso perché trascura un fatto fondamentale: senza un bilancio vero e proprio, con entrate tributarie ispirate al criterio della progressività e senza programmi di spesa mirati alla perequazione dei redditi personali non ci può essere solidarietà vero e proprio a meno che non stiamo parlando di piccole forniture di mascherine, ventilatori, personale medico, medicinali ed altri materiali tecnici mancanti in un PM e disponibili in un altro.

Per spiegare perché, a livello centrale, non abbiamo un vero e proprio bilancio degno di uno Stato tradizionale o di una vera Unione di Stati, vale la pena ripercorrere per sommi capi le fasi del processo di integrazione europea. Un successo di portata storica ma che resta incompleto e contraddittorio. Sono stati creati interessi economici comuni prima con il Mercato comune e poi con il mercato unico. Si è incrementata in maniera consistente la interdipendenza economica tra i diversi PM sicché un paese come l’Inghilterra che ha deciso di lasciare l’Unione vuole restare in un regime di libero scambio con l’UE. 

Fin dall’inizio del mercato comune ci si era resi conto che, prima o poi, per facilitare gli scambi, sarebbe stata necessaria una moneta comune ma negli anni sessanta vigeva il sistema dei cambi fissi e la questione fu rinviata perché non urgente. Con il crollo del sistema di Bretton Woods (agosto 1971), la questione diventa di estrema attualità. Si parte con il c.d. serpente monetario (ampio margine di oscillazione sotto e sopra la parità) e quindi il sistema monetario europeo (con possibilità di uscita temporanea dal sistema) e, quindi, l’euro e la Banca Centrale europea – con un processo che è durato ben trenta anni. Una moneta unica implica una politica monetaria unica e perciò si è centralizzata la politica monetaria ma il Trattato di Maastricht ha lasciato formalmente nella competenza dei PM la politica economica e finanziaria ma in fatto “imbrigliata” con i famigerati parametri sul deficit, debito, inflazione poi meticolosamente regolamentati nel Patto di stabilità e crescita del 1997 concentrandosi sulla stabilità dei prezzi e poco o niente sulla crescita. Dopo la crisi finanziaria ed economica del 2008-09 si è di nuovo riformato il PSC nel 2011 con norme ancora più stringenti. Con il Fiscal Compact si è imposto ai PM di scrivere in Costituzione le nuove norme sul pareggio di bilancio a quelli che non ce l’avevano per niente o ce l’avevano in forma di principio generale (e generico). Nel Fiscal Compact si è previsto anche il coordinamento delle politiche economiche e il semestre europeo, ossia, si è intervenuti in materia di procedure di bilancio per cui in Primavera i PM dell’eurozona presentano il Documento di economia e finanza e il Piano nazionale delle riforme. Quindi aspettano le osservazioni della Commissione europea. A giugno-luglio fanno l’assestamento di bilancio; a settembre approntano la Nota di aggiornamento congiunturale al DEF e a ottobre la bozza della legge di bilancio su cui si esprime di nuovo la Commissione europea lasciando poi poco di più di un mese per elaborare il testo da sottoporre alla discussione e approvazione da parte del Parlamento (composto di due Camere) del testo finale – quasi sempre approvato con un maxiemendamento elaborato nottetempo sul quale il governo pone la fiducia. Riferendomi al nostro Paese, la combinazione delle regole europee, i comportamenti non conformi del governo e la desistenza del Parlamento ha reso sempre più stretto il sentiero della democrazia di bilancio. Se questo è vero, dire che l’Italia e con questa altri paesi conservino sovranista fiscale è un eufemismo se non pura ipocrisia. Ma così vanno le cose nella UE. I PMEZ sotto sorveglianza non possono emettere debito pubblico senza il consenso del Meccanismo di stabilità (MES) e della Commissione europea. Questa, a sua volta, non può emettere eurobond e non ha un bilancio con entrate ed uscite da manovrare in chiave anticongiunturale e/o per sostenere la crescita, la conversione ecologica, la digitalizzazione dell’economia e della società, in sintesi, lo sviluppo sostenibile.

Negli ultimi 10-12 anni, a seguito della crisi del 2008, si sta discutendo della necessità di dare alla Commissione europea di mettere eurobond. Secondo me, è possibile farlo vuoi ai sensi dell’art. 122 e del 311 del TFUE. Il primo prevede assistenza ai PM in difficoltà “in caso di calamità naturali e di circostanze eccezionali”; il secondo in via ordinaria, “per conseguire i suoi obiettivi e portare a compimento le sue politiche”. Oggi più che mai ci sono entrambe le esigenze: a) crisi sanitaria e drammatica recessione mondiale; e b) conversione ecologica e digitalizzazione dell’economia e della società che richiede formazione permanente.

Ora si può discutere e mi chiedo se emettere titoli del debito da parte di una istituzione europea sia un fatto di solidarietà oppure è una questione di preminente interesse comune in una situazione di fatto di forte interdipendenza e/o integrazione tra le economie dei PM? Nelle emissioni comuni di eurobond prevale la solidarietà o l’interesse comune e/o la reciprocità? Non è una questione di lana caprina.  Se sono un imprenditore1 e sono fornitore dell’imprenditore2 e ho un merito di credito basso e la banca per aumentarmi il fido mi chiede la malleveria dell’imprenditore2 , è interesse di quest’ultimo aiutarmi oppure deve fare un semplice atto di altruismo? A parte il fatto che parlare di altruismo si addice meglio alle persone fisiche più che alle imprese e/o alle istituzioni pubbliche, mi sembra che, nell’uno e nell’altro caso, quale che sia la scelta dell’imprenditore2, c’è una condizione necessaria ma non sufficiente: la fiducia. Se l’imprenditore2 non si fida dell’imprenditore1 il primo non darà la malleveria. Mutatis mutandis questo vale anche per le istituzioni pubbliche che devono avere autorevolezza, reputazione e credibilità per ottenere la fiducia di altre istituzioni e delle società di rating. È questo il problema politico a livello europeo. A torto e a ragione i PM del Nord non si fidano di quelli del Sud Europa; entrambi non si fidano del gruppo di Visegrad e viceversa. E per questi motivi non si riesce a superare il voto all’unanimità nelle questioni fiscali paralizzando il processo decisionale e danneggiando tutti chi più o meno.  PQM fin qui hanno rifiutato di mutualizzare non solo il debito pregresso ma anche quello odierno e futuro necessario per contrastare la grande recessione in arrivo.

Se questa analisi ha un qualche fondamento, un paese tra i più ricchi del mondo e dell’Europa che insiste a chiedere solidarietà all’Europa, rectius, agli altri PM contributori al bilancio europeo rectius al QFP  – come ad esempio la Germania e la Francia – rischia di fare la figura dell’accattone. Se c’è un problema di solidarietà è quello tra i ricchi paesi dell’Eurozona e quelli meno fortunati dell’Est europeo e del Sud-mediterraneo ma questo – irresponsabilmente – non è un problema all’odg dell’Unione. Un’ultima osservazione a seguito delle decisioni interlocutorie del Consiglio europeo del 23 u.s.  riguarda la richiesta secondo cui metà delle risorse prese a prestito dai mercati dovrebbe essere erogata a fondo perduto. Ma se detti fondi sono presi in prestito e se il QFP è alimentato dai contributi dei PM sembra buon senso aspettarsi che i fruitori paghino gli interessi- godendosi il solo vantaggio della riduzione degli interessi più bassi ai quali verrebbero piazzati gli eurobond. I trasferimenti a fondo perduto sarebbero più appropriati per i PM più poveri dell’Unione non per quelli più ricchi. Anche in questa richiesta vedo un altro esplicito tentativo di accattonaggio.    Anche perché al momento – incassata la disponibilità ad emettere eurobond – non sappiamo se il fondo per i recovery bond, sia pure agganciato al QFP, sarà costruito sulla base del modello MES oppure di quello di un vero e proprio modello di governo federale dotato di risorse proprie come tributi propri e autonomo potere di indebitamento per attuare le proprie politiche e perseguire i propri obiettivi. Purtroppo anche il raddoppio delle risorse del QFP proposto dalla Presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen  – semmai accettato dal Consiglio europeo – non andrebbe nella direzione di un governo federale. Non c’è governo federale nel mondo che abbia un bilancio così risibile rispetto al fabbisogno.  Reputo che nell’attuale situazione è probabile che le regole sottostanti il QFP non verranno cambiate e se così i PM che usufruiranno delle risorse prese a prestito dovranno giustamente aumentare il loro contributi al finanziamento di detto Quadro. PQM ritengo che non ci sia via di uscita da questa empasse se non si pone mano hic et nunc alla riforma dei Trattati. Se abusando una frase fatta “la crisi può creare un’opportunità” io vedo un solo organo che potrebbe o dovrebbe prendere una tale iniziativa ed è il Parlamento europeo l’unico organo eletto direttamente dai cittadini europei. No taxation without representation fu lo slogan delle colonie americane. Noi europei abbiamo la rappresentanza di anime più o meno belle ma senza tassazione, senza un vero e proprio bilancio. E senza di questo – lo ripeto – è stucchevole e noioso parlare di solidarietà.     

@enzorus2020