Astrid, La partecipazione incisiva. Idee e proposte per rilanciare la democrazia nelle imprese, a cura di Mimmo Carrieri, Paolo Nerozzi e Tiziano Treu, il Mulino, Bologna, 2015. Come è detto nella quarta di copertina, i 13 saggi raccolti nel volume di Astrid nascono dalla discussione di un gruppo di studio, composto da valenti studiosi della materia: “essi mettono a fuoco i caratteri e gli strumenti che può assumere una declinazione italiana della partecipazione, a partire dalle esperienze concrete sui luoghi di lavoro e dalla ricerca di affinità con impianti regolativi stranieri, in particolare Germania e Francia”.
Per iniziare è utile ricordare che la partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa è richiamata dall’art. 46 Costituzione italiana, dall’art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) e dagli artt. 27-28 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000). Ne consegue che il sistema politico ed istituzionale adotta un modello di democrazia partecipativa come fa la Costituzione italiana e quella europea. Questa deve caratterizzare la vita e lo svolgimento delle attività non solo dell’operatore pubblico ma anche quella delle imprese e delle famiglie. È utile ancora sottolineare che l’impresa, la famiglia e la pubblica amministrazione sono i tre fondamentali operatori del sistema economico e sociale. Non è casuale che l’adozione dello Statuto dei diritti del lavoratore nel 1970 fu salutato come l’ingresso della democrazia e della Costituzione nella fabbrica e, analogamente, l’adozione del nuovo diritto di famiglia che nel 1975 mise su un piede di parità uomini e donne con riguardo a diritti ed obblighi dei coniugi. Con alcuni decenni di ritardo, l’Italia entrava nella modernità e cercava di mettersi su un terreno di parità con gli altri paesi fondatori della Comunità europea.
A quest’ultimo riguardo è utile ricordare che in Germania una costituzione federale e la partecipazione dei lavoratori prima nelle imprese dell’industria pesante e poi in quella automobilistica fu imposta dagli alleati anche come forma di controllo sociale organizzato. La cosa è del tutto coerente con le finalità fondamentale del governo federale che, rispetto a quello centralizzato, moltiplica le sedi di partecipazione dei cittadini alla vita politica e sociale del paese. Ed è chiaro che lo status di cittadino non può cambiare quando i lavoratori entrano in fabbrica o la donna ritorna in famiglia.
Quanto alla partecipazione nell’impresa si distinguono: a) la partecipazione alla governance dell’impresa con possibilità di influire sulle scelte strategiche della medesima (art. 46 Cost.); b) la partecipazione organizzativa valorizzando le idee e competenze dei lavoratori in materia di organizzazione del lavoro; c) la partecipazione economico finanziaria tra cui la partecipazione alla distribuzione degli utili prodotti dall’impresa e/o accesso all’investimento azionario diretto o indiretto nelle grandi imprese (art. 47 Cost.). Senza dimenticare i vincoli generali che gli artt. 41 e 42 Cost. pongono in materia di utilità e funzione sociale della proprietà privata nonché la possibilità di trasferire allo Stato , a enti pubblici, a comunità di lavoratori imprese che producano servizi pubblici essenziali, energia, o imprese che agiscano in regime di monopolio e siano di preminente interesse generale (art. 43 Cost.).
È facile constatazione che, in un contesto di polverizzazione e/o di forte frammentazione delle attività produttive come quello italiano, il governo e le parti sociali dovrebbero valorizzare maggiormente, da un lato, la concertazione circa le politiche economiche, industriali e sociali da perseguire e, dall’altro, la funzione di controllo sociale organizzato che la partecipazione all’interno dell’impresa potrebbe assumere. Anche queste sono forme di partecipazione incisiva di cui questo volume di Astrid si occupa poco, solo indirettamente o in maniera implicita. A mio giudizio, solo con politiche industriali idonee a superare la frammentazione del settore manifatturiero e la riforma strutturale del settore distributivo e dei servizi si potrebbero aprire nuovi e più ampi spazi alla partecipazione. Ma sappiamo che, da un lato, il governo scivola sempre più su una deriva autoritaria, dall’altro, le tre Confederazioni accettano più o meno passivamente la linea del governo. Al premier piace visitare questa o quella fabbrica ma non piace perdere tempo a discutere con i sindacati di questo o quel problema. Del resto, è noto che anche le stesse riunioni del Consiglio dei ministri sono ormai ridotte ai tempi strettamente necessari per varare formalmente, alias, mettere il timbro della collegialità – come d’obbligo – sui provvedimenti senza un’approfondita discussione collegiale del merito delle diverse questioni.
Il libro raccoglie 13 saggi molto interessanti ed approfonditi . Non c’è lo spazio per dedicare un commento a ognuno di essi. per questo motivo mi limiterò a trattare le questioni comuni a partire dall’analisi delle esperienze emblematiche attuate in Italia. Molto rilevanti mi sembrano i dati e le valutazioni raccolti dalla Gandiglio con i questionari bene argomentati ai dirigenti del personale di alcune imprese che stanno conducendo esperienze di avanguardia. Ma queste non possono compensarci della mancata disponibilità del governo a tenere conto delle istanze di concertazione avanzate in particolare dai sindacati dei lavoratori. Ci sono problemi gravi da discutere a partire da quello della disoccupazione anche giovanile (nell’insieme ancora al di sopra dell’11%), del basso tasso di partecipazione delle donne – questa si ad alta priorità rispetto a quella di cui ci stiamo occupando – dell’economia sommersa, dell’evasione fiscale e contributiva e, come sappiamo, il governo rifiuta di intrattenere rapporti regolari con i corpi intermedi ad esclusione di quelli che percepisce come più vicini alle proprie posizioni. Anche la concertazione è partecipazione al confronto, alla condivisione delle analisi e all’individuazione delle soluzioni meglio idonee ad risolvere i problemi appena detti. Di nuovo, il premier Renzi non si limita solo a scegliere simulacri di partecipazione mediatica che piacciono a lui ma, addirittura, continua a minacciare interventi autoritativi se le parti sociali non riescono a trovare accordi preliminari. PQM non possiamo accontentarci di alcune significative esperienze di avanguardia come quelle raccontate nel volume di Astrid. Basti riflettere all’esperienza illuminata ed illuminante della Olivetti . Bellissima, soprattutto perché dimostrò, nel secondo dopoguerra, che un modo di produrre diverso, una fabbrica parte integrante di una comunità erano possibili. Ma sappiamo che, purtroppo, quella esperienza non era generalizzabile, non poteva e non ha cambiato il sistema economico e sociale dell’Italia. Adriano Olivetti fu capitano d’industria illuminato, appassionato urbanista e riformatore sociale, ma gli altri imprenditori, la classe industriale , la “razza padrona” , i c.d. boiardi di Stato sono stati quelli che conosciamo – ovviamente con le dovute eccezioni. Quello che abbiamo visto storicamente è che in Italia i sindacati ottennero la concertazione incisiva dopo il 1968 gestendo la forte spinta unitaria del movimento e grazie anche alla “complicità” di forze progressiste all’interno del governo e della maggioranza che ritenevano necessaria un’intesa con il sindacato per vincere le resistenze delle forze conservatrici. Dopo la fine del Centro-sinistra e nella fase di massimo attacco terroristico, il sindacato seppe dimostrare di essere anche forza determinante a difesa delle istituzioni. Anche questa fu partecipazione della massima rilevanza ai fini della salvaguardia del sistema democratico. Che cosa è successo nella c.d. II Repubblica che ha impedito forme più incisive di partecipazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti alla gestione delle imprese e alla concertazione ? è successo che, dopo il crollo del Muro di Berlino, dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, nonostante che, in fatto, c’è stata un’alternanza tra centro-sinistra e centro-destra al governo, il berlusconismo è riuscito a sostituire la lotta di classe che trovava ampi proseliti a sinistra con lo schema amico-nemico di Carl Schimtt: se sei mio amico e sodale ti proteggo, se sei mio nemico e/o antagonista cerco di distruggerti e/o delegittimarti. A mio giudizio, sia pure in maniera larvata, Renzi segue lo stesso schema che del resto Berlusconi aveva anche attenuato dopo la sua prima brutta esperienza di governo durata appena sei mesi. Come interpretare differentemente il comportamento del governo: non vuoi il decentramento della contrattazione, non vuoi il welfare aziendale, te lo impongo io non con la forza di una legge fortemente prescrittiva ma con quella soft degli incentivi che ti metterà in forte difficoltà con i tuoi stessi affiliati se la respingi. Anche in questo senso il governo Renzi è in continuità con la strategia di Berlusconi al di là dei toni più o meno roboanti.
Questa linea di ragionamento mi porta a fare due considerazioni finali: la prima riguarda la richiesta da parte dei curatori del libro di una legislazione di supporto e la seconda riguarda la questione degli incentivi. In un contesto dove non c’è concertazione, in cui il sindacato è debole , in cui il governo abusa della decretazione d’urgenza, dei voti di fiducia per strozzare il dibattito parlamentare , chiedere una legislazione di supporto rischia di avallare dei provvedimenti che, a dir poco, non sono veramente conformi agli interessi generali di tutti i lavoratori, indebolendo ulteriormente la posizione della rappresentanza. Per fare passare in Parlamento lo Statuto dei lavoratori, le riforme strutturali dei primi anni settanta ci sono voluti molti scioperi unitari non solo di categoria ma anche generali. Secondo me, è un azzardo chiedere una legislazione di supporto in materia di modello contrattuale, di rappresentanza, di partecipazione, di welfare aziendale perché si rischia di ottenere dei provvedimenti che deformano o applicano in maniera riduttiva i principi costituzionali contenuti negli articoli citati all’inizio. Stiamo vedendo quello che questo governo sta facendo in materia di riforme costituzionali. So che la materia è opinabile, ma io do un giudizio negativo su dette riforme e non capisco perché dovrei attendermi un comportamento diverso in materia di relazioni industriali.
La questione degli incentivi. Molti degli autori dei saggi sostengono che la mancanza di appositi incentivi costituirebbe un vincolo ed un ostacolo alla diffusione della partecipazione anche se alcuni di essi riconoscono che essi non bastano. Infatti deve essere chiaro che la partecipazione , a mio a giudizio, non può essere imposta con la legge né da una c.d. conquista del sindacato. Deve essere frutto di un genuino spirito cooperativo.
Da economista vengo agl’ incentivi . Secondo me, questi funzionano se sono selettivi e temporanei. Un esempio di scuola è quello per la formazione professionale e l’aggiornamento dei lavoratori. Se è vero che la vera formazione professionale si fa in azienda e che le PMI raramente hanno la capacità e le risorse per organizzarla, allora gli incentivi e/o i contributi diretti e finalizzati dall’operatore pubblico sono giustificati. Se invece gli incentivi diventano ordinari e permanenti allora essi alterano il calcolo economico e diviene poi molto difficile rimuoverli. Vedi ad esempio le agevolazioni agli utili distribuiti. Al riguardo il punto di domanda è : non è meglio incentivare gli utili reinvestiti in una fase in cui langue il processo di accumulazione ? serve un uso intelligente (selettivo) di questi strumenti. Ricordo che Berlusconi e Tremonti hanno fatto ricorso 2-3 volte alla esenzione degli utili reinvestiti guadagnandosi grande popolarità in certi ambienti imprenditoriali e nella stessa Confindustria. Eppure la ripetizione di detto strumento non è stata sufficiente e rilanciare gli investimenti anche perché, come sappiamo, una buona metà delle imprese presentano bilanci in rosso e anche perché, secondo Pierluigi Ciocca e altri, è continuato lo sciopero degli investimenti in Italia per tutta una serie di motivi a partire da quello della scarsa fiducia che gli imprenditori ripongono nel futuro di questo Paese. Non si spiega altrimenti la fuga continua dei capitali da 50 anni a questa parte. Per cui vale l’osservazione generale secondo cui gli incentivi funzionano se si applicano ad un settore produttivo in temporanea difficoltà magari per uno shock esterno e che ha bisogno di aiuto ma in un contesto in cui gli altri settori e l’economia nel suo insieme funzionano normalmente e in maniera efficiente.
Diverso è il caso se si tratta di diritti di informazione e di consultazione la legge può aiutare ma serve in via preliminare un salto culturale da parte dei lavoratori e dei datori di lavoro che prendano atto che l’impresa è comunità di interessi e di destino e che , pur salvaguardando i diversi ruoli dei proprietari, dei manager e dei lavoratori, solo la propensione alla cooperazione tra le parti sociali può promuovere quello spirito di collaborazione che salva l’impresa bene comune nella congiuntura negativa e la fa progredire nelle fasi normali.
Detto questo, dico che, in linea generale, non sono radicalmente contrario alla proposta di una legislazione c.d. di supporto purché si tenga ben presente il problema dell’attuazione della legge e del controllo sociale sui mille rivoli in cui si incanalano gli incentivi a pioggia. E qui rileva non solo la forza del sindacato a livello delle singole imprese ma soprattutto la cultura dell’imprenditore individuale e familiare per lo più poco propenso ad assumere un manager esterno (magari con una formazione di livello superiore) o, tanto meno, a far partecipare in maniera formalizzata i lavoratori alla gestione dell’impresa.
Avere messo in rilievo alcuni aspetti poco trattati dalla ricerca di Astrid nulla toglie al valore delle analisi dei singoli collaboratori a cui erano assegnati compiti specifici di approfondimento e dei curatori che affrontando il delicato tema della partecipazione, come abbiamo detto, affrontano il tema dell’attuazione piena della democrazia partecipativa in una fase storica in cui la deriva tecnocratica ed autoritaria in corso in Italia e in Europa sta mettendo in serio pericolo i livelli
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