A dieci anni dalla scomparsa, la famiglia ha preso l’iniziativa lodevole di ricordare la figura eccezionale di Mario Didò, sindacalista di lungo corso e, infine, parlamentare europeo che ha dedicato tutta la sua vita alla causa dei lavoratori italiani e europei. Lo ha fatto in collaborazione apprezzata con l’Archivio storico della CGIL nazionale a cui la famiglia aveva donato il Fondo archivistico personale di Didò. Come scrivono i curatori, la pubblicazione è “un prodotto ibrido, a metà strada fra la ricostruzione storica e la rievocazione affettuosa; proprio per questa ragione il volume si compone di diverse parti, distinte e separate oltre che nettamente diverse tra di loro per forma e contenuto”.
“Il viaggio di Mario Didò verso la costruzione di un’Europa sociale. Una strada sindacale e politica, dalla banlieue di Parigi al Parlamento europeo. A cura di Ilaria Romeo e Francescopaolo Palaia, Prefazione di Susanna Camusso, Lithos editrice, collana Quovadiseuro(pa)?, Roma, 2017.
Anche in sede di presentazione del libro il 4 dicembre scorso, tutti gli interventi hanno messo in evidenza lo sforzo di Mario come sindacalista e come parlamentare europeo a favore della costruzione di un’Europa sociale che il 17 novembre scorso, nel Vertice di Goteborg, almeno a parole, ha trovato il rilancio del c.d. Pilastro sociale sul quale si è impegnata la Commissione europea.
È chiaro che da alcuni decenni i sistemi di welfare dei Paesi membri sono sotto attacco a livello mondiale per via dell’accelerazione della globalizzazione e a livello della Unione per avere questa accolto disinvoltamente la logica mercatistica senza regole e la politica della concorrenza fiscale. A fronte della tesi secondo cui il welfare dei paesi membri non sia sostenibile, da ultimo, anche esponenti del mondo delle imprese sostengono che il vero rimedio per espandere il ruolo della politica sociale, superare le forti differenze di reddito e combattere le accresciute diseguaglianze tra i cittadini europei è quello di promuovere la crescita economica e creare le risorse necessarie per ridurre i forti squilibri territoriali e promuovere la coesione sociale. Nel mio intervento spiego come Mario Didò, a suo tempo, nell’aprile 1972, in occasione della Conferenza Industria e Società, organizzata dal Commissario Altiero Spinelli, diede un contributo alla nascita della politica regionale della CEE.
Dopo la Conferenza sulle economie regionali del 1961 e la continuazione dei lavori di questa a livello di esperti, protrattasi sino al 1964 (1), l’11 maggio del 1965 venne presentata al Consiglio dei ministri della Cee una prima comunicazione sull’argomento. Nel 1969 la Comunità pubblicò il primo documento sulla politica regionale.
Il 18 maggio 1970 il commissario Colonna di Paliano presentò il Rapporto “La politica industriale della Comunità”, meglio noto come “Memorandum Colonna”. Questo indicava le seguenti linee guida della politica industriale comunitaria: a) il completamento del mercato interno con 3 delle 4 libertà fondamentali; b) la piena realizzazione della libertà di circolazione delle merci; c) la liberalizzazione dei mercati pubblici a livello europeo; e d) la libera circolazione dei capitali. Il documento prevedeva inoltre:
1) la promozione della collaborazione comunitaria nel campo della ricerca e sviluppo; 2) la promozione di settori industriali innovativi; e 3) la promozione di ristrutturazioni industriali verso una maggiore concentrazione. Il documento aveva raccolto molte critiche anche dal mondo sindacale.
Nell’Autunno 1971, l’Ufficio Statistico della Comunità pubblicò un bilancio analitico sull’evoluzione delle regioni europee. I dati evidenziavano la continua concentrazione della popolazione nelle zone più sviluppate: dal 1950 al 1969 le regioni della Germania meridionale, quella parigina, e quelle dell’Italia Nord-occidentale avevano visto passare la loro popolazione rispettivamente da 15,4 a 19,4 milioni, da 7 a 9,5; da 11,3 a 14,6 milioni.
L’occupazione nell’industria era passata da 26 milioni (1950) a 31 milioni (1960) stabilizzandosi sul livello del 42,7% nel periodo 1960-68.
Questi dati non misuravano bene i divari regionali. Guardando all’occupazione totale, il Rapporto indicava un calo di posti di lavoro in 45 su 100 regioni CEE.
Erano interessate a questo fenomeno 16 delle 20 regioni italiane; 14 delle 38 regioni tedesche; 9 delle 21 regioni francesi; e 5 delle 9 regioni belghe e il Lussemburgo.
Nell’Inverno-Primavera del 1972, il Commissario Spinelli mise in moto il meccanismo di consultazione e concertazione che portò alla Conferenza di Venezia nel mese di Aprile (2).
Nello stesso 1972 la Commissione elaborava le prime linee-guida di un programma comunitario per l’ambiente. Ancora nel 1972, alla vigilia della prima grande Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nell’Autunno, il Club di Roma, promosso da Aurelio Peccei, pubblicò un apposito Rapporto commissionato al System Dynamics Group del MIT, con un titolo molto chiaro: “The Limits to Growth” (I limiti della crescita) che, quasi a sottolineare la confusione di allora tra i termini crescita e sviluppo, fu tradotto nell’edizione italiana “I limiti dello sviluppo”. Il logo della Conferenza fu: “il nostro destino comune”.
Non a caso la Relazione introduttiva di Altiero Spinelli era intitolata: Lo sviluppo industriale e il problema ecologico.
I lavori della Conferenza di Venezia si svolsero in tre lunghe giornate di confronti tra le parti sociali e con gli esperti c.d. indipendenti. Allora la concertazione era d’obbligo. Perché i sindacati erano al massimo del loro potere negoziale con piattaforme di ampio respiro che non si occupavano solo di salari.
Oggetto principale di analisi era la politica industriale della CEE ed i suoi rapporti con la società contemporanea. Chiaramente una nozione ampia – direi quasi onnicomprensiva – del termine. Si trattava di prendere atto del fallimento dell’approccio liberistico (previsto dai Trattati) fino ad allora seguito dalla Commissione: qualche intervento nelle infrastrutture, qualificazione della manodopera e, soprattutto, mobilità della medesima.
Si trattava di valutare le critiche che aveva ricevuto il Memorandum Colonna soprattutto riguardanti l’obiettivo fondamentale del programma che era quello di creare dei “campioni europei” in grado di competere con le grandi imprese americane e multinazionali. Ciò implicava, in primo luogo, fusioni e concentrazioni.
Preliminarmente Spinelli, pur dandosi carico dei problemi dell’ambiente, della biosfera, prendeva le distanze dai sostenitori della decrescita, ritenendo questa scelta possibile per qualche individuo ma non per la società e/o per l’umanità. Riconduceva il problema alle esternalità positive da internalizzare e alle diseconomie esterne da valutare attentamente nel calcolo della funzione del benessere sociale. In termini più generali, riconduceva il problema al rapporto tra società e natura.
Nella visione di Altiero Spinelli, si trattava di programmare interventi strutturali in tutti i settori dell’economia reale tenendo conto anche dei problemi della localizzazione degli impianti al fine di contribuire al superamento degli squilibri territoriali, intersettoriali e intrasettoriali.
Si enunciava quindi una stretta correlazione tra la politica industriale e quella regionale, tenendo conto dell’impatto sull’ambiente e la qualità della vita.
In quegli anni, io collaboravo intensivamente con l’Ufficio studi economici della CGIL Confederazione. Ed è qui che ho conosciuto Mario. La relazione sulla politica regionale fu affidata a lui (3) ed io scrissi circa 70 pagine di documenti preparatori che poi furono riassunti nella sua relazione per la Conferenza di Venezia. Ci lavorammo insieme per mesi anche perché ad ogni relatore era stato assegnato dagli Uffici del commissario Spinelli un controrelatore con cui interloquire prima della Conferenza. A noi toccò un controrelatore inglese molto preparato ed avemmo uno scambio molto positivo. Grazie a Mario Didò e al lavoro che avevo fatto per la sua relazione partecipai alla Conferenza di Venezia in qualità di esperto.
Nella Primavera 1972 erano già iniziati gli incontri preparatori del Vertice di Ottobre (a Parigi) a cui erano stati invitati i tre nuovi paesi membri (Regno Unito, Danimarca, Irlanda). La Commissione aveva promosso altri incontri per studiare i temi che potevano essere inclusi nell’Agenda dei Capi di Stato e di Governo. Gli argomenti trattati sopra erano solo una parte dell’odg. C’erano aspettative diverse pessimistiche ed ottimistiche. Quelle più realistiche vedevano la conferma della necessità di proseguire per tappe nel processo di integrazione monetaria e l’assunzione di alcuni impegni formali su altri temi come, ad esempio, la politica regionale di cui si era occupata la Conferenza di Venezia e più approfonditamente la relazione di Mario Didò alla quale avevo modestamente contribuito.
La concezione della politica industriale elaborata dalla Conferenza raccolse un ampio consenso delle parti sociali, degli esperti e dell’opinione pubblica. Ma non se ne fece niente.
Nell’ottobre 1972, il Vertice di Parigi assumeva l’impegno formale di un fondo speciale per la politica regionale da attuare entro l’anno successivo. Fu la decisione più importante del vertice. Indirettamente vi aveva contribuito anche Mario Didò. Preferisco ricordarlo così.

Note
(1) Vedi “La politica regionale nella CEE. Relazioni dei gruppi di esperti”, Bruxelles, luglio 1964.
(2) Per inciso ricordo che due anni prima, nel febbraio 1970, in Italia era uscito il Rapporto Pirelli che animò per alcuni anni il dibattito sul rinnovamento dell’organizzazione datoriale, il rapporto tra Industria e società e le nuove relazioni industriali. Successivamente il Rapporto fu lasciato cadere dalla Confindustria.
(3) La relazione di Mario è riprodotta alle pp. 260-95 del volume “Per un modello europeo di sviluppo. Industria e società nella Comunità europea. Venezia 1972, Atti della Conferenza organizzata dalla Commissione delle Comunità europee, Venezia 20-22 Aprile 1972, la libreria europea sa, Bruxelles, s.d..