La montagna ha partorito il topolino.

Non è stato un fallimento totale, come alcuni di noi temevano, ma un “compromesso di facciata” come molto opportunamente lo definisce Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore del 30 giugno. Purtroppo diversi fattori hanno concorso ad assicurare questo risultato: il protagonismo del Presidente Macron che da 10 mesi cerca di rilanciare il progetto europeo senza raccogliere alcun successo prima per via dei risultati elettorali in Germania che hanno lasciato in carica il vecchio governo per sei lunghi mesi in attesa di uno nuovo, poi per via delle elezioni italiane che hanno consegnato il Paese ad una maggioranza di forze euroscettiche e xenofobe dopo che il PD di Renzi inopinatamente ha rifiutato una possibile intesa con il M5S. Naturalmente Francia, Germania e Italia non sono gli unici responsabili di questo compromesso di facciata. Negli ultimi anni si sono consolidati alcuni raggruppamenti all’interno dell’Unione che hanno piantato dei paletti ben precisi contro l’avanzamento del progetto europeo: in primo luogo, il Gruppo di Visegrad che mette insieme i principali paesi dell’Est europeo (Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia) il “cuore di tenebra” dell’Europa contrario non solo ad accogliere i migranti ma anche una maggiore integrazione politica ed economica. Più recentemente si è consolidato anche il gruppo dei Paesi baltici tra i quali (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia, ecc.) anche essi molto scettici sui vari progetti di riforma dell’eurozona mirati a completare l’Unione bancaria ad avviare e rendere più efficiente il mercato unico dei capitali; a trasformare il fondo salva Stati (ESM) in un vero ministero dell’economia e delle finanze all’interno della Commissione oppure, in subordine, a trasformarlo in un più potente strumento di intervento contro shock simmetrici e asimmetrici che sono ragionevolmente prevedibili in un mondo globalizzato ora in forte tensione per via anche delle dissennate politiche del Presidente Trump che rifiuta ogni approccio cooperativo multilaterale. In questo contesto di grande confusione ed incertezza si è inserito il leader della Lega Salvini che, forte del risultato elettorale del 4 marzo, ha puntato tutte le sue carte nella contestazione della politica migratoria dell’UE e in particolare sul discusso e discutibile Regolamento di Dublino (versione 2013) che lascia un ruolo primario di accoglienza solo ai Paesi di primo approdo. Va precisato che come Regolamento quello di Dublino è un atto legislativo di competenza propria dell’Unione e la sua riforma potrebbe essere oggetto dell’iniziativa del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio dei ministri competenti per materia. Ma sappiamo che su detti organi domina la cupola del Consiglio dei capi di Stato e di governo che ragionano guardando lo specchio retrovisore, ossia, pensando sempre agli effetti elettorali interni al proprio Paese delle misure che si discutono a Bruxelles. In altre parole, in un contesto di sfiducia reciproca e di incertezza generale, i capi di Stato e di governo, invece di assumere come prioritario il futuro dell’Europa, pensano soprattutto al consolidamento della loro leadership all’interno dei loro paesi di provenienza e/o al saldo netto tra costi e benefici di certe misure che invece avrebbero un valore aggiunto europeo di medio e lungo periodo. Per considerare attentamente questo ultimo obiettivo servirebbe una classe dirigente dotata di visione del futuro ma sappiamo che, in molti paesi occidentali, prevalgono politici dalla veduta corta anche a causa dell’accresciuta volatilità dell’elettorato. Il risultato è che anche su un problema come quello delle migrazioni che andrebbe affrontato nella prospettiva pluridecennale se non proprio secolare in considerazione del declino o invecchiamento della popolazione europea e/o della forte crescita demografica dell’Africa, un ministro dalla veduta corta come Salvini ha messo in primo piano il blocco degli sbarchi nonostante che questi ultimi siano stati fortemente contenuti dalla politica portata avanti dal suo predecessore Minniti e così raccogliendo significativi successi elettorali in elezioni locali e parziali. Salvini ovviamente non è l’unico responsabile del fallimento del vertice europeo del 28-29 giugno. Scrivo di fallimento perché aver messo al primo punto dell’o.d.g. irresponsabilmente da parte di tutti la questione degli immigrati ha condizionato tutto il resto.
A chi non segue gli affari europei giorno per giorno va ricordato che da quattro anni dopo che si è chiusa la crisi economica con la seconda recessione terminata nel 2013, si era aperto un dibattito sull’adeguatezza degli strumenti di politica economica e finanziaria a disposizione delle autorità europee. La Commissione ha prodotto decine di documenti, il Parlamento europeo altri studi, La Banca Centrale europea altri ancora – per non parlare di quelli dell’OCSE, del FMI e dei numerosi centri studi pubblici e privati che si occupano dei problemi europei e che, negli ultimi anni, hanno concentrato la loro ricerca su come riformare il Patto di stabilità e crescita e gli annessi e connessi regolamenti che cercano di promuovere il coordinamento delle politiche economiche e le procedure di bilancio (vedi semestre europeo) per creare un vero e proprio governo economico al centro dell’Europa. Sappiamo che il coordinamento automatico delle politiche economiche sulla base dei famigerati parametri di Maastricht non ha mai funzionato e che i Patti di stabilità e crescita (a partire da quello del 1997 sino a quello del 2011) hanno funzionato solo a metà dando la priorità al consolidamento dei conti pubblici e sacrificando in tutto o in parte la crescita. Un recente studio della BCE (febbraio 2018) ha affermato che la disoccupazione vera dell’eurozona non è quella ufficiale del 9% ma poco più del doppio se si considerano gli inoccupati come disoccupati scoraggiati. Corrispondentemente in Italia abbiamo circa 7 milioni di persone senza lavoro tra giovani e anziani. A causa del rigore e delle politiche di austerità (svalutazione interna) l’eurozona e l’Italia non sono riuscite a salvaguardare il processo di accumulazione, alias, un flusso di investimenti tale da allargare il divario tra reddito potenziale e quello effettivamente prodotto. Secondo la macchinosa procedura di calcolo dell’output gap, previsto dal PSC 2011, più ampio è il gap e più margine di flessibilità ottieni per finanziare nuovi investimenti produttivi. Era questo uno dei punti nodali della riforma del PSC che doveva essere discusso nel vertice. A causa dell’emergenza migranti creata artificiosamente da Salvini, d’intesa il Gruppo di Visegrad, la riforma dell’eurozona è scomparsa dall’odg del vertice dei giorni scorsi e rinviata al Consiglio di Dicembre. E’ di tutta evidenza che se non si risolve il problema della disoccupazione in Europa non c’è speranza alcuna di accogliere e integrare neanche i migranti che hanno fondato diritto ad essere accolti. Solo spingendo l’economia europea verso la piena o massima occupazione si creano prospettive serie di accoglienza e inclusione. Il punto 7 dell’accordo sull’emigrazione prevede che l’Unione sposterà 500 milioni dal Fondo di sviluppo a quello di solidarietà per l’Africa; un altro (implicito nel punto 11) prevede accordi bilaterali che la Germania ha già firmato con la Spagna e la Grecia secondo cui i migranti sbarcati in quei Paesi ma arrivati in Germania in maniera irregolare nel paese che ha il più basso tasso di disoccupazione dell’eurozona. Mi chiedo: ma che razza di classe dirigente abbiamo a livello europeo se pensa di risolvere – sia pure in via emblematica – problemi strutturali della disoccupazione africana con 500 milioni di euro e, dall’altro, far ritornare i migranti comunque arrivati in Germania in paesi come la Grecia e la Spagna che hanno i più alti tassi di disoccupazione? Forse pensano alla deportazione forzata?
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Il peso crescente delle diseguaglianze.

“Le diseguaglianze stanno assumendo un peso crescente anche nell’attuale fase di ripresa. Sono dunque un grande tema economico, ma soprattutto riguardano in negativo la condizione di milioni di persone. Tutto questo è fonte di paure, risentimenti, rabbia sociale”. Un groviglio di pulsioni che occorre combattere e ricondurre ad azione politica e sindacale, ha spiegato Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, presentando il convegno che si è tenuto il 19 giugno a Roma nella sede della CGIL.
Conviene tornare a riflettere su un punto tanto delicato quanto attuale trattato da tutti i relatori. Si è parlato di un nuovo modello redistributivo. Sicuramente per il medio e lungo termine servono nuove idee al riguardo. Basti pensare alla robotizzazione e/o digitalizzazione dell’economia e alla proposta di tassare i robot avanzata da Bill Gates, per capire che stiamo parlando di un problema strategico importante. Se un giorno la forza direttamente impegnata nella produzione dovesse essere costituita prevalentemente da robot, è chiaro che in prospettiva bisognerà rivedere dalle fondamenta i presupposti dei diritti di proprietà non solo di beni materiali ma anche e soprattutto di quelli immateriali, della produzione e distribuzione del reddito, della tassazione e della distribuzione della ricchezza.
Ma ancora per il futuro prevedibile siamo lontani da una tale prospettiva. E quindi oggi valgono ancora le regole più aggiornate della contrattazione salariale e le classiche funzioni del bilancio dello Stato. Sappiamo che i Sindacati e/o le parti sociali – benché indeboliti dalla crisi economica e finanziaria del 2008-13 -, nei regimi liberal democratici, controllano o dovrebbero controllare meglio la distribuzione primaria quella discendente dalla contrattazione. Vale ancora il modello classico di Musgrave (1939 e 1959) secondo cui è fondamentale la distribuzione primaria e l’intervento dell’operatore pubblico deve intervenire non solo per la produzione e/o fornitura di beni pubblici ai vari livelli di governo – beni pubblici che i privati non possono offrire – ma anche per correggere la distribuzione primaria ove quest’ultima risulti socialmente inaccettabile.
Gli effetti della crisi sono stati devastanti: in sintesi i poveri sono diventati più poveri e i ricchi sempre più ricchi. L’area del disagio sociale in Italia interessa 4,6 milioni di persone (Fammoni); nella UE 76 milioni di adulti sono a rischio povertà vedi il Rapporto “living and working nella UE, p.9; le cinquemila famiglie italiane più ricche hanno aumentato il loro controllo della ricchezza dal 2 al 10% (Enrico Giovannini). Il governo Renzi è intervenuto maldestramente a favore delle famiglie della classe media coniugi lavoratori con redditi sino a 50 mila euro – una cifra pari al doppio circa del reddito medio pro-capite – che lasciava i poveri al loro destino – arrivando al reddito di inclusione solo successivamente e con risorse minime.
Nel 2014 – anno nel quale l’economia italiana accennava ad uscire dalla crisi – le persone residenti in Italia a rischio povertà o esclusione sociale secondo l’Istat raggiungevano il 28,3% secondo la definizione adottata nell’ambito della strategia Europa 2020 – ossia di persone che soffrivano un alto rischio di povertà (in relazione ai redditi 2013), grave deprivazione materiale e bassa intensità di lavoro. Non possiamo dire che oggi la situazione sia radicalmente cambiata nonostante la debole ripresa economica di questi ultimi anni.
La spiegazione? È semplice: gli italiani non condividono nessuna teoria della giustizia sociale e, meno che mai, di quella tributaria che ne è parte fondamentale. Prevale l’approccio: ognuno per se e Dio con tutti. Nonostante che molti politici si riempiano la bocca della parola solidarietà l’Italia resta un paese a bassa coesione sociale e, se penso alle proposte dell’attuale governo in materia fiscale e di lotta all’evasione da parte dei partiti che hanno firmato il contratto di governo non vedo alcuna prospettiva per un miglioramento della situazione. Difficile parlare di Giustizia intergenerazionale se non si ha una corretta percezione dei temi della giustizia sociale per le generazioni correnti.
È così che si spiegano le proposte in materia fiscale contenute nel c.d. contratto di governo Lega-M5S. È chiaro che se malauguratamente dovessero essere adottate si causerebbe una ulteriore devastazione del sistema tributario incompatibile con ogni elementare criterio di giustizia sociale. Infatti il governo propone una c.d. flat tax che in realtà non è tale perché ha due aliquote ma provocherebbe una perdita di gettito di circa 50 miliardi , ossia, uno sgravio di imposta a favore delle famiglie con i redditi più alti; propone inoltre l’abrogazione del redditometro, dello spesometro, degli accertamenti sintetici e degli studi di settore; in altre parole, propone il disarmo totale dell’agenzia delle entrate; propone la pace fiscale al posto della lotta all’evasione fiscale con due strumenti: a) la trasformazione degli studi di settore in indici di affidabilità fiscale che renderebbe legale l’evasione fiscale e b) la rottamazione delle rimanenti cartelle esattoriali al di sotto dei 100 mila euro che premia comunque gli evasori.
Ormai lo sanno anche alcuni esponenti di rilievo dei M5S meno disinvolti: detta rottamazione non è e non può essere una pace o un armistizio. Per essere tale si dovrebbe partire da uno stato di belligeranza. Ma la belligeranza è quella degli evasori contro lo Stato e la collettività. E se si considera che anche i Pentastellati vogliono togliere all’AdE gli strumenti più incisivi per fare la lotta agli evasori, per lo Stato si tratta di una resa senza condizioni. E’ utile ripetere che si tratta di un condono bello e buono e che come tutti i condoni, al solo ripeterne l’annuncio, producono devastanti effetti diseducativi ed economici perché inducono gli evasori a rinviare la scelta in attesa di altri condoni con maggiori sconti e, quindi, riducono anche il gettito che il governo pensa di realizzare. Dire che con i condoni e/o la pace fiscale si possa realizzare il gettito necessario per finanziare il reddito di cittadinanza è semplicemente illusorio come ampiamente infondata è la tesi secondo cui basta ridurre le tasse perché l’economia vada a gonfie vele.
Con la flat tax anche per le imprese e l’allargamento dei regimi forfettari dei c.d. contribuenti minimi il governo Lega-M5S sta imboccando la strada della concorrenza fiscale deleteria che imperversa nell’Unione europea. Una strategia dannosa a suo tempo adottata per abbattere il welfare state. E tutto questo mentre un gruppo di lavoro della Commissione affari economici e monetari del PE ha avanzato una bozza di risoluzione per porre fine o, quanto meno, arginare la concorrenza fiscale e il ritorno all’armonizzazione dei sistemi tributari dei paesi membri dell’Unione. Non che una tale risoluzione, anche se adottata, abbia grandi probabilità di essere implementata ma è sempre più evidente che il governo Lega-M5S va nella direzione dello sbraco fiscale in piena continuità con il governo Renzi. E’ questo il governo del cambiamento? Si ma del cambiamento in peggio. Tornando al discorso sul nuovo modello redistributivo che è stato invocato nel convegno di cui sopra è chiaro che c’è poco da sperare.

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