Spigolature storiche sulle imposte di successione.



Nel post del 2 dicembre 2020 prima che si approvasse la legge di bilancio 2021, ho scritto: anatema a chi propone di introdurre imposte patrimoniali magari solo razionalizzando quelle già esistenti. Il riferimento era alla proposta degli On. Fratoianni e Orfini che avevano presentato un emendamento per introdurre una imposta patrimoniale ordinaria nel nostro sistema tributario. Come avevo detto ripetutamente negli anni scorsi in Italia non ci sono le condizioni politiche per fare una riforma fiscale di ampio respiro a causa della rigida polarizzazione delle posizioni delle forze politiche che dovrebbero approvarla. Il Centro-destra è più o meno compatto sulla linea di una riduzione generalizzata delle imposte che è ritenuta l’unica misura adatta anche a rilanciare la crescita economica omettendo ogni altra considerazione relativa al macigno del debito pubblico, alla riduzione delle diseguaglianze, alla necessità di aumentare la spesa pubblica per la sanità, l’istruzione, la lotta alla povertà, alla politica per la piena e buona occupazione. Il Centro-sinistra e/o le forze politiche che si collocano in quell’area dello schieramento parlamentare è diviso tra quanti vorrebbero una riforma che perequasse la distribuzione degli oneri tributari e quanti puntano ad una redistribuzione più spinta utilizzando la spesa pubblica anche in deficit.
Il governo Draghi che fin dal suo insediamento aveva puntato ad una delega per la riforma richiesta anche dalla Commissione europea come strumento necessario per l’attuazione del Piano nazionale di rilancio e resilienza, sta incontrando crescenti difficoltà a concordare una legge delega di riforma persino minimale – altro che di ampio respiro – e abbiamo visto che la recente ventilata introduzione dell’argomento di un aggiornamento del catasto ha subito incontrato la becera opposizione del capo della Lega Salvini. Ha detto che revisionare il catasto significherebbe fare aumentare la base imponibile del catasto sarebbe equivalente all’introduzione surrettizia di una patrimoniale. È vero che in fatto l’aumento del gettito di una vecchia imposta è equivalente ad una nuova imposta. Ma la revisione del catasto si impone anche per perequare la distribuzione del gettito di una o delle vecchie imposte che gravano su fabbricati e terreni che vedono forti squilibri tra immobili localizzati nei centri cittadini e quelli nuovi delle periferie urbane.
Visto che siamo in tema di equivalenze dobbiamo premettere che di queste se ne possono vedere tante: tra imposta patrimoniale ordinaria (annuale e ricorrente) e quella straordinaria (una tantum); tra imposte ordinarie patrimoniali prelevate in percentuale del valore capitale del bene e imposte ordinarie sui corrispondenti redditi di natura patrimoniale; tra imposte sul reddito definito come base imponibile onnicomprensiva che include anche il reddito derivante da cespiti patrimoniali e imposte che tassano questi ultimi separatamente. Ma quello che conta in buona sostanza è la determinazione della capacità contributiva a cui commisurare l’imposta che il cittadino deve pagare. Come noto a chi ha studiato un po’ di storia del pensiero economico e nozioni introduttive di scienza delle finanze, gli economisti classici distinguevano bene tra redditi fondati – che avevano sotto cespiti patrimoniali – e redditi prodotti dal solo sforzo lavorativo diretto. Questi ultimi dovevano essere trattati più favorevolmente perché avevano maggiore necessità di risparmio per provvedere ai bisogni quando i titolari si ritiravano dall’attività lavorativa. Anche se con l’affermazione dei sistemi avanzati di welfare nei paesi europei la funzione previdenziale e assistenziale è pubblica allora diventa rilevante guardare alle modalità di finanziamento del welfare. Se il finanziamento resta totalmente o quasi a carico dei lavoratori e delle imprese aumenta il costo del lavoro e questo può costituire un limite all’aumento dell’occupazione. Studi fatti da economisti di vario orientamento politico confermano che i tartassati sono nell’ordine: pensionati, lavoratori dipendenti e alcune categorie di lavoratori autonomi. Questi contribuenti sono sottoposti a progressività; gli altri pagano per lo più imposte proporzionali.
Ora sappiamo che un’applicazione rigorosa del principio di progressività deve tener conto della diversa capacità contributiva di soggetti che oltre ad alti redditi godono di cospicui patrimoni mobiliari ed immobiliari. Questo fondamentale principio di giustizia fiscale sfugge a quanti sconsideratamente propongono imposte ad aliquota costante (Flat Tax). Queste ultime coniugate con deduzioni dalla base imponibile e detrazioni dall’imposta lorda dovuta (crediti di imposta) limitano la progressività ai redditi medio-bassi. Al di sopra di certi livelli, i redditi pagano imposte sostanzialmente proporzionali. Un tale esito viola drasticamente il principio della progressività di cui all’art. 53 della Costituzione. Ci si può chiedere perché le forze politiche neoliberiste e populiste insistono nel proporre simili ricette di politica tributaria e fiscale. Secondo me, in parte detta posizione discende dalle loro scarse conoscenze della materia finanziaria e in parte perché pur di conquistare il potere si alleano con i padroni del vapore (Ernesto Rossi) così tradendo gli interessi del popolo.
Nel post del 2 dicembre 2020 ho scritto di anatema o scomunica di coloro che propongono imposte patrimoniali di qualsiasi tipo. Nel post citato ricordavo due precedenti storici molto significativi: 1) il progetto Meda del 1919 che portava all’adozione di una imposta straordinaria con rateazione decennale (RDL 24-11-1919, n. 2169); 2) il secondo precedente è del 1939 – inizio della II guerra mondiale – che istituiva una imposta ordinaria allo scopo di attuare la discriminazione qualitativa del reddito – poi abrogata o riscattata nel 1947. Ovviamente il dibattito sulle imposte patrimoniali risale alla notte dei tempi. Nell’antico Egitto le imposte sui redditi prodotti della terra venivano accertati sulla base di presunzioni fondate sulle piene più o meno alte del Nilo misurate dall’apposito nilometro ancora visibile. Ovviamente niente di nuovo sotto il sole perché il dibattito sulle imposte di successione si può far risalire alle posizioni contrapposte di Platone e Aristotele e alle loro visioni della società e della democrazia. Il primo nella Repubblica auspicava la socializzazione delle eredità in coerenza con la sua idea di socializzare la paternità. I genitori secondo Platone non dovevano sapere quali erano i loro figli. Tutti hanno diritto ai prodotti della terra, l’unico limite è dettato dalla diversità dei bisogni. E poiché ogni bisogno e ogni diritto cessano con la fine dell’esistenza, non debbono esservi atti di ultima volontà né successioni legittime, sull’esempio di Sparta, «la meglio ordinata società». Così, senza interventi violenti, si può «ridurre a giustizia» il sistema di proprietà ed eliminare fonti di oppressione incompatibili con la democrazia. Aristotele nella Politica contestava tale idea perché temeva l’indifferenza generalizzata dei genitori se i figli dovevano essere considerati come di tutti.
Più recentemente ho trovato riferimenti molto attuali in Vincenzo Russo martire della rivoluzione napoletana del 1799. A scanso di equivoci preciso che si tratta di omonimia e di un intellettuale che insieme a Vincenzo Cuoco ed altri sull’onda della spinta originata dalla Rivoluzione francese propugnavano analoga rivoluzione in Italia. Cito dalla sintesi della sua opera principale operata da Anna Maria Rao per il Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 89 (2017). A partire dal XIV capitolo dei Pensieri Politici (prima edizione Roma, agosto 1798), Russo esamina punto per punto le condizioni dell’uomo in società: libertà, eguaglianza, sicurezza, proprietà, tributi, commercio, agricoltura. La libertà sociale, non diversamente da quella individuale, è il calcolo di ciò che è meglio per l’uomo, conformemente alla legge. La libertà è conformità alla legge, non solo esterna ma interna. Solo un popolo di cittadini morali può essere interamente libero, senza costumi non vi è libertà e per questo è necessaria l’istruzione. L’eguaglianza intesa come parità individuale in natura non esiste: l’esistenza è uguale in tutti, ma i bisogni sono diversi. L’eguaglianza è indipendenza e possibilità per tutti di accedere agli impieghi politici, in base al merito. Cause di disuguaglianza sono le successioni ereditarie e la mancanza di istruzione. La sicurezza risiede nella impossibilità di ciascun membro della società di fare un uso illegittimo delle sue forze. Ma la «maggioranza del popolo che si muove non è mai una sedizione antipopolare» (p. 291). https://www.treccani.it/enciclopedia/vincenzo-russo_(Dizionario-Biografico)/
È un fatto storico che con la grande restaurazione successiva alla Rivoluzione francese ed il fallimento dei moti rivoluzionari del 1848, tutto il costituzionalismo moderno è tornato a sacralizzare la liberà individuale dei più forti anche a scapito di quella dei più deboli e il diritto della proprietà privata. Il diritto al lavoro di cui all’art. 1 e la funzione sociale della proprietà privata di cui all’art. 42 comma 2 sono rimasti disattesi – totalmente il primo ed in gran parte la seconda.
Venendo a teorizzazioni più recenti e ragionando sul principio di capacità contributiva è chiaro che nel rispetto dei principi di equità orizzontale e verticale bisogna tassare la maggiore capacità contributiva che risulta da donazioni e quote ereditarie e, al limite, dalle manne che cadono dal cielo. Successioni e donazioni sono viste come equivalente o alternativa ad una imposta annuale sul patrimonio netto; il problema dell’imposta di successione va visto come uno strumento che risponde all’esigenza di chiudere il sistema dell’imposizione sul reddito; se si abroga l’imposta di successione bisognerebbe includere l’eredità nella base imponibile ai fini Irpef, ma questo comporterebbe inasprimenti forti delle aliquote dell’imposta personale; va vista come uno strumento per incoraggiare i trasferimenti vita naturale durante e questo comporta però che pur dovendo integrare e coordinare l’imposta sulle successioni con quella sulle donazioni le aliquote di quest’ultima dovrebbero essere più basse. Secondo molti economisti non è vero che l’imposta di successione non disincentivi il risparmio; la gente comune risparmia anche perché vuole lasciare ai propri eredi un certo patrimonio. Vedi al riguardo Pedone (1971: 139) il quale afferma che “si può ritenere, in linea di principio, che una delle forme di prelievo tributario che possono contribuire maggiormente a ridurre la diseguaglianza senza danneggiare molto l’”efficienza del sistema” (cioè senza ridurre gli incentivi a produrre e ad accumulare) sia l’imposta sulle successioni”. Su questo punto e sugli effetti delle imposte di successione sul processo di accumulazione e concentrazione della ricchezza vedi Russo 2002.
In conclusione di queste brevi e sommarie spigolatore storiche su questioni che vengono dibattute da circa tre mila anni mettono in risalto la povertà e lo squallore culturale di certi politici italiani che ignorano queste tematiche, mentono spudoratamente ed ingannano i propri elettori.
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Pedone Antonio (1971), “Limiti dell’azione redistributiva affidata a correttivi di natura tributaria”, nel volume a cura di i Bruno De Finetti “Requisiti per un sistema economico accettabile in relazione alle esigenze della collettività”, Atti del Convegno Cime di economia matematica, Urbino 20-25 settembre 1971, Franco Angeli Editore Milano, 1973, p. 133-148;
V. Russo, “De Profundis per l’imposta di successione”, in Rivista dei Tributi Locali, n.1/2002, pp. 33-51.
Enzorus2020@gmail.com

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