Perché il Presidente della Repubblica ha revocato l’incarico al prof. Conte?
Il Presidente della Repubblica ha agito così perché doveva salvaguardare le sue prerogative (il ruolo di garanzia) e i risparmi degli italiani. Il secondo obiettivo è stato confermato dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ieri 29 maggio nelle sue Considerazioni finali alla relazione della Banca d’Italia. C’è del vero e del falso nell’affermazione del Presidente della Repubblica. C’è del vero perché una eventuale improbabile uscita dall’Italia provocherebbe danni a tutti non solo alle famiglie più ricche che magari investono solo in attività finanziarie che alimentano la classe dei possessori di rendite (rentiers) ma anche agli italiani che non riescono a risparmiare alcunché vuoi perché sono disoccupati, inattivi o perché guadagnano redditi talmente bassi che non consentono loro di risparmiare o di curarsi. Per questi ultimi la crisi ridurrebbe le risorse che potrebbero essere spese per creare nuovi posti di lavoro.
L’argomento è che la fuga di capitali nazionali e le vendite di titoli pubblici da parte di investitori esteri provocherebbe – come sta provocando in questi giorni – un aumento dello spread e/o differenziale dei rendimenti sui BTP rispetto al bund tedesco in prospettiva con forte aumento del costo del servizio del debito pubblico. La scelta del Presidente Mattarella sarebbe stata motivata da scritti del prof. Savona circa una eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica. In tale ipotesi, l’Italia resterebbe senza lo scudo europeo del meccanismo salva Stati. Il paese rischierebbe di rimettere in moto la spirale inflazionistica con aumenti dei prezzi, tentativi di recuperi salariali e svalutazioni competitive che caratterizzarono la situazione italiana degli anni settanta dopo il crollo (1971) del sistema di cambi fissi definito a Bretton Woods (New Hampshire) nel 1944. L’abbandono di detto sistema per iniziativa USA ci portò ad un aspro conflitto distributivo non solo interno ma anche internazionale vedi i due shock petroliferi del 1973 e 1979 e l’aumento dei prezzi di altre importanti materie prime. Lo ripeto fuori dall’euro, la nuova lira potrebbe contare solo sull’assistenza del FMI e sappiamo come questa organizzazione si comportò nel 1963-64 e nel 1974. Nella seconda crisi avevano usufruito di tutte le forme di assistenza del FMI e della Commissione europea e fummo costretti a chiedere un prestito di due miliardi di dollari alla Germania che a garanzia chiese l’equivalente in oro. In un contesto – ora come allora- in cui la stessa classe dirigente italiana e i grandi risparmiatori italiani non hanno fiducia nel futuro del Paese. In un contesto ancora diverso rispetto a quello degli anni ’70 perché oggi c’è l’intreccio diabolico (diabolic loop) tra un sistema bancario debole, burocratizzato con 350-400 miliardi di titoli del debito pubblico nei loro portafogli e con centinaia di miliardi di sofferenze. Con riguardo a questo aspetto Il governatore della Banca d’Italia Visco ci ha ricordato che le banche italiane hanno ridotto i titoli dello stato e le sofferenze ma la media di queste ultime è tuttora doppia rispetto a quella degli altri paesi europei. Anche le perdite dei titoli bancari in questi giorni di forte tensione in borsa sono doppie rispetto a quelle dell’indice generale. E sappiamo che i famigerati mercati sono animati anche da speculatori che stanno in agguato e aggrediscono con speculazioni al ribasso o al rialzo quelli che con elementi di debolezza nei loro sistemi economici finanziari si affacciano nei mercati. Giustamente nei giorni scorsi il Presidente di Confindustria ha sottolineato che una economia forte ha bisogno di una politica forte e viceversa. L’Italia ha un debito pubblico molto alto (il terzo a livello mondiale) ed un terzo di esso è nelle mani di investitori esteri. Si possono biasimare quanto si vuole gli speculatori (i raider) ma è chiaro che nel momento in cui gli investitori esteri cominciano a dubitare della credibilità del governo di un paese e della sua capacità di onorare il debito cominciano a vendere i titoli che avevano acquistato precedentemente e mettono in moto un meccanismo perverso secondo cui, prima o poi, il governo avrà difficoltà a piazzare nuovi titoli nel mercato secondario o sarà costretto a pagare interessi alti ed insostenibili. E il solo rinnovo dei titoli esistenti comporta operazioni di rinnovo per circa 400 miliardi euro all’anno.
La sola vendita affrettata dei titoli da parte degli investitori esteri comporta una svalutazione del valore nominale degli stessi e ridurrebbe anche il valore delle attività finanziarie delle banche e la necessità di ricapitalizzarle in condizioni molto difficili, in casi gravi, con interventi diretti da parte dell’operatore pubblico.
Non c’è dubbio che rispetto alla crisi italiana degli anni 2011-12 e a quella greca degli anni successivi, l’Eurozona oggi sia più dotata di regole e strumenti di assistenza per fronteggiare la crisi come il Fondo salva Stati e il meccanismo di risoluzione ma è chiaro che ciò richiede la cooperazione più fattiva tra le autorità comunitarie e quelle dei paesi interessati dalla crisi. È chiaro che se questi progettano più o meno surrettiziamente l’uscita dal sistema della moneta unica e se il paese che lo pensa è la terza economia dell’Unione verrebbe meno la necessaria fiducia per una cooperazione costruttiva a difesa degli interessi comuni. È vero che l’economia italiana è troppo grande e fortemente interdipendente con quella tedesca, francese ecc. e che gli altri partner non hanno alcun serio motivo per spingerla al fallimento o ad uscire dalla moneta unica ma se lo chiedesse sul serio lo stesso governo italiano, prima o poi, gli altri paesi sarebbero costretti a prenderne atto come è avvenuto con l’Inghilterra che non esce dall’eurozona perché non ne faceva parte ma dall’Unione e dal mercato unico e ora cerca disperatamente accordi c.d. di libero scambio.
Per concludere questa breve analisi, è vero che nel Contratto di governo stipulato da Di Maio e Salvini non c’è scritto in nessun modo che la maggioranza di governo avrebbe chiesto l’uscita dal sistema della moneta unica ma ha scritto – secondo me erroneamente – che vuole ridiscutere i Trattati dell’Unione (p. 17) e che vogliono “salvaguardare la sovranità alimentare” (p. 9) – non quella monetaria. Che poi improvvidamente abbiano insistito per fare nominare Paolo Savona ministro dell’economia e delle finanze, secondo me, si è trattato di decisione inopportuna e frutto di inesperienza o di un disegno non proprio oscuro di Salvini. Se questo è vero, è chiaro che ha sbagliato anche il Presidente della Repubblica facendo il processo ad intenzioni non manifeste e, comunque, non scritte nel contratto.
Per quanto mi riguarda la riforma dei Trattati è strettamente necessaria per superare il deficit democratico della governance politica ed economica dell’Unione ma Di Maio e Salvini forse non sanno che, in questa congiuntura politica, non è questione all’ordine del giorno. Non la chiedono i grandi partiti europei e, paradossalmente, neanche il Parlamento europeo che avrebbe tutto da guadagnare. Per la verità il PE ha analizzato parzialmente la problematica in tre Rapporti ma poi li chiusi nei cassetti. Vedremo nelle prossime elezione europee se la questione verrà dibattuta come merita. Tutti i documenti degli organi esecutivi mirati a rafforzare la governance economica, a completare l’Unione bancaria e dei mercati dei capitali, a rafforzare gli strumenti di stabilizzazione non solo finanziaria ma anche macro-economica, a riformare il Patto di stabilità e crescita 2011 partono dalla premessa – da me non condivisa – che i Trattati non si modificano anche perché se si condizionasse il perseguimento di detti obiettivi alla riforma dei Trattati tutto si sposterebbe in avanti almeno di cinque anni. E tutti sanno che ci sono problemi che vanno risolti prima possibile.