,

Le “nuove” illusioni fiscali.

Il governo giallo-verde di Di Maio e Salvini, stando agli annunci, proporrà a Ottobre una riedizione di quello che già c’è: un regime di condono permanente a suo tempo istituito da Giulio Tremonti. La pace fiscale rimodulerebbe il sistema dei ravvedimenti operosi, degli accertamenti con adesione, delle conciliazioni giudiziali, delle rottamazioni delle cartelle esattoriali sempre con grandi sconti su sanzioni e pene pecuniarie e, non ultimo, con saldi massimi per le rottamazioni. La prima osservazione è che detta scelta non innova su niente, percorre le solite vecchie strade; le scelte dell’attuale governo, sedicente del cambiamento, sono in perfetta continuità con quelle del passato; semmai sono tecnicamente peggiori. I nuovi arrivati, in preda a delirio di onnipotenza, non si rendono conto degli effetti devastanti che le loro scelte avranno sulla propensione ad adempiere ai doveri tributari da parte degli italiani ancora liberi di scegliere. La seconda osservazione che viene spontanea riguarda la tecnica di comunicazione per cui non si parla di condoni e amnistie ma di “pace fiscale”: ma c’è stata mai in questo paese una guerra seriamente combattuta nei confronti degli evasori? Non mi risulta e se quando qualche governo l’ha minacciata o ha orchestrato qualche scaramuccia, poi l’ha persa come dimostrano le statistiche pubbliche e private degli ultimi 50 anni: evasione stimata sempre attorno al 7-8% del PIL. Nella logica dell’occupazione dei posti di potere più rilevanti da parte dei vincitori delle elezioni (spoils system ) nei giorni scorsi è arrivata una grande novità: un Generale della Guardia di finanza è stato nominato direttore dell’Agenzia delle entrate. Qualcuno ingenuamente potrebbe pensare che i suddetti esponenti del governo vogliano fare sul serio la guerra agli evasori nostrani. Invece no. Si tratta dell’ennesimo inganno che i governi di questo Paese hanno sempre perpetrato a favore delle classi dominanti e dei rentiers. Se uno prende sul serio il programma del governo come annunciato fin qui: flat rate tax fasulla ora meglio rinominata come riforma dell’Irpef con soli tre scaglioni di reddito di cui due accorpano i precedenti quattro con aliquote medie effettive presumibilmente più basse e uno sopra i 75 mila euro con aliquota ferma al 43%, con eventuale tassazione del nucleo familiare con il sistema francese del quoziente familiare in materia di imposte dirette; ampliamento o quasi raddoppio dei regimi forfettari ai fini dell’imposta sul valore aggiunto; taglio e/o riduzione delle accise (imposte di fabbricazione) su alcuni prodotti in materia di imposte indirette; ma soprattutto, in materia di controlli fiscali : non abrogazione degli studi di settore ma loro trasformazione in indici sintetici di fedeltà fiscale, abrogazione del redditometro, dello spesometro, e di altri consimili strumenti di accertamento sintetico, allora non riesco a vedere come persino un generale posto a capo di uno sparuto esercito in pratica disarmato possa condurre sul serio una guerra all’agguerrita massa di evasori. A qualcuno che ha già fatto notare questa incongruenza un esponente di secondo piano del governo giallo-verde ha precisato che il Generale Antonino Maggiore farà la guerra soprattutto ai grandi evasori. Anche questo è un altro grande inganno perché i grandi evasori sono pochi e molto agguerriti e si avvalgono sistematicamente delle scappatoie che il contesto planetario e quello europeo di concorrenza fiscale offre, mentre in Italia abbiamo 4,3 milioni di piccole e medie imprese e 4,7 milioni di lavoratori autonomi che contribuiscono non poco ai 130 miliardi di evasione stimata.
Enzorus2020@gmail.com

Il peso crescente delle diseguaglianze.

“Le diseguaglianze stanno assumendo un peso crescente anche nell’attuale fase di ripresa. Sono dunque un grande tema economico, ma soprattutto riguardano in negativo la condizione di milioni di persone. Tutto questo è fonte di paure, risentimenti, rabbia sociale”. Un groviglio di pulsioni che occorre combattere e ricondurre ad azione politica e sindacale, ha spiegato Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio, presentando il convegno che si è tenuto il 19 giugno a Roma nella sede della CGIL.
Conviene tornare a riflettere su un punto tanto delicato quanto attuale trattato da tutti i relatori. Si è parlato di un nuovo modello redistributivo. Sicuramente per il medio e lungo termine servono nuove idee al riguardo. Basti pensare alla robotizzazione e/o digitalizzazione dell’economia e alla proposta di tassare i robot avanzata da Bill Gates, per capire che stiamo parlando di un problema strategico importante. Se un giorno la forza direttamente impegnata nella produzione dovesse essere costituita prevalentemente da robot, è chiaro che in prospettiva bisognerà rivedere dalle fondamenta i presupposti dei diritti di proprietà non solo di beni materiali ma anche e soprattutto di quelli immateriali, della produzione e distribuzione del reddito, della tassazione e della distribuzione della ricchezza.
Ma ancora per il futuro prevedibile siamo lontani da una tale prospettiva. E quindi oggi valgono ancora le regole più aggiornate della contrattazione salariale e le classiche funzioni del bilancio dello Stato. Sappiamo che i Sindacati e/o le parti sociali – benché indeboliti dalla crisi economica e finanziaria del 2008-13 -, nei regimi liberal democratici, controllano o dovrebbero controllare meglio la distribuzione primaria quella discendente dalla contrattazione. Vale ancora il modello classico di Musgrave (1939 e 1959) secondo cui è fondamentale la distribuzione primaria e l’intervento dell’operatore pubblico deve intervenire non solo per la produzione e/o fornitura di beni pubblici ai vari livelli di governo – beni pubblici che i privati non possono offrire – ma anche per correggere la distribuzione primaria ove quest’ultima risulti socialmente inaccettabile.
Gli effetti della crisi sono stati devastanti: in sintesi i poveri sono diventati più poveri e i ricchi sempre più ricchi. L’area del disagio sociale in Italia interessa 4,6 milioni di persone (Fammoni); nella UE 76 milioni di adulti sono a rischio povertà vedi il Rapporto “living and working nella UE, p.9; le cinquemila famiglie italiane più ricche hanno aumentato il loro controllo della ricchezza dal 2 al 10% (Enrico Giovannini). Il governo Renzi è intervenuto maldestramente a favore delle famiglie della classe media coniugi lavoratori con redditi sino a 50 mila euro – una cifra pari al doppio circa del reddito medio pro-capite – che lasciava i poveri al loro destino – arrivando al reddito di inclusione solo successivamente e con risorse minime.
Nel 2014 – anno nel quale l’economia italiana accennava ad uscire dalla crisi – le persone residenti in Italia a rischio povertà o esclusione sociale secondo l’Istat raggiungevano il 28,3% secondo la definizione adottata nell’ambito della strategia Europa 2020 – ossia di persone che soffrivano un alto rischio di povertà (in relazione ai redditi 2013), grave deprivazione materiale e bassa intensità di lavoro. Non possiamo dire che oggi la situazione sia radicalmente cambiata nonostante la debole ripresa economica di questi ultimi anni.
La spiegazione? È semplice: gli italiani non condividono nessuna teoria della giustizia sociale e, meno che mai, di quella tributaria che ne è parte fondamentale. Prevale l’approccio: ognuno per se e Dio con tutti. Nonostante che molti politici si riempiano la bocca della parola solidarietà l’Italia resta un paese a bassa coesione sociale e, se penso alle proposte dell’attuale governo in materia fiscale e di lotta all’evasione da parte dei partiti che hanno firmato il contratto di governo non vedo alcuna prospettiva per un miglioramento della situazione. Difficile parlare di Giustizia intergenerazionale se non si ha una corretta percezione dei temi della giustizia sociale per le generazioni correnti.
È così che si spiegano le proposte in materia fiscale contenute nel c.d. contratto di governo Lega-M5S. È chiaro che se malauguratamente dovessero essere adottate si causerebbe una ulteriore devastazione del sistema tributario incompatibile con ogni elementare criterio di giustizia sociale. Infatti il governo propone una c.d. flat tax che in realtà non è tale perché ha due aliquote ma provocherebbe una perdita di gettito di circa 50 miliardi , ossia, uno sgravio di imposta a favore delle famiglie con i redditi più alti; propone inoltre l’abrogazione del redditometro, dello spesometro, degli accertamenti sintetici e degli studi di settore; in altre parole, propone il disarmo totale dell’agenzia delle entrate; propone la pace fiscale al posto della lotta all’evasione fiscale con due strumenti: a) la trasformazione degli studi di settore in indici di affidabilità fiscale che renderebbe legale l’evasione fiscale e b) la rottamazione delle rimanenti cartelle esattoriali al di sotto dei 100 mila euro che premia comunque gli evasori.
Ormai lo sanno anche alcuni esponenti di rilievo dei M5S meno disinvolti: detta rottamazione non è e non può essere una pace o un armistizio. Per essere tale si dovrebbe partire da uno stato di belligeranza. Ma la belligeranza è quella degli evasori contro lo Stato e la collettività. E se si considera che anche i Pentastellati vogliono togliere all’AdE gli strumenti più incisivi per fare la lotta agli evasori, per lo Stato si tratta di una resa senza condizioni. E’ utile ripetere che si tratta di un condono bello e buono e che come tutti i condoni, al solo ripeterne l’annuncio, producono devastanti effetti diseducativi ed economici perché inducono gli evasori a rinviare la scelta in attesa di altri condoni con maggiori sconti e, quindi, riducono anche il gettito che il governo pensa di realizzare. Dire che con i condoni e/o la pace fiscale si possa realizzare il gettito necessario per finanziare il reddito di cittadinanza è semplicemente illusorio come ampiamente infondata è la tesi secondo cui basta ridurre le tasse perché l’economia vada a gonfie vele.
Con la flat tax anche per le imprese e l’allargamento dei regimi forfettari dei c.d. contribuenti minimi il governo Lega-M5S sta imboccando la strada della concorrenza fiscale deleteria che imperversa nell’Unione europea. Una strategia dannosa a suo tempo adottata per abbattere il welfare state. E tutto questo mentre un gruppo di lavoro della Commissione affari economici e monetari del PE ha avanzato una bozza di risoluzione per porre fine o, quanto meno, arginare la concorrenza fiscale e il ritorno all’armonizzazione dei sistemi tributari dei paesi membri dell’Unione. Non che una tale risoluzione, anche se adottata, abbia grandi probabilità di essere implementata ma è sempre più evidente che il governo Lega-M5S va nella direzione dello sbraco fiscale in piena continuità con il governo Renzi. E’ questo il governo del cambiamento? Si ma del cambiamento in peggio. Tornando al discorso sul nuovo modello redistributivo che è stato invocato nel convegno di cui sopra è chiaro che c’è poco da sperare.

Enzorus2020@gmail.com

Populisti della peggiore risma o liberi servi?

Il capitolo 11 del programma di governo concordato da Di Maio e Salvini prevede in premessa la sterilizzazione dell’aumento automatico dell’IVA nel caso il deficit superi i limiti concordati con la Commissione europea e il riassetto delle accise. La proposta a prima vista ragionevole perché vaga appare campata in aria se uno considera il fabbisogno di risorse addizionali che emerge, da un lato, dalla proposta del reddito di cittadinanza e, dall’altro, dalla riduzione del gettito che deriverebbe dalla introduzione della presunta flat tax che nelle stime più prudenti farebbe venire meno 50 miliardi di entrate. Se questi calcoli sono corretti è chiaro che il gettito dovrebbe essere recuperato dalle principali imposte indirette (IVA e Accise) secondo una linea strategica a suo tempo enunciata da Giulio Tremonti: dalla tassazione del reddito delle persone fisiche alla tassazione dei consumi delle cose.
Il titolo del capitolo è flat tax e semplificazione. Intanto bisogna precisare che la corretta definizione in inglese è flat rate tax, in italiano, imposta ad aliquota nominale costante e se è costante significa che non cambia, cioè, è unica. Se invece si prevedono due aliquote significa che non siamo più in presenza di una imposta ad aliquota costante. Bisogna inoltre precisare che anche in presenza di quest’ultima, l’aliquota media effettiva varia in relazione alle deduzioni e detrazioni che spettano al singolo contribuente e/o unità impositiva – nel nostro caso il documento propone la tassazione del nucleo familiare. Va ancora precisato inoltre che l’imposta ad aliquota costante (d’ora in poi: IAC) in termini di effettivo prelievo non è una imposta proporzionale perché quello che si versa all’Erario dipende non solo dall’aliquota ma anche dalla definizione della base imponibile e dal gioco delle deduzioni e detrazioni. E’ un’imposta progressiva e, definendo la progressività nei termini più semplici, si ha progressività quando l’aliquota media effettiva aumenta all’aumentare del reddito prodotto. Si dimostra che con aliquota nominale costante nei primi scaglioni di reddito l’aliquota media effettiva aumenta all’aumentare del reddito ma poi, dopo i primi 3-4 scaglioni di reddito (più o meno ampi), anche l’aliquota media effettiva diventa in buona sostanza proporzionale perché l’insieme delle deduzioni, detrazioni ed eventuali trasferimenti integrativi incidono sempre meno. In questi termini, se la IAC prevede la progressività solo per gli scaglioni e/o fasce di reddito più bassi e sostanziale proporzionalità per quelli più alti, una simile imposta in linea di principio si pone in contrasto con l’art. 53 comma 2 della costituzione il quale esplicitamente prevede: “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ma non è della questione di costituzionalità della IAC che voglio occuparmi in questa breve nota.
Sto cercando di capire perché due partiti populisti come il Movimento 5 Stelle e la Lega che, al di là dell’ambiguità del termine populista, non sembrano essere espressione immediata dei poteri dominanti e/o delle classi sociali più ricche. Ma proprio per questo motivo appare singolare e non convincente la loro proposta di introdurre una imposta a due aliquote nel nostro sistema tributario e non convincono i motivi che adducono a giustificazione della loro scelta. Infatti a p. 20 del c.d. contratto di governo sostengono che “la finalità è quella di non arrecare alcun svantaggio alle classi a basso reddito, per le quali resta confermato il principio della “no tax area”, nonché in generale di non arrecare alcun trattamento fiscale penalizzante rispetto all’attuale regime fiscale. Una maggiore equità fiscale, dunque, a favore di tutti i contribuenti: famiglie e imprese”. Come se quelli che rientrano nella fascia di esenzione fossero tutti benestanti. Tradotto: le famiglie con i redditi più bassi restano nella situazione attuale, ossia, niente penalizzazioni e vantaggi perché stanno bene come stanno. Molti sono abituati a soffrire e dovranno continuare a soffrire. I proponenti non spiegano come – con dette operazioni – ne risulterebbe nell’insieme una maggiore equità fiscale. Quest’ultima risulta davvero improbabile perché se tagli le imposte dirette sulle persone fisiche e giuridiche e non vuoi tagliare il welfare sarai costretto ad aumentare le imposte indirette come detto sopra. Ma sia che aumenti le imposte indirette sia che riduci il welfare non v’è dubbio  che la regressività del sistema fiscale aumenta. Non senza menzionare che una imposta a due aliquote produrrà inevitabilmente un salto di imposta nel passaggio dalla prima alla seconda e che se volessero evitarlo dovranno introdurre un marchingegno alquanto complicato con buona pace della semplificazione. Non senza menzionare la stranezza dell’accostamento tra il trattamento delle famiglie e quello delle imprese che non può valere per tutte le imprese.
Storicamente la IAC è stata proposta in paesi dove la propensione al risparmio è bassa e, più recentemente, nei paesi dell’Est europeo in transizione dal regime di stampo sovietico a quello liberal democratico di stampo occidentale, ma l’Italia è in fatto un paese ad alta propensione al risparmio e ad alta concentrazione della ricchezza finanziaria oltre che immobiliare. Il problema più grave del sistema tributario italiano resta quello della lotta all’evasione e della perequazione secondo opportuni criteri di giustizia sociale e tributaria. Se poi penso che le altre misure fiscali proposte tendono a disarmare l’Agenzia delle entrate e a legittimare l’evasione fiscale, ritengo che i capi populisti dei due movimenti o non sanno di che cosa parlano o sono dei liberi servi.