Le tre imposte progressive più adatte a combattere le diseguaglianze

Thomas Piketty, Capitale e ideologia, traduzione di Lorenzo Matteoli e Andrea Terranova la nave di Teseo, 2020. Piketty definisce la sua un’analisi storica che sviluppa a livello mondiale o quasi per dimostrare che certe misure di politica economica e fiscale sono state adottate in tempi e luoghi diversi e, se non vengono adottate, non è per fatalità o impossibilità a farlo ma per precise scelte politiche spesso contrabbandate come scelte che non avevano o non hanno alternative (TINA: there is no alternative). Il focus della sua analisi è la lotta alle disuguaglianze cresciute enormemente negli ultimi 4 decenni – gli anni che hanno visto il trionfo dell’ideologia neoliberista. Gli assunti fondamentali di Piketty sono: “la disuguaglianza non è economica o tecnologica, è ideologica e politica”; le disuguaglianze non sono “naturali e necessarie”; dipendono dalle istituzioni; nel passato dipendevano dalle società ternarie articolate sul clero, l’aristocrazia e la plebe. Piketty si autodefinisce ottimista e afferma che anche le attuali istituzioni non sono le uniche possibili; possono cambiare e reinventarsi. Il riferimento va ai paesi europei dove le socialdemocrazie hanno costruito i sistemi di welfare più avanzati del mondo ma poi non hanno saputo innovare le loro piattaforme programmatiche per difenderli e/o adattarli alle nuove condizioni. In questo quadro annota che anche il postcomunismo nelle diverse varianti è diventato il miglior alleato dell’ipercapitalismo. Più in generale aggiungerei che, negli anni 80 del secolo scorso, la sinistra europea si è suicidata, accogliendo in gran parte i paradigmi neoliberisti, in alcuni casi, dilapidando con le privatizzazioni patrimoni pubblici di consistente valore. Come noto, il cuore del compromesso socialdemocratico prevedeva da un lato la rinuncia da parte della sinistra all’obiettivo del superamento del sistema capitalistico, dall’altro lato, il riconoscimento dei più ampi diritti civili e sociali per le classi lavoratrici. Piketty ci vede anche la delegittimazione della proprietà privata e della concorrenza di mercato.  Cita Hannah Arendt (1951) per evidenziare il limite dell’azione e della cultura dei partiti socialdemocratici che, in forza del compromesso socialdemocratico, hanno messo da parte i problemi del superamento del capitalismo e dello Stato-nazione (627). Hanno ritenuto di poter costruire lo Stato fiscale e welfaristico solo all’interno del paese-nazione. E così è stato anche perché erano falliti tutti i tentativi di costruire delle federazioni europee lanciati prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale.

Già da queste brevi e sommarie considerazioni si deduce che Piketty non è un marxista e lo dichiara apertamente. Si definisce gradualista e un socialista partecipativo ed individua la sua identità culturale nel progressismo anglosassone soprattutto degli economisti classici e nella eredità (heritage) della Rivoluzione francese.   Piketty (1093) definisce la società giusta che lui vuole: “quella che consente a tutti i suoi membri di avere l’accesso più ampio possibile ai beni di base: l’istruzione, la salute, il diritto di voto e, più in generale, la più completa partecipazione alle varie forme della vita sociale, culturale, economica, civile e politica.  La società giusta organizza i rapporti socioeconomici, la proprietà e la distribuzione dei redditi e dei patrimoni, allo scopo di permettere ai membri meno privilegiati di beneficiare delle condizioni di vita migliori possibili. Una società giusta non implica uniformità o uguaglianza assoluta. La disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni in una società può essere giusta solo nella misura in cui è il risultato di aspirazioni diverse e di distinte scelte esistenziali, e se permette al contempo di migliorare le condizioni di vita e di aumentare le opportunità dei soggetti più svantaggiati. Ma tale condizione deve essere dimostrata e non solo presunta, ed è un argomento che comunque non può essere impiegato per giustificare qualunque livello di diseguaglianza, come si fa anche troppo spesso”. Vedi assonanza con John Rawls grande filosofo liberal dell’economia e teorico della giustizia sociale e più diretta somiglianza con il socialismo liberale di Piero Gobetti e Carlo Rosselli.

Il programma più ampio si articola: a) possibile proprietà giusta; diritto di voto nelle imprese sociali; proprietà privata temporanea, a tempo e, quindi, sociale; imposte patrimoniali progressive per favorire la mobilità sociale e controllare la concentrazione della proprietà causa fondamentale delle disuguaglianze; dotazione universale di capitale per tutti i giovani.

Le imposte progressive sui redditi e sui patrimoni devono articolare un fisco giusto per una società giusta; il che presuppone una precisa teoria della giustizia sociale di cui buona parte può essere e deve essere assicurata dalla giustizia fiscale. Solo in questo modo si può operare quella ricostruzione della coalizione egualitaria che i partiti socialdemocratici non hanno saputo conservare ed innovare. Per costruire un sistema educativo giusto e un sistema tributario giusto serve la trasparenza piena ed il controllo sociale di tutti i cittadini. Non è solo utopia. Infatti a p. 1092 Piketty denuncia l’insufficiente competenza dei cittadini sulle questioni economiche e finanziarie ma si può migliorare. Data la forte interdipendenza dei sistemi economici non è possibile realizzare un sistema simile senza un contesto internazionale adeguatamente modificato e coordinato. Invoca una organizzazione mondiale dell’economia alternativa che chiama social federalista con forme nuove di solidarietà fiscale, sociale e ambientale che sostituisca o controlli l’attuale libera circolazione delle merci e dei capitali.

Presentare un volume di 1.176 pagine diviso in quattro parti con la storia millenaria della finanza pubblica in diversi paesi di diversi continenti, con ampie introduzioni e conclusioni, non è facile e, per questo motivo, qui mi limito a presentare le sue proposte fiscali sintetizzate nell’obiettivo di un fisco giusto all’interno della sua società giusta. In Europa i partiti socialdemocratici: 1) hanno sottovalutato la questione della giusta tassazione del reddito e della proprietà. Impropriamente, si è posta la questione della proprietà in termini di nazionalizzazioni e non di socializzazione – aggiungo io come proponevano Eugenio Rignano, Walter Rathenau prima e dopo la prima guerra mondiale e, negli anni trenta, Carlo Rosselli); 2) non hanno saputo promuovere un adeguato coordinamento a livello internazionale. Il riferimento va alla concorrenza fiscale che, secondo Piketty, è in flagrante contraddizione con l’idea stessa di giustizia fiscale – su cui concordo pienamente.

Alla fine Piketty propone tre imposte dirette personali e progressive: a) l’imposta personale e progressiva sui redditi ovviamente a base imponibile onnicomprensiva, cioè, inclusiva delle rendite fondiarie e finanziarie; b) un’imposta ordinaria progressiva personale sul patrimonio netto; c) un’imposta progressiva sulle successioni e sui trasferimenti inter vivos delle diverse forme di ricchezza materiale ed immateriale. 

In un contesto di capitalismo e finanza globali, se si vuole salvare il welfare, se si vuole promuovere la crescita bisogna agire,  da un lato, a livello globale per superare i problemi determinati da una liberalizzazione dei movimenti di capitali e delle merci voluta dagli USA e dalla UE “a prescindere da ogni obiettivo fiscale e sociale”, dall’altro lato, a livello nazionale, per superare la propalata ed infondata ipotesi della incompatibilità tra globalizzazione e welfare state. Imputa queste scelte all’impreparazione, incompetenza e improvvisazione dei protagonisti. Come osserva Dani Rodrik 2019, siamo in un contesto in cui la governance internazionale non consente di governare la libertà dei movimenti di capitale e la concorrenza fiscale e, quindi, resta importante il ruolo dei governi nazionali per promuovere una crescita equa e sostenibile solo che si vogliano e si sappiano superare gli ostacoli che vi si frappongono. 

 Con riguardo alle imposte personali sul reddito, Piketty osserva che nel secondo dopoguerra nei principali paesi industriali erano vigenti aliquote marginali tra il 27 e l’80% e sono rimaste in vigore sino a metà degli anni 70. Negli ultimi 40 anni, specialmente in seguito alla progressiva applicazione del regime di piena libertà dei movimenti dei capitali, in media suddette aliquote si sono abbassate in Europa al 42% – vedi l’attuale 43% della nostra Irpef.   Peraltro le alte aliquote delle imposte sul reddito avevano esercitato un freno agli stipendi alti dei manager specialmente dove ci sono forme di cogestione.

Sulle imposte patrimoniali si registra un dibattito incompiuto negli USA e in Europa. La concentrazione dei patrimoni e delle rendite finanziarie molto più elevata di quella dei redditi di lavoro dipendente e delle pensioni. Nel corso del XX secolo (in particolare tra il 1914 e il 1950) detta concentrazione si è considerevolmente abbassata per via delle due Guerre mondiali, le riforme agrarie, i regimi di equo canone, l’abbassamento dei valori patrimoniali e dei relativi rendimenti. (vedi pp. 490-92). La tesi di Piketty è che aliquote marginali elevate nell’ordine del 70-80% applicate con le imposte sul reddito e sulle successioni non si sarebbero potute applicare senza gli sconvolgimenti prodotti dalla I guerra mondiale e poi della II. Subivano un duro colpo le società proprietariste e si costruivano quelle socialdemocratiche. Emblematico il caso della Svezia dove la mobilitazione straordinaria, portata avanti tra il 1890 e il 1930, raggiungeva l’obiettivo del welfare state e del voto egualitario. Negli Stati Uniti, il democratico Bernie Sanders da tempo propone aliquote più alte per le imposte sui redditi e per i patrimoni più alti e limiti ai compensi per gli amministratori delle società.  La Sen. Elisabeth Warren propone anche una patrimoniale del 6% per i patrimoni al di sopra di un miliardo di dollari.   

Negli Ultimi 40 anni la concentrazione della ricchezza è fortemente aumentata. Come si alimenta la concentrazione dei patrimoni?  Come noto, nei principali paesi occidentali si è adottato il c.d. modello duale che sottopone a regimi sostitutivi di favore i redditi di capitale. L’85% del reddito guadagnato dagli americani che costituiscono il 90% della distribuzione è reddito di lavoro dipendente; a questi soggetti va solo il 15% dei redditi di capitale mentre i soggetti del top 1% ne ricevono il 50% in forma di redditi di capitale; e ancora il top 0,1% dei contribuenti la quota di redditi di capitale sale ai due terzi. (Saez-Zucman, 2019: 97).  I dati sono indirettamente confermati da una recente indagine della Federal Reserve secondo cui alla fine del I° trimestre 2020 l’1% degli americani più ricchi possiede il 51,8% – pari a 11.300 miliardi- delle azioni e delle quote dei fondi di investimento di tutti i titoli in possesso di cittadini americani. Il percentile tra il 90-99% possiede in valore assoluto 7.750 miliardi di dollari. Dall’altro lato della distribuzione il 50% dei più poveri ne possiedono solo 160 miliardi. Vittorio Carlini il Sole 24 Ore del 14-07-2020.

Come si confronta l’Europa con gli USA. Secondo Piketty il 10% degli europei più ricchi è passato dal 30% degli anni 80 a oltre il 35% del 2019 avvicinandosi ai paperoni americani. Le disuguaglianze aumentano a partire dagli anni 80 da quando sia in America che in Europa si è operato alacremente per abbassare le aliquote sia delle imposte sul reddito che di quelle sul patrimonio. N’è responsabile anche il c.d. Washington Consensus, cioè, la linea di politica tributaria portata avanti dal FMI e della Banca Mondiale sostenendo che si potevano tranquillamente abbassare suddette aliquote marginali elevate se, sul versante della spesa pubblica, l’operatore pubblico mirava a soddisfare i bisogni delle classi meno favorite. Non ultimo, un contributo alla crescita delle disuguaglianze è venuto anche dal declino della sindacalizzazione e del potere negoziale degli stessi sindacati come hanno rilevato due ricercatrici del FMI: Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron. In particolare in quei paesi che hanno ritenuto di preservare la competitività delle imprese esportatrici con politiche generalizzate di contenimento dei costi del lavoro, alias, con svalutazioni interne dei prezzi e dei salari.

Secondo Piketty, le imposte patrimoniali progressive sono necessarie perché consentono la circolazione del capitale e in questo consiste il vero superamento del capitalismo perché quello che si ottiene attraverso la proprietà sociale e il diritto di voto dei lavoratori all’interno delle aziende non è sufficiente. Accettato che la proprietà privata continuerà ad avere un ruolo nell’economia specialmente attraverso le piccole e medie imprese si deve modificare la regolazione del sistema economico e sociale in modo da evitare la concentrazione incontrollata della ricchezza e, quindi, controllare non solo la dinamica dei redditi ma anche quella dei patrimoni. A sostegno della sua tesi Piketty cita i dati dei primi anni del XX secolo e quelli del II dopoguerra che dimostrano una minore concentrazione della ricchezza ed una più rapida crescita economica. L’estrema disuguaglianza non favorisce la crescita ed il benessere collettivo; non è il prezzo da pagare per la prosperità e, meno che mai, per il c.d. sgocciolamento di cui parlano alcuni neoliberisti d’accatto. Come dire che i meno fortunati o meglio quelli poco protetti dal sistema si devono accontentare delle briciole che i ricchi lasciano cadere dai loro tavoli. Ovviamente si tratta di visione miope   perché la disuguaglianza contribuisce ad esacerbare il conflitto sociale, il nazionalismo, erode la coesione sociale e, alla fine, la stessa democrazia; sottrae risorse all’investimento nel sociale, nell’istruzione, nella sanità che deprime il reddito potenziale con danno per tutti.  Denuncia le privatizzazioni a sconto di cui hanno beneficiato solo i privati e le loro rendite finanziarie.   

Le imposte di successione e/o sui trasferimenti mortis causa ed inter vivos. Anche queste per Piketty sono strumenti fondamentali per controllare la dinamica patrimoniale in chiave ordinaria e straordinaria. Il loro ruolo diventa più chiaro se si tiene presente l’obbiettivo strategico della socializzazione della proprietà. Ci sono tre regimi che si concepiscono per la proprietà: pubblica, sociale, temporanea.   Un regime generale di proprietà pubblica sostituisce i proprietari privati con funzionari pubblici ai diversi livelli di governo;  nella proprietà sociale, i lavoratori e/o dipendenti dell’impresa partecipano alla gestione della stessa direttamente o indirettamente attraverso loro rappresentanti; nel terzo regime, ogni anno i proprietari devono restituire alla collettività una quota parte della proprietà acquisita per finanziare la dotazione universale di capitale da dare ad ogni giovane , per sostenere la circolazione della proprietà, per contenere la concentrazione della proprietà e del potere.  “Tutti i dati storici oggi disponibili – aggiunge Piketty: 564 – suggeriscono che queste tre forme di superamento della proprietà privata sono complementari tra di loro”.

In Italia, non abbiamo una imposta patrimoniale ordinaria personale e progressiva ma abbiamo una imposta di successione con quota esente abnorme (un milione di euro) reintrodotta dal Ministro Visco del governo Prodi-2 dopo che il governo Berlusconi l’aveva abrogata.  Lo Stato incassa 759 milioni all’anno (vedi RGS bilancio semplificato 2020-22) una somma risibile verosimilmente pagata da quanti non sanno o non vogliono avvalersi delle scappatoie legali lasciate aperte da legislatori colpevoli. Abbiamo l’imposta di registro e altre imposte sulle seconde case che complessivamente assicurano allo Stato e agli enti sub-centrali   40-45 miliardi di gettito – Tari inclusa che ha un profilo marcatamente regressivo e sempre che la si voglia considerare un’imposta patrimoniale vedi Messina-Savegnago-Sechi. Ma quel che conta è che dette imposte non moderano il flusso di risorse che alimentano le rendite finanziarie e consentono alla maggioranza degli italiani in età di lavoro di vivere di rendita immobiliare e mobiliare. In Italia il 10% più ricco della popolazione nel 1995 controllava circa il 50% della ricchezza, nel 2016 più del 60% – vedi Luca Ricolfi e il sito web ForumDD dove trovare moltissimi studi e dati sulle disuguaglianze in Italia.

Allo stato, non si può mettere in atto alcun coordinamento serio tra queste imposte patrimoniali reali su singoli cespiti e l’imposta di successione e, quindi, a mio parere, il riordino della tassazione patrimoniale è più urgente di quella della tassazione sul reddito specialmente se quest’ultima dovesse andare nella direzione del consolidamento del modello duale.  Se questo è vero e se l’obiettivo prioritario delle imposte patrimoniali deve essere da un lato quello di controllare la dinamica patrimoniale e, dall’altro, quello di assicurare ai giovani una dotazione universale di capitale, allora bisogna procedere con gradualità sostenendo proposte come quella di Granaglia-Morelli 2019 per l’imposta di successione riveduta e corretta e di un riordino opportuno dell’imposta di registro per renderla più equa ed efficiente e, non ultimo, prevedendo l’adozione del metodo delle variazioni patrimoniali come strumento generale di accertamento delle imposte dirette sui redditi e sui patrimoni. 

Cenni bibliografici:

Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1967;

https://www.fiscooggi.it/rubrica/analisi-e-commenti/articolo/limposta-successione-storia-tributo-complesso Stefano Manestra 2013;

Elena Granaglia e Salvatore Morelli, Contro la disuguaglianza da ricchezza originaria: una proposta, Rivista il Mulino n. 4/2019;

Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, 2019;

IMF Staff Paper: Linkages Between Labor Market Institutions and Inequality, IMF Survey online;

Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019

A. Johansson, C. Heady, J. Arnold, B. Brys, L. Vartia, Taxation and economic growth, Economic Department Working Paper No. 629, 2008. Un altro studio contesta queste conclusioni, argomentando che un aumento delle imposte indirette accompagnato da una riduzione delle imposte dirette ha effettivi positivi sulla crescita solo a lungo termine (D. Baiardi P. Profeta, R. Puglisi, S. Scabrosetti, Tax policy and economic growth: does it really matter?, Società italiana di economia pubblica, Working Paper n. 718, gennaio 2017).  http://www.siepweb.it/siep/images/joomd/1485942065Baiardi_et_al_WP_SIEP_718.pdf

Per la proposta di una imposta patrimoniale di tipo europeo, si rimanda a A Krenek M Schratzenstaller, A European Net Wealth Tax, WIFO Working Papers, No. 561, aprile 2018.  

https://berniesanders.com/issues/income-inequality-tax-plan/

https://www.taxpolicycenter.org/tags/elizabeth-warren

Enzo Russo, “De Profundis per l’imposta di successione”, in Rivista dei Tributi Locali, n.1/2002, pp. 33-51;

G. Messina, M. Savegnago e A. Sechi, Il prelievo locale sui rifiuti in Italia: benefit tax o patrimoniale occulta? Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n. 474, dicembre 2018;  

G. Messina, M. Savegnago e A. Sechi, Il prelievo locale sui rifiuti in Italia: benefit tax o patrimoniale occulta? Banca d’Italia, Questioni di economia e finanza, n. 474, dicembre 2018;  Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, The Triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W. W. Norton & Company, 2019.

Cosa fare per lottare contro l’ingiustizia fiscale negli USA.

Se fiducia e cooperazione creano la società coesa, senza tasse non c’è né fiducia né cooperazione, non c’è coesione sociale nè prosperità; non c’è una comunità di destino perché bisogna sapere che i sistemi tributari delle democrazie più avanzate funzionano non grazie ai controlli più o meno efficaci ma grazie all’adesione spontanea. Se prevale l’egoismo, l’individualismo metodologico, l’individuo razionale individuato come quello che sa massimizzare il proprio interesse predicato dai neoliberisti negli ultimi 40 anni dopo il trionfo della Scuola di Chicago con l’assegnazione del Premio Nobel a Milton Friedman e l’arrivo della Signora Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli USA i sistemi tributari vengono manipolati ad arte non solo per ridurne il gettito ma anche per favorire i più ricchi. Sono gli anni che hanno consentito il trionfo dell’ingiustizia fiscale e della negazione della democrazia di cui parlano Emmanuel Saez e Gabriel Zucman nel loro libro: The Triumph of injustice. How the rich dodge taxes and how to make them pay, W. W. Norton & Company, 2019.

Seguendo la loro introduzione, il primo contributo del libro è quello di raccontare,  per filo e per segno, la grande trasformazione – non quella di Karl Polanyi 1944 – ma quella del sistema tributario USA e di altri paesi che ne hanno seguito il modello passando da imposte con aliquote marginali molto elevate nell’ordine dell’80-90% delle imposte sul reddito a imposte personali con aliquote proporzionali o addirittura regressive per i più ricchi con aliquote massime nell’ordine del 42-43% in pratica dimezzate. Per dimostrare la loro tesi i due economisti si avvalgono di un data-base di oltre un secolo di statistiche che coprono abbondantemente l’introduzione dell’imposta personale sul reddito introdotta negli USA nel 1913.

Con il secondo contributo, mettono in evidenza che nel 1970 i ricchi americani – considerate tutte le imposte – pagavano più del 50% (aliquota media effettiva) del loro reddito equivalente al doppio di quello che pagava la classe lavoratrice. Nel 2018 dopo la riforma fiscale di Trump e, per la prima volta in cento anni, i miliardari americani pagano meno dei lavoratori metalmeccanici, insegnanti e pensionati.  Gli autori sostengono che di per sé la drastica riduzione delle tasse che si è verificata negli ultimi 40-50 anni non dipende – come alcuni propalano – dalla globalizzazione. Questa non impedisce di tassare i ricchi all’interno dei diversi paesi e, se così, la buona notizia è che ci sono le condizioni per ridurre l’ingiustizia fiscale e gli Autori indicano alcuni modi per farlo.

Il terzo contributo consiste nel mettere a disposizione di tutti un sito web denominato  www.taxjusticenow.org nel quale  gli esperti potranno controllare le simulazioni operate dagli Autori e farne di proprie con i dati disponili.    Lo scopo fondamentale del sito è quello di riempire di dati fattuali le chiacchiere di quanti, sia a sinistra che al centro, ragionano in termini vaghi e aiutarli a costruire un sistema tributario per il XXI secolo e fare tornare gli USA un faro di giustizia tributaria come lo è stato negli anni 30-70 del secolo scorso.

Saez e Zucman suddividono i contribuenti americani in tre classi sociali: 1) la classe lavoratrice, ossia, quelli che stanno nel 50% più basso dei redditi e in media guadagnano 18.500 $ all’anno – si tratta di 122 milioni di persone che percepiscono un reddito pari a circa un quarto della media nazionale (75 mila dollari)  ; 2) segue la classe media che annovera 100 milioni di adulti (40% del totale) e guadagna 75 mila dollari casualmente pari alla media nazionale; nonostante che a livello internazionale si parli di impoverimento della classe media, quella americana resta ancora una di quelle più prospere; 3) in cima alla piramide c’è il 10% dei contribuenti che Saez e Zucman distinguono in upper middle class (22 milioni=9%) e l’1% più ricco pari a 2,4 milioni di contribuenti.    Il reddito medio dei primi si ragguaglia a 220 mila dollari quello dei secondi a 1,5 milioni in media annuale. Il che significa che, in media, i più ricchi denunciano un reddito imponibile 81 volte più grande della classe lavoratrice prima delle tasse e dei trasferimenti. Si tratta di dato che ovviamente nasconde differenze molto più divaricate se si tiene conto che i redditi dichiarati dai più ricchi sono molto diversi da quelli effettivamente guadagnati e goduti. Secondo Saez e Zucman il risultato è che il sistema tributario nordamericano non è democratico ma plutocratico.   

Conviene riprendere un secondo calcolo che i due economisti fanno dividendo l’ultimo decile in gruppi più piccoli sino ad arrivare ai 400 americani più ricchi e calcolando quanto pagano di imposte. Contro ogni aspettativa della gente comune, viene fuori che l’aliquota media effettiva dell’imposta sul reddito è pari al 28% ma le tre principali classi sociali pagano tra il 20 e il 25%. Includendo quello che paga la upper middle class la media si stabilizza attorno al 28% mentre i 400 americani più ricchi pagano solo il 23% confermando quello che i giornali riportano ormai da diversi decenni secondo cui i miliardari come Zucherberg e Buffett pagano meno imposte sul reddito degli insegnanti e/o delle loro segretarie. All’ingrosso questo succede perché la maggior parte dei loro redditi di capitale godono di agevolazioni, regimi sostituivi, aliquote ridotte per non parlare di forme diverse più o meno sofisticate di elusione, erosione ed evasione diretta. Sulla base di questa analisi essenziale Saez e Zucman concludono che l’imposta diretta sul reddito è una grande flat tax, ossia, è progressiva per i redditi più bassi e quelli intermedi e regressiva per i più ricchi. Leggendo il libro troverete non solo molti più numeri di quelli citati ma anche molti grafici che rendono molto più chiare le dinamiche degli ultimi decenni.

Come abbiamo visto sopra l’imposta personale sul reddito è arrivata piuttosto tardi negli USA (1913) ma le imposte sul patrimonio risalgono al 17mo secolo. Tassavano ogni forma di ricchezza gioielli inclusi con aliquote basse per lo più proporzionali ma i metodi di accertamento non erano omogenei o applicati con lo stesso rigore nei diversi Stati. C’erano forti differenze tra Massachusetts e la Virginia, tuttavia il principio era mantenuto ad un tempo con il supremo primato della proprietà privata. Molto interessanti i dati più recenti del gettito delle imposte di successione e dei trasferimenti inter vivos che ancora nei primi anni 70 del secolo scorso producevano un gettito pari allo 0,20% del patrimonio netto delle famiglie. Dal 2010 raramente il gettito di dette imposte ha raggiunto lo 0,03-0,04% all’anno a causa dell’innalzamento delle quote esenti e alla riduzione dell’aliquota massima dal 77% nel 1976 al 40% di oggi ma soprattutto a causa del crollo degli accertamenti. Affermano Saez e Zucman: “sembrerebbe che in America o non ci sono ricchi oppure se ci sono non muoiono mai”. Lo stesso posso dire per l’Italia.  

A partire dagli 80 è iniziata la commercializzazione della sovranità dello Stato e la rifioritura dei paradisi fiscali. Assistiamo al trionfo della concorrenza fiscale che viene utilizzata strumentalmente per “affamare la bestia”, ossia, facendo venire meno le entrate nella speranza che i governi taglino la spesa pubblica. In fatto molti di questi tentativi sono falliti in diversi paesi e il risultato è stato un aumento del debito pubblico i cui interessi sono tassati con aliquote di favore quando non esentati del tutto. Il debito pubblico viene per lo più sottoscritto dai ricchi e questo meccanismo perverso va ad alimentare le rendite finanziarie e la crescita delle disuguaglianze. Ipocritamente alla concorrenza fiscale non si oppone alcun serio tentativo di tornare all’armonizzazione fiscale neanche all’interno dell’UE e/o coordinamento a livello internazionale. All’OCSE si studiano e si producono buoni documenti anche in materia di erosione e armonizzazione delle basi imponibili delle imposte sulle società, trasferimento dei profitti in paesi a bassa fiscalità, ecc. ma non si parla di armonizzare le aliquote d’imposta. In fatto le organizzazioni internazionali specializzate delle Nazioni Unite non fanno niente per combattere i paradisi fiscali. In fatto appoggiano o proteggono le forze non democratiche dietro di essi.

Si è giunti a questo punto anche perché, nel tempo, si sono ridotte le risorse economiche e umane qualificate allo IRS per fare i controlli. A questo riguardo, i due economisti propongono a public protection bureau, alias, una sorta di autorità amministrativa indipendente per mettere al riparo lo IRS dalle pressioni politiche del Presidente o delle maggioranze del Congresso. Secondo me, la proposta è debole e illusoria e non mi sembra possa risultare efficiente ed efficace. Anche negli USA c’è un’ampia letteratura sul come dette AAI vengono catturate dai soggetti che dovrebbero controllare. Robert Reich ministro del lavoro con Clinton sostiene che Wall Street è in grado di influire in maniera determinante sulle elezioni dei Presidenti e di molti parlamentari dei due principali partiti politici. Che cosa fare allora? Bisogna informare meglio l’opinione pubblica e sperare in una sua reazione. In Italia c’è stata una significativa reazione avverso gli evasori alla fine degli anni 70 tanto che fu istituito un corpo speciale di ispettori tributari poi lentamente trasformato in mero organo di consulenza e, quindi, sciolto. Negli USA più recentemente c’è stato il movimento Occupy Wall Street. Siamo il 99% a partire dal settembre 2011 che denunciava la forte crescita delle disuguaglianze, la finanziarizzazione dell’economia a danno di quella produttiva e la concentrazione della ricchezza sull’1%, ma il suo appello non è stato accolto dai governanti nordamericani. Vedi al riguardo il libro di Noam Chomsky, Siamo il 99%, Cronachenottetempo editore, luglio 212.

I super ricchi avvalendosi di qualificate consulenze sanno sfruttare tutte le scappatoie e i buchi neri che le legislazioni fiscali lasciano aperti ed organizzano i loro affari in modo da percepire e dichiarare redditi imponibili bassi mentre fanno aumentare i loro patrimoni. E’ rimasto inascoltato il monito storico di James Madison uno dei più intelligenti e attivi padri della Costituzione degli Stati Uniti secondo cui l’obiettivo dei partiti doveva essere quello di combattere il male: 1) stabilendo l’uguaglianza tra tutti; 2) impedendo ai pochi di fare aumentare le disuguaglianze per via di smodate e immeritate accumulazioni di ricchezze.   Madison aggiungeva che una forte concentrazione della ricchezza è per la democrazia così velenosa come la guerra. Per dimostrare che queste considerazioni non sono elaborazioni teoriche di benpensanti, i due economisti di Berkeley citano tre fatti. Il primo è che per via dell’assistenza sanitaria non universale finanziate a mezzo di assicurazioni private, in questi ultimi decenni, si è registrato negli USA un calo dell’aspettativa di vita; i ricchi vivono più a lungo mentre i poveri muoiono più giovani. Il secondo fatto riguarda i conti della sanità USA. Il paese spende il 20% del PIL per un sistema che ancora lascia il 14% della popolazione senza copertura; negli altri paesi avanzati si spende il 10% o giù di lì. I datori di lavoro formalmente pagano i premi di assicurazione per i loro dipendenti ma per essi sono un costo del lavoro che abbassa la possibilità di alzare i salari. Per un lavoratore che guadagna 40 mila dollari il premio ammonta a 12 mila dollari pari al 23% del salario lordo. Il premio di assicurazione è proporzionale sino ad un certo livello e si traduce in una poll tax. Se gli USA riuscissero a portare la spesa sanitaria a livello dei paesi europei un lavoratore del 50% con redditi più bassi ne riceverebbe un vantaggio pari a 7.500 dollari. 

Il terzo fatto è che, se i ricchi accumulano grandi patrimoni e dichiarano redditi relativamente molto bassi, tornare ad aliquote marginali massime come nei 40 anni successivi alla II guerra mondiale non basterebbe a raccogliere il gettito necessario per un welfare universale in grado di combattere efficacemente le disuguaglianze. Perché negli USA e nella UE non siamo riusciti a farlo? Perché in questi Paesi è prevalsa l’opinione – non priva di qualche fondamento teorico – secondo cui non servono le imposte progressive né sul reddito né sul patrimonio netto se l’operatore pubblico riesce ad aiutare i più bisognosi con la spesa pubblica. Anche il FMI e la Banca Mondiale seguono questa linea di politica redistributiva in Africa e in Asia ma Saez e Zucman sostengono – secondo me a ragione – che detta linea non produce sviluppo e non aumenta la fiducia nelle istituzioni e nei governi. La questione non è teorica ma pratica. Detta linea è fallita negli USA dove il welfare non è universale ma è fallita anche in quei paesi europei che notoriamente hanno un welfare più avanzato ma non assicurano il pieno impiego e, quindi, hanno larghe fasce di disoccupati, inattivi e working poor. Da qui le proposte di basic income e/o di reddito di cittadinanza.

PQM Saez e Zucman ritengono che l’imposta personale e progressiva sul patrimonio netto è la maniera più appropriata di tassare i più ricchi – ovviamente non solo con essa. La concorrenza fiscale, la piena libertà dei movimenti di capitale nel mondo globalizzato non sono leggi di natura, sono frutto di decisioni legislative che possono essere abrogate, modificate o meglio coordinate e regolamentate. La decisione spetta a noi tutti.