Per costruire meglio l’identità europea.

In Italia i protagonisti dello sgangherato dibattito sul regionalismo differenziato non utilizzano le indicazioni della teoria dei beni pubblici per argomentare o valutare quali funzioni assegnare alle regioni e/o allo Stato. Vogliono modificare l’art. 117 cost. spostando le competenze concorrenti quasi tutte in testa alle regioni. Un’operazione che viene da alcune regioni del Nord-Est, dalla Lombardia e dall’Emilia Romagna. Un’operazione che dai meridionalisti viene valutata come secessione dei ricchi. Tranne qualche sporadica presa di posizione le regioni meridionali tacciono come se il problema non le riguardasse. Istruzione e sanità sono beni pubblici nazionali e come tali sono di competenza dello Stato.Istruzione e sanità sono strettamente collegate: “mens sana in corpore sano” dicevano gli antichi romani. A mio avviso, sbagliarono i Padri costituenti ad assegnare la sanità alle regioni ma avevano un alibi: non si era ancora ben sviluppata la teoria economica dei beni pubblici che arriva con Paul Samuelson nel 1954. Qualche anno fa Chiamparino presidente della Regione Piemonte, concordemente, ha ipotizzato l’idea di togliere la sanità alle regioni non solo per via di episodi gravi di corruzione nella gestione delle risorse assegnate dallo Stato ma soprattutto perché trattandosi di un bene pubblico nazionale è ovvio che il principale responsabile della programmazione e del finanziamento debba essere lo Stato.

Analogo è il discorso sulla scuola. Alcuni hanno ricordato il dibattito alla Costituente sulla quale vedi l’impegno profuso da Concetto Marchesi e Aldo Moro; vedi infine gli art. 33 e 34 Cost. sulla necessità di creare una scuola nazionale e di “garantire ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Ora da qui a passare alla scuola regionalizzata ci passa tanta strada che condurrebbe comunque nella direzione sbagliata. Perché la scuola di ogni ordine e grado non solo cerca di formare l’identità nazionale ma è anche lo strumento fondamentale per attuare l’eguaglianza di opportunità dei cittadini. Quindi in pratica il discorso si sposta su quello che lo Stato e le regioni fanno, da un lato, per fare rispettare l’obbligo scolastico e, dall’altro, per mettere a disposizione degli studenti meritevoli e bisognosi le risorse necessarie ad attuare sul serio il diritto allo studio. 
La scuola forma l’identità dei cittadini e riempie di contenuti l’istituto giuridico della cittadinanza. Noi europei abbiamo la doppia cittadinanza istituita con il Trattato di Maastricht art. 8 poi trasfuso nel Trattato di Lisbona.
Quella italiana è assunta come data – anche se non dimostrata nella c.d. costituzione materiale. Quella europea è ancora una nebulosa. Il fatto che nel passaporto c’è scritto Unione Europea e nella patente c’è la microscopica bandierina a 12 stelle è solo un fronzolo, al meglio, un simbolo. Per darle contenuti pregnanti occorre costruire una solida identità europea che innanzitutto rifletta i valori comuni della cultura, della letteratura, della democrazia, dell’etica pubblica, della storia comune nel bene e nel male.

Il problema, oggi e in prospettiva, non è la scuola nazionale che bene o male esiste in tutti i Paesi membri.Oggi  occorre costruire la scuola e l’università europee. Nel dibattito del 15 maggio scorso al Parlamento europeo tra i candidati alla Presidenza della Commissione che sarà formata dopo le elezione solo Frans Timmermans ha accennato al problema della scuola dicendo che il programma Erasmus va generalizzato. Non so se il candidato del PSE ha un programma più ampio ma mi sono riproposto questo problema quando il governo Renzi lanciò negli anni scorsi il suo “programma della buona scuola” poi rivelatosi solo uno slogan accattivante.Da allora mi sono convinto che la buona scuola doveva essere una scuola europea. Negli ultimi anni ho partecipato a molte manifestazioni dei giovani federalisti europei e a quella del 25 aprile a Porta San Paolo (a Roma) dove ho notato una forte partecipazione di giovani – cosa del tutto eccezionale negli ultimi anni. Ho pensato all’effetto positivo dal nostro punto di vista della becera propaganda di Salvini con riguardo sia alla politica interna che a quella europea. Ho assistito a diverse manifestazioni elettorali e nessuno dei candidati ha prospettato programmi specifici per i giovani. Al riguardo viene subito in mente il programma Erasmus ed il processo di Bologna a suo tempo lanciato da Antonio Ruberti pro-tempore  Rettore della Sapienza. Ho navigato un paio di ore sul sito Europa e ho trovato che c’è Europa Youth Portal, Eures and Poles emploi, ed altre finestre interessanti; ho visto che ci sono diversi Rapporti della Commissione e tante belle idee, ma per ora scarsi risultati concreti e/o poco percepiti perché riguardano pochi soggetti.

Il programma Erasmus secondo me non va bene così come funziona adesso, è da riformare, da generalizzare e da imporre soprattutto ai docenti. Infatti ritengo che se i docenti a tutti i livelli non hanno loro stessi una solida formazione e identità europea non si capisce come possano contribuire alla formazione e sviluppo di una identità e cultura genuinamente europee dei giovani. A suo tempo, all’università insieme ad altri colleghi abbiamo lavorato alla attuazione della riforma Berlinguer e alla standardizzazione dei crediti formativi per renderli portabili e riconosciuti nelle altre università europee. Oggi tale operazione non basta più in una congiuntura storica in cui crescono le forze populiste e sovraniste che vorrebbero dividere e ridurre l’Unione ad una Confederazione con compiti molto limitati e poteri conferiti di volta in volta.

Oggi dobbiamo fronteggiare il rischio di una progressiva disgregazione dell’Unione e rafforzare le fondamenta del progetto europeo. Come? Costruendo scuole e università europee. Dobbiamo fare quello che i tedeschi hanno fatto dopo avere elaborato la dura sconfitta che Napoleone inflisse a tutti gli stati preunitari: creare una classe dirigente tedesca prima ancora dell’unità come racconta il grande pedagogista americano John Dewey.

Non rivendico nessuna primazia al riguardo. L’associazione TRELLE da circa 20 anni prospetta il problema ma il suo invito non è stato raccolto.

Personalmente come studente post-graduate ho avuto la fortuna di fare il primo anno al Bologna Center della John Hopkins University. Siamo nel 1964 il Bologna Center era organizzato in questo modo: metà studenti americani e metà europei; lo stesso modulo per i docenti; il lunedì mattina seminario sull’Europa obbligatorio per tutti gli studenti e docenti: relatore era una grande personalità europea e poi discussione aperta sino ad esaurimento delle domande. Per lo più si terminava a lunch time. Una esperienza veramente innovativa e interessante per i tempi. Poi alcuni di noi andarono a Washington per il secondo anno del Master in Studi internazionali avanzati. Secondo me, se l’UE vuole fare sul serio in questa materia dovrebbe imitare questo esempio sia a livello delle scuole secondarie che a livello universitario. Dovrebbe invitare studiosi e ricercatori a standardizzare gli insegnamenti in primo luogo di storia e cultura o civiltà – come dicono i francesi – europea anche contemporanea e prevedere cospicui finanziamenti per attuare il diritto allo studio di giovani meritevoli e bisognosi non solo europei ma anche dei paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. 

Da economista vengo alle risorse, l’UE attualmente spende 2,6 miliardi in sette anni. Sono i soliti spiccioli su programmi utopici! Bisogna gradualmente quintuplicare meglio decuplicare gli stanziamenti per incentivare la istituzione di scuole e università secondo il modulo di cui sopra. Ovviamente non si tratta di creare nuove strutture ma di incentivare quelle esistenti a ristrutturarsi secondo un modello europeo condiviso non dai politici governanti ma dal mondo della scuola e dell’Università che nella maggior parte dei paesi europei gode di autonomia, libertà e responsabilità. In Europa abbiamo un enorme problema di rafforzare il capitale sociale e quello umano anche per fronteggiare la grande trasformazione dell’economia e della società che ci impone la globalizzazione, la digitalizzazione, la robotizzazione, l’utilizzo della Intelligenza Artificiale. Su questo terreno l’Italia è molto indietro e servono misure urgenti e straordinarie di breve e medio termine. Quella sopra descritta ovviamente è proposta di medio-lungo termine pensata per altre finalità, per i giovani, per rafforzare l’identità europea ma che darebbe più ampio respiro alle altre. A mio avviso, costituisce lo strumento principale per farlo. Basta volerlo.  

@enzorus2020

Alcune indicazioni bibliografiche:

Dewey John, Democrazia e educazione, la nuova Italia editrice, Firenze, 1949 (edizione originale 1916);

http://www.fondazioneantonioruberti.it/Antonio-Ruberti/Archivio-documenti/Spazio-Europeo-della-Conoscenza/UNIVERSITA-E-RICERCA-APPUNTAMENTO-CON-L-EUROPA

Melchionni Maria G. a cura di, L’identità europea alla fine del XX secolo, presentazione di Giuseppe Vedovato, Biblioteca della Rivista di Studi politici internazionali, Firenze (2001);

Treelle, Università italiana, Università europea? Dati, proposte e questioni aperte, Quaderno n. 3/2003 settembre;

Treelle, Scuola italiana, scuola europea? Dati, confronti e questioni aperte, Quaderno n. 1, maggio 2002;

Perché l’Italia sta sull’orlo del precipizio.

I Sette peccati capitali dell’economia italiana (Feltrinelli 2018) secondo Carlo Cottarelli sono: 1) l’evasione fiscale; 2) la corruzione; 3) l’eccesso di burocrazia; 4) la lentezza della giustizia; 5) il crollo demografico; 6) il divario tra Nord e Sud; 7) la difficoltà a convivere con l’euro. E’ evidente che i primi quattro peccati sono strettamente collegati tra di loro e hanno a che fare con il funzionamento delle nostre istituzioni.

1) l’evasione fiscale.  Cottarelli fa un breve excursus sulle misure adottate per contrastare l’evasione; si sofferma in particolare sulle continue modifiche dei tetti all’utilizzo del contante da 1000 a 3000 euro in un paese che usa molto il contante e critica tale misura come un segnale sbagliato. Uguale giudizio critico dà delle voluntary disclosures (condoni belli e buoni) che in Italia prevedono trattamenti molto generosi: tagliano interessi e sanzioni sulle somme non pagate mentre in altri paesi si limitano a tagliare solo le sanzioni penali. In Italia l’evasione fiscale è un retaggio storico negativo di cui non riusciamo a liberarci per diversi motivi: a) l’illegalità  diffusa economica e non; b) le alte aliquote che sono tali per quelli pagano anche per gli evasori alimentando così la sfiducia nello Stato; c) l’onerosità degli adempimenti amministrativi  per le PMI, lavoratori autonomi e professionisti che rispondono non solo delle loro imposte ma, come sostituti di imposta, anche per quelle dei loro dipendenti e collaboratori con conseguente aggravio dei costi di adempimento;  d) l’inefficienza voluta dell’attività di accertamento.  È chiaro che, in questo modo, in Italia, si rende conveniente non pagare le tasse e se i governi continuano a tenere alti i tetti sull’utilizzo del contante, si riduce la tracciabilità e l’efficacia della fatturazione elettronica e di misure come lo split payment, previsto dalla legge 190/2014 che impone alle PA che non sono soggetti IVA di versare direttamente all’Erario l’Iva evidenziata nelle fatture dei loro fornitori; e il reverse charge, alias, inversione contabile per cui l’IVA è versata dal beneficiario invece che dal prestatore dei servizi come di norma.  Impressionanti i dati dei soldi imboscati all’estero da imprenditori, politici corrotti e mafie nel Nord Est vedi Report del 29-04-2019 ma non solo in quelle regioni. Vedi anche inchieste di Milano e in Sicilia.

 2) la corruzione in Italia è una metastasi e non può sorprendere nessuno. L’Italia è il Paese dove sono nate e prosperano tre delle più grandi criminalità organizzate le quali, in tempi recenti, non ricorrono più alle forme estreme di violenza per perseguire i loro obiettivi. A quelle native più recentemente si sono aggiunte altre mafie tra le quali quella nigeriana.  Le mafie italiane come le altre nel mondo conducono sistematica attività di riciclaggio dei loro profitti derivanti dal traffico della droga, delle armi, della contraffazione, della tratta di esseri umani e quant’altro. Investono i loro proventi nella attività legali attraverso prestanome ma per fare questo hanno bisogno della connivenza di banche, assicurazioni, società di investimento e funzionari pubblici corrotti. Non ultimo si noti che una pubblica amministrazione inefficiente di per sé produce corruzione perché imprese, società e anche persone fisiche che per svolgere la loro attività abbisognano di interloquire con uffici pubblici o offrono mazzette oppure sono richiesti di offrirle specialmente quando autorizzazioni e visti degli uffici non sono chiaramente dovuti.    L’ultimo indice (2018) sulla corruzione percepita elaborato da Transparency International vede l’Italia al 53mo posto nel mondo con 52 punti su una scala da 0 (paesi molto corrotti) a 100 per quelli puliti o maggiormente virtuosi. In sei anni (2012-2018) l’Italia ha guadagnato dieci punti grazie anche al lavoro di prevenzione svolto dall’ANAC (Agenzia nazionale anti corruzione) guidata da Raffaele Cantone. Ma molto lavoro resta da fare se non cessa la delegittimazione dei giudici, se non migliora l’efficienza della PA, se non si ricostruisce un valido sistema di controlli interni ed esterni a carattere repressivo, se non si risolve il problema della giustizia, se non si debella il familismo amorale promuovendo un senso condiviso di etica pubblica e giustizia sociale.      

3) l’eccesso di burocrazia; da intendere come eccesso di legislazione di cattiva qualità; giustamente Cottarelli afferma che il grado di intensità burocratica può essere misurato non tanto dal numero dei dipendenti pubblici (burocrati in senso dispregiativo specie nel linguaggio inappropriato di autorevoli esponenti del governo giallo-verde) ma dal numero di leggi, regolamenti, risoluzioni e circolari che annualmente vengono approvati dal Parlamento, dal governo e dalle amministrazioni pubbliche. Sul punto vedi Tremonti “Lo Stato criminogeno” e Remo Bodei che riprende la metafora di Solone della tela del ragno. Da quest’ultimo l’insieme delle leggi viene paragonato alla tela del ragno dalla quale i soggetti (poteri) forti si liberano facilmente rompendola e quindi violando la legge e a un tempo producendo crimini mentre i soggetti deboli (come gli insetti più piccoli) vi restano prigionieri e subiscono le sanzioni a volte persino innocenti. Come siamo arrivati a tal punto? nel tempo i governanti hanno creato un sistema di guardie e ladri e di sfiducia reciproca tra gli stessi poteri dello Stato per cui si legifera non sulla base di regole generali e/o principi che di volta in volta l’autorità giudiziaria e le pubbliche amministrazioni possono modulare sul caso specifico ma prevedendo sempre discipline specifiche su casi particolari e diversi. Nei decenni passati il governo a capo dell’esecutivo ha espropriato il Parlamento dell’iniziativa legislativa e, quindi, occupa la maggior parte del suo tempo a scrivere nuove leggi e ad attuare deleghe con principi non meglio definiti. Da ultimo si è arrivati all’aberrazione per cui il governo vara decreti leggi con la clausola “salvo intese”.  Per altro verso, il governo ha rinunciato a verifiche sulle cause che hanno determinato la mancata attuazione oppure l’inefficacia delle leggi precedenti in un contesto in cui le Commissioni parlamentari continuano a fare audizioni ma di esse il governo non tiene il debito conto.  A livello politico in Italia è prevalsa la prassi secondo cui i problemi si risolvono approvando sempre nuove leggi non sui principi ma sui casi specifici.    Giudici e alti dirigenti pubblici (i burocrati) non di rado delegittimati dai politici (legislatori) chiedono che le leggi prevedano tutte le fattispecie concrete possibili ed immaginabili. Il che porta ad un inseguimento senza fine di una realtà dinamica e alla moltiplicazione delle leggi e dei regolamenti e dei regolamenti, alla difficoltà di conoscerli tutti, alla complessità del sistema. Non di rado capita di verificare che non solo i cittadini violano leggi di cui ignorano l’esistenza ma anche gli stessi operatori pubblici non conoscono bene le leggi che devono applicare.

4) la lentezza della giustizia; secondo il Censis si tratta della seconda causa della scarsa affluenza di investimenti esteri in Italia.  Nel 2009 abbiamo fatto il pieno con 5,7 milioni di processi civili pendenti rispetto a 1,1 milioni del 1975. L’efficienza della giustizia si valuta non solo sulla base del numero dei processi pendenti ma anche in base alla durata ossia, al tempo necessario per arrivare a sentenza definitiva. Per affrontare questo problema nel marzo 2001 il Parlamento approvò la legge Pinto in base alla quale si può chiedere un risarcimento allo Stato proprio per la lunga attesa. La giustizia lenta infatti equivale a giustizia in parte negata e contribuisce a minare la certezza del diritto.

Si è ottenuto qualche miglioramento in termini di accorciamento dei tempi per il 1° e 2° grado di giudizio: dai 620 giorni del 2010 siamo scesi a 532 nel 2014, a 410 nel 2016. Si tratta di dati che Cottarelli prende dal sito del Ministero di Grazia e giustizia che a me sembrano del tutto incoerenti con quelli di altre fonti.   Ma i tempi si sono allungati se si considera anche la Cassazione. Uno studio della OCSE calcola che per percorrere i tre gradi di giudizio servono in media 2.866 giorni pari a sette anni e dieci mesi.   Ecco la giustizia protratta a lungo termine causa la mancanza di effettività dell’ordinamento e l’espandersi della illegalità. Come sostiene Davigo, “in Italia si è diffusa una subcultura secondo cui sono furbi e intelligenti quelli che violano la legge e fessi quelli che la rispettano. I primi ne traggono vantaggio economico e da qui l’incentivo a violarla. Controlli inefficienti ed inefficaci contribuiscono a determinare un meccanismo che sempre più incentiva e fa crescere l’illegalità. Non solo Davigo mette in evidenza che in Italia non c’è certezza del diritto né certezza della pena e non solo perché molti procedimenti si estinguono per intervento della prescrizione ma anche perché è fiorita, in nome della funzione rieducativa della pena, una complessa legislazione agevolativa per cui le pene vengono ridotte nella fase esecutiva con sconti e facilitazioni varie.

Cottarelli pensa anche a cosa si può fare per migliorare la situazione: a) si possono seguire percorsi standardizzati piuttosto che gestire in parallelo diversi procedimenti; b) si può agire dal lato della domanda di giustizia riducendo la litigiosità e limitando la possibilità di ricorrere in Cassazione; c) semplificando la legislazione specialmente in cambi come il diritto fallimentare. E infatti, seguendo questa linea, si sono aumentate le tasse giudiziarie; si sono introdotte nel 2010 le mediazioni civili e la mediazione (negoziazione) assistita da avvocati; si è eliminato   il tariffario legato ai singoli atti svolti nel lungo percorso del procedimento che, a quanto sembra non basta a rendere meno conveniente per gli avvocati il prolungamento dei tempi;  si sono chiusi i piccoli Tribunali; si è istituito un Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia; nel 2014 si è reso obbligatorio il c.c. processo telematico. Nonostante tutto questo i Tribunali restano ingolfati. Sia Cottarelli che Davigo individuano una delle cause nell’alto numero di avvocati 237 mila con un rapporto tra avvocati e giudici di 32/1.  Cottarelli arriva anche a proporre il numero chiuso per la Facoltà di giurisprudenza. Tralascio per brevità il discorso sugli oltre tre milioni di processi penali. Ma al di là delle battute, delle invettive contro i giudici fannulloni – una vera e propria falsità se come testimoniano I rapporti Cepej essi risultano tra i produttivi – allora le cause profonde vanno ricercate anche nella riduzione delle risorse che il governo mette a disposizione della amministrazione della giustizia: un misero 1,35% del PIL.  Non ultimo nella rivoluzione culturale necessaria per educare gli italiani al rispetto delle regole e della legalità. Vaste programme.

 5) il crollo demografico. L’Italia, come altri paesi europei, soffre dell’invecchiamento della popolazione. Incidono da un lato il calo della fertilità e dall’altro l’allungamento della vita. “eravamo 56 milioni e mezzo a fine anni 1980; vent’anni dopo eravamo ancora un po’ al disotto dei 57 milioni…”.  Nel primo decennio degli anni 2000 c’è stato un lieve aumento della natalità per via della più alta fertilità delle donne immigrate poi è iniziata la decrescita. Nel 1970 l’età media era di 32,8 anni; nel 2015 passa a 46 anni. Nel 1969 nacquero 950 mila bambini pari ad un tasso di natalità (n. dei nati vivi per 1000 abitanti) pari a 18. Nel 1981 scende a 11. Un vero crollo. Il tasso di fertilità (numero di figli per donna in età fertile) nello stesso periodo scende dal 2,46 a 1,73. Ed ancora di un altro 0,4 negli anni 80 e negli anni 90 sino a toccare l’1,23.   Invecchia la popolazione e un numero decrescente di attivi deve mantenere un numero crescente di persone anziane. Si determina un problema di equilibrio ed equità intergenerazionale a prescindere dal fatto che il problema del mantenimento sia affrontato privatamente o attraverso pensioni gestite dal settore pubblico. Occorre in ogni caso lavorare più a lungo e risparmiare di più se si vuole assicurare la sostenibilità del sistema. Nel 1970 la spesa previdenziale era pari al 7,4% del PIL ora è pari al 17%. Nel 1971 gli ultrasessantenni erano il 16,6% della popolazione, nel censimento del 2011 il 27,1%. È chiaro che tali dati creano una forte rigidità nella spesa pubblica totale se le pensioni assommano al 36% della stessa. Ma oltre agli effetti del calo demografico sui conti pubblici ci sono quelli sulla crescita economica. Se lavorano meno persone in età lavorativa (quelle tra 15 e 64 anni) e se la produttività delle persone anziane è di norma più bassa e se anche la produttività dei lavoratori immigrati è anch’essa bassa si produce di meno, si accentuano i problemi di sostenibilità del sistema pensionistico. Se poi uno pensa che tra disoccupati in senso tecnico e inattivi abbiamo tra i 6 e 7 milioni di persone in età lavorativa che non lavorano perché il sistema non domanda lavoro a sufficienza allora si spiega la stagnazione e l’urgente necessita di una politica economica idonea a perseguire la massima occupazione. Non possiamo rallegrarci se la disoccupazione scende di qualche decimale sempre al di sopra del 10%.      

6) Divario Nord-Sud. Un altro peccato storico tuttora irrisolto anzi aggravato. Divario di reddito, di occupazione, di produttività anche per le più basse qualifiche dei lavoratori meridionali. Si è ottenuta convergenza solo nel ventennio 1951-71 nel periodo del miracolo economico e del lancio di una seria politica meridionalista ad opera dei primi governi di centro-sinistra nella stagione della programmazione economica. La convergenza termina a metà anni settanta con la fine del centro-sinistra e la crisi di ristrutturazione del sistema industriale in parallelo con la crisi mondiale dell’industria siderurgica e cantieristica. Il divario Nord-Sud è alimentato anche dalla maggiore inefficienza delle pubbliche amministrazioni meridionali che dopo l’attuazione delle RSO abbandonano la missione della programmazione dello sviluppo e si concentrano nella gestione corrotta dei fondi del sistema sanitario istituito nel 1978. In un suo saggio Giuliano Amato osserva la trasformazione delle RSO in stazioni di mediazione politica. La situazione peggiora ulteriormente con l’abrogazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno richiesta da Bossi e graziosamente concessa da Berlusconi.   Scrive Cottarelli: nelle regioni meridionali si osservano un numero più alto di opere pubbliche incompiute, di casi di malasanità (tra cui un maggior numero di parti cesarei), fenomeni gravi di corruzione negli acquisti pubblici di forniture varie, cattivo utilizzo dei fondi strutturali UE, maggior numero di dipendenti a fronte di minore efficienza nella sanità, nell’amministrazione della giustizia, nell’assistenza all’infanzia, nella gestione dei rifiuti solidi urbani. Lo testimoniano anche i rapporti della Commissione europea con il suo indice EQGI (european quality of government index).  Le ragioni profonde di questo divario secondo Cottarelli dipendono dalla qualità del capitale sociale (scarsa capacità di agire anche per gli altri) e di quello umano (prevalenza di basse qualifiche a tutti i livelli). Riprendendo studi fatti presso l’Università di Bologna, l’indice sintetico del capitale sociale nel 2009 si ragguagli allo 0,71 al Nord, 0,59 nel Centro e allo 0,30 nel Sud. La Val d’Aosta risulta la peggiore delle regioni del Nord; la Sardegna sulla base dello stesso indice pari a 0,50 si stacca dalle altre regioni del Sud. Per lo stesso 2009 l’indice del capitale umano definito come livello di istruzione, attrattività delle università meridionali per gli studenti provenienti da altre regioni, formazione e competenze nelle materie scientifiche l’indice del Centro-Nord si ragguaglia allo 0,63 quello del Sud allo 0,51. Ricordo che nel 2006-07 l’allora PdCdM Prodi disse che nelle università meridionali risultavano immatricolati ben 55 mila studenti in scienze della comunicazione. Cottarelli cita anche uno studio dell’OCSE secondo cui la percentuale degli adulti con basse competenze linguistiche e matematiche nel Sud raggiunge il 50% e nel C-N il 34%. Venendo ai rimedi, Cottarelli propone tre piani di azione: a) non puntare sugli incentivi fiscali perché secondo studi empirici internazionali avrebbero solo effetti marginali e lasciare maggiore spazio al mercato: le imprese investono dove possono realizzare maggiori rendimenti; al Sud incidono salari pari a quelli del Nord a fronte di un costo della vista più basso. Secondo Cottarelli l’abrogazione delle c.d. gabbie salariali a fine anni 60 avrebbe determinato l’interruzione del processo di convergenza delle regioni meridionali con quelle del Nord; oggi non si tratta di ristabilire le gabbie salariali ma di convincere i sindacati di ricorrere alla contrattazione di secondo livello. È una proposta che mi sembra di condividere specialmente se inserita all’interno di programmi di crescita del PIL e dell’occupazione negoziati con le regioni dalle parti sociali. Questo dei piani regionali e locali del lavoro a me sembra una questione trascurata anche dai sindacati del C-N che preferiscono coltivare il livello locale della contrattazione aziendale all’interno del quale, ove possibile, strappano piani di welfare aziendale. Un secondo piano di azione riguarda le amministrazioni regionali e locali che devono migliorare la loro efficienza perché – come scrive Cottarelli – non c’è motivo perché a parità di regole generali al Sud esse debbano funzionare male.  Cito una mia esperienza diretta con l’anagrafe popolazione del Comune di Roma I Municipio: ho chiesto a novembre 2018 il rinnovo della Carta d’identità; dopo tre richieste dirette allo sportello mi è stato detto che dovevo prenotarmi on line ed il primo giorno utile mi è stato fissato per il 20 maggio successivo.

Il terzo piano di azione riguarda appunto il miglioramento del capitale sociale e umano. Riguardo al primo si tratta di intensificare la lotta alla criminalità organizzata che nasce e prospera nelle regioni meridionali e non solo in esse, alla corruzione, all’illegalità diffusa, alla lentezza della giustizia che abbiamo visto sopra. Con riguardo al secondo si tratta di migliorare il sistema educativo e di investire nel capitale umano per dargli le qualifiche necessarie nella grande trasformazione dell’economia che è in corso.  Si tratta di creare un ambiente favorevole e ricettivo anche per gli investimenti dall’estero. 

7) L’incapacità di convivere con le regole europee pure condivise al momento della loro approvazione. La questione merita una spiegazione che è stata data dal Ministro Tria in una recente audizione parlamentare. Annotava una scarsa partecipazione nella fase ascensionale dei tecnici (sherpa) e politici italiani che non si coordinano tra di loro e, non di rado, i secondi arrivano ad approvare regolamenti e direttive o addirittura trattati intergovernativi di cui ignorano la reale portata – salvo a prenderne le distanze in conferenza stampa subito dopo la riunione. Il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo il 16-11-2011 ha approvato il PSC ma non si sa chi lo ha firmato per l’Italia perché nello stesso giorno il Presidente della Repubblica ha conferito l’incarico a Mario Monti.   Ma torniamo all’euro: siamo entrati nella moneta comune e, quindi, la causa di tutti i mali dell’economia italiana è l’euro. C’è chi parla addirittura di “colpa” dell’euro come se la moneta fosse un soggetto economico e non una unità di conto di per sé neutra. Il problema vero sta nella capacità delle imprese di produrre a costi competitivi. Cottarelli ci ricorda che nel 1970 il cambio lira/marco era a 172/1, nel 1998 a 987/1. Suddivide lo sviluppo economico in quattro periodi storici: 1861-1921; 1922-42; 1949-98; 1999-2019. Definisce l’ultimo periodo: “venti anni persi”. A sua volta suddivide l’ultimo periodo in due sotto periodi: prima e dopo la crisi. Nel periodo 1999-2007 il CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) in Germania resta stabile perché i salari crescono come la produttività. In Italia ferma la produttività i salari crescono del 20-25%. Negli anni 80-90 cresciamo come gli altri principali partner europei; negli anni 2000 noi cresciamo a tassi pari alla metà[VR1]  dei primi. Con la crisi mondiale e dell’euro perdiamo 10 punti di PIL. E Cottarelli elenca tre motivi per cui abbiamo perso competitività dopo l’ingresso nell’euro: a) l’abitudine a dare aumenti di salari a prescindere dalla dinamica della produttività; b) l’avere utilizzato da parte di imprese e famiglie la maggiore liquidità per aumentare la spesa corrente; c) sul versante del settore pubblico analogo comportamento:  la riduzione del costo del servizio del debito pubblico per effetto della riduzione dei tassi di interesse porta ad un aumento della spesa corrente come se il debito pubblico fosse stato magicamente risolto. Nello stesso sotto periodo il prezzo del petrolio passa da 11 dollari del 1998 a 70 nel 2007 – uno shock che non viene percepito come tale ma che importa inflazione.  I profitti delle imprese italiane scendono dal 48% del 1998 al 40% del 2013. Gli investimenti dal 17% (98) al 13% (2016); tra il 1998-2016, la produttività italiana aumenta del 3,5% quella tedesca del 47%; le esportazioni italiane aumentano del 25%, quelle tedesche del 115%.   Sono dati dell’economia reale che la dicono lunga sulla dinamica del nostro sistema paese. Definisce il settimo peccato come l’idea secondo cui siamo entrati nell’euro pensando che potevamo continuare a fare quello che facevamo prima: svalutare l’unità di conto per recuperare competitività. Non si sono internalizzati gli effetti della perdita della sovranità monetaria e si è andati avanti come nel passato. Negli ultimi 19 anni la politica economica e finanziaria è stata altalenante: rigore con Prodi e Monti, lassismo con gli altri governi.  Finora i mercati hanno dato fiducia al governo giallo-verde ma potrebbe bastare un fatto straordinario endogeno o esogeno perché la situazione degeneri. Il mio ovviamente non è un auspicio ma un rischio calcolato. Stiamo navigando sul Titanic.  


 [VR1]