Come salvare la democrazia politica con quella economica

Laura Pennacchi, Democrazia economica. Dalla pandemia a un nuovo umanesimo, Castelvecchi, febbraio 2021.

Nei primi due capitoli Laura Pennacchi – d’ora in poi LP – passa in rassegna la letteratura sulla democrazia in generale. 

Nel primo, en passant, cita Blair che tra le altre malefatte riteneva la governance addirittura superiore al governo democratico per non parlare della terza via che si è poi rivelata meno di una minestra riscaldata.  Imputa questo atteggiamento al neoliberismo imperante in Inghilterra durante e dopo la Thatcher e poi in Europa. Naturalmente concorda con gli altri economisti che vedono la bassa crescita europea come il risultato di uno scarso flusso di investimenti. Osserva che il rallentamento della crescita contribuisce all’aumento delle diseguaglianze e questo indebolisce la democrazia in quanto riduce la coesione sociale e l’accettazione del sistema. 

Osserva che da questo punto di vista l’allenamento monetario va a finanziare gli investimenti in attività finanziarie, nei fondi, nelle operazioni di buyback, nelle operazioni di fusione e acquisizioni messe in atto da manager predoni. La finanziarizzazione dell’economia accentua l’instabilità del sistema come messo in evidenza da Keynes, Minsky,  Stiglitz, Krugman e tanti altri economisti. Il cattivo funzionamento del sistema capitalistico porta alla stagnazione secolare con bassi investimenti, alta disoccupazione, bassa produttività, crescenti diseguaglianze. Ma non basta, l’assolutizzazione dell’homo oeconomicus operata dal neoliberismo – l’individuo miglior giudice di sé stesso, l’individuo razionale quello che massimizza il proprio interesse hic et nunc ubique et semper porta alla scissione tra etica ed economia, tra il singolo e le altre persone. Il neoliberismo assurto a stato di natura – secondo i suoi fautori.

L’accelerazione della globalizzazione e l’ulteriore apertura dei mercati intervenuta nella metà degli anni 90 accentuano enormemente il ruolo dei mercati stessi e la creazione delle catene globali del valore. LP cita il trilemma della globalizzazione di Dani Rodrik: l’impossibilità   della coesistenza tra iperglobalizzazione (alias globalizzazione non governata), lo stato nazionale e la democrazia. Ma i neoliberisti al governo in Europa, in America e in altri paesi riescono a consolidare l’idea che there is no alternative (TINA): le cose stanno andando come devono andare. I mercati competitivi sono in grado di risolvere quasi tutti i problemi economici e il ruolo dello Stato deve essere ridotto al minimo perché portatore di inefficienze e distorsioni rispetto alle preferenze dei cittadini-consumatori secondo le leggi di natura. 

Nel cap. 2 “Patologie della modernità e capitalismo come forma di vita” LP allarga il discorso. Prende le distanze da filosofie come il decostruzionismo di Derrida e dal pensiero di Foucault per recuperare un discorso neoumanistico e, in particolare, il discorso sull’alienazione di Rousseau, Marx, Fromm, Marcuse. Scompare il soggetto sul quale LP ha curato un altro importante libro. Scompare il futuro. Attraverso la pubblicità la gente comune è indotta a massimizzare i consumi presenti e tra i politici prevalgono quelli della veduta corta. 

Quindi passa ad esaminare il trittico della rivoluzione francese di cui Axel Honneth – il successore di Habermas alla direzione Scuola di critica sociale di Francoforte – ha dichiarato il fallimento. LP riprende Nancy Fraser e Rahel Jaeggi “le quali sostengono che nessuna pratica economica è neutrale e, pertanto, scissa dalla normatività, e che il capitalismo non va visto come semplice sistema economico ma come ordine sociale istituzionalizzato”.  Riprende le tesi della Jaeggi, quarta generazione della Scuola di Francoforte, sulle “Forme di vita e capitalismo” e le contraddizioni interne a quest’ultimo caratterizzato da qualcosa di intrinsecamente sbagliato nei limiti in cui produce una scissione netta tra etica ed economia che non trova precedenti nella storia.

Sulla libertà cita Hannah Arendt: “libertà è primariamente libertà di dialogare con gli altri “, è interazione soggettiva, richiede di stare con gli altri. Mi permetto di dissentire sull’avverbio primariamente. Va da sé che senza libertà non c’è democrazia ma, secondo me, specialmente guardando all’universo intero, al primo posto va messa la libertà dal bisogno. Se debbo pensare a alimentare me e la famiglia, a avere una casa, a vestirmi, ad avere un mezzo di trasporto per andare a lavorare lontano da casa allora non ho molto tempo per stare con gli altri e per occuparmi di politica.

Scrive Calamandrei che “La funzione dei diritti sociali è essenzialmente quella di garantire ad ognuno, a integrazione delle libertà politiche, quel minimo di “giustizia sociale”, ossia, di benessere economico, che appare indispensabile a liberare i non abbienti dalla schiavitù del bisogno e a metterli in condizioni di potersi valere anche di fatto di quelle libertà che di diritto sono proclamate come uguali per tutti”.  Ovviamente Laura Pennacchi recupera questi bisogni “all’interno di un equilibrio tra bisogni individuali e collettività, motivazioni auto-interessate e motivazioni sociali, autoconsiderazione e cura degli altri, sfera privata e sfera pubblica, l’esplorazione del quale è alla base della spinta morale” (p. 48). 

A p. 65 e segg. LP spiega le condizioni che fanno fiorire e deperire la democrazia: “se la democrazia, regime politico primariamente caratterizzato da governi aperti a tutti, non esalta l’insopprimibile valore degli esseri umani come soggetti capaci di discorso ragionato, argomentazione, dialogo, intercomunicatività, deperisce e muore”. 

Ma tornando specificamente ai diritti sociali il problema non è solo quello di elencarli come fanno alcuni giuristi italiani ma quello di indurre l’operatore pubblico a trovare le risorse pubbliche per soddisfarli – come sostiene Calamandre. In altre parole, il problema della libertà individuale e il problema della giustizia sociale sono un problema solo, perché se non c’è libertà dal bisogno non ci può essere esercizio effettivo delle libertà politiche.

Nel Cap. 3 entra nel vivo del discorso sulla democrazia economica come istituzione indispensabile per un nuovo modello di sviluppo a fondamento neoumanistico. Questo è fondato sul lavoro, i bisogni sociali, lo sviluppo della domanda interna. 

Sottolinea i limiti della proposta di Rawls sulla property owning democracy (76/77) dove già serpeggia l’idea di un modello autogestionario e/o stato cooperativo, alias, di un modello che vede i lavoratori nella scelta di cosa, come e per chi produrla. LP insiste a ragione sulla buona e piena occupazione. Anche Rawls e Freeman accennano a vite autodirette e se questo è vero siamo dentro il modello autogestionario dove i lavoratori sono ad un tempo proprietari e dipendenti; si alternano nei ruoli direttivi ed esecutivi. Il problema è che questo modello può funzionare meglio nelle PMI gestite da cooperative o da società di persone. Nelle grandi e specialmente nelle c.d. public company che sono sempre meno public e sempre più sotto il controllo dei manager predoni (l’aggettivo e mio), è probabilmente necessario percorrere vie intermedie che prevedono la rappresentanza come nella cogestione alla tedesca e si possono determinare anche problemi di rappresentatività. Si possono prevedere distribuzioni di azioni ai dipendenti e partecipazione di stakeholders.

La risposta generale mi sembra che stia nella democratizzazione della gestione delle imprese- come sostiene LP – e nel passaggio dai manager predoni a quelli statisti portatori di un’etica pubblica condivisa e di una conseguente teoria e pratica di giustizia sociale. E per le imprese è innanzitutto questione di controlli interni ed esterni, in sintesi, di controllo sociale.

LP vede nelle nuove tecnologie (innovazione) grosse istanze cooperative e la cosa non deve sorprendere se si pensa che senza cooperazione non si producono beni pubblici di sorta.

Per costruire il nuovo modello di sviluppo – afferma LP – “non bisogna lasciare le problematiche democratiche al di qua dei cancelli delle fabbriche “e, aggiungerei io, degli uffici pubblici e privati, delle start up, degli enti di ricerca, di innovazione e di formazione.

Se il lavoro deve diventare il primo obiettivo del nuovo modello di sviluppo allora bisogna affermare coerentemente che il diritto al lavoro viene prima del diritto di proprietà. Una considerazione che voglio fare al riguardo è che non basta scrivere nella costituzione che la Repubblica è fondata sul lavoro. Cito di nuovo Calamandrei che ha affermato che la Costituzione è un pezzo di carta che giace inerte per terra o dentro un cassetto se non trova le gambe per camminare. Più recentemente Wladimiro Zagrebelsky ha scritto un saggio sulla “solitudine” dell’art. 1 Cost che afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro e che meriterebbe maggiore attenzione. Ecco le gambe per camminare sono innanzitutto quelle dei lavoratori, degli imprenditori e dei loro sindacati che – possibilmente insieme – dovrebbero esercitare pressioni sui vari livelli di governo per adottare misure e investimenti mirati a perseguire la piena e buona occupazione e, quindi, uscire da posizioni difensive dell’esistente che, nella migliore delle ipotesi, salvaguardano alcuni posti di lavoro qui e li ma che non ci fanno uscire da una situazione di alta disoccupazione. Non solo, ma se come hanno sostenuto anche esponenti illuminati di Confindustria, se l’impresa è “una comunità di interessi e di destino”, allora si tratta di premere anche sulle organizzazioni datoriali per verificare la possibilità di fare passi avanti verso la democrazia economica – vedi in particolare Carlo Callieri. Viene da sé che per fare tutto questo, per fare avanzare la conversione ecologica, la digitalizzazione dell’economia e della società, per rimediare agli squilibri territoriali, per perseguire la buona e piena occupazione, in sintesi per promuovere lo sviluppo sostenuto e sostenibile, per passare ad un nuovo modello di sviluppo, bisogna avere piani a medio e lungo termine, bisogna riesumare la programmazione strategica e il metodo PPBS (planning, programming, budgeting system).  Governi ai vari livelli e parti sociali devono muoversi in sintonia e promuovere le migliori sinergie. È illusorio e ingannevole pensare che problemi di tanta rilevanza e complessità possano essere affrontati e risolti creando alcune cabine di regia o coll’assunzione di alcune centinaia di esperti esterni – supposto che ci siano. 

Il discorso sui sindacati merita un ulteriore piccolo approfondimento. Se lasciamo da parte l’esperienza dei consigli immediatamente dopo la II guerra mondiale e prendiamo in considerazione i comportamenti degli ultimi 70 anni e dividiamo questo lasso di tempo in due sottoperiodi, vediamo che nel primo periodo all’ingrosso è l’approccio conflittuale almeno nella percezione diffusa.  Con il referendum sulla scala mobile 1985 e con il protocollo Ciampi-Giugni del luglio 1993 – rimasto inattuato nella parte più significativa – i comportamenti sembrano essere cambiati anche se gli esiti non sono soddisfacenti anche a causa delle divisioni all’interno dei sindacati dei lavoratori e tra di essi.  Ma non c’è stato alcun passaggio netto ad un approccio cooperativo. Tenendo conto che l’auspicato nuovo modello di sviluppo chiama direttamente in causa non solo le organizzazioni datoriali ma anche le stesse forze politiche tra le quali prevale un becero approccio conflittuale, credo che introdurre in Italia strumenti sostanziali di democrazia economica sarà molto difficile se non impossibile. Per costruire la democrazia economica serve un forte spirito cooperativo che purtroppo in Italia manca.

Naturalmente queste difficoltà attuative nulla tolgono alla qualità dell’analisi e delle proposte che LP ha elaborato. Dobbiamo tutti augurarci che il suo libro ben scritto e accattivante diventi innanzitutto oggetto di dibattito pubblico e che coinvolga nella discussione non solo le parti sociali ma anche le forze politiche se vogliono avere una visione del futuro e rafforzare, attraverso la democrazia economica, la traballante democrazia politica.        

Alcune indicazioni bibliografiche:

Laura Pennacchi, De Valoribus Disputandum Est. Sui valori dopo il neoliberismo, Mimesis Edizioni, 2018, mio post 31marzo2019;

Laura Pennacchi (a cura di), Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, 2015;

Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo, a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna con il coordinamento dell’Area delle politiche di sviluppo della CGIL, Ediesse, Roma, 2015;

Zagrebelsky G. (2013), Fondata sul lavoro. La solitudine dell’art. 1, Einaudi, Torino; in S-5; recensione sul blog130624;

Paolo Bagnoli, Piero Calamandrei. L’uomo del ponte, fuori/onda, novembre 2012;

https://fondazionenenni.it/wp-content/uploads/2015/12/15-Callieri-1.pdf

Roberto Napoletano e il ritorno del Cavaliere bianco Mario Draghi

Ho trovato faticoso scrivere una recensione di un libro scritto come un diario delle cose pensate e scritte dal giorno in cui si è formato il governo Draghi. Anche per questo motivo Napoletano nel suo nuovo libro – Mario Draghi, Il ritorno del Cavaliere bianco, La nave di Teseo + giugno 2021 – torna ripetutamente su due problemi fondamentali che se non risolti al meglio potrebbero compromettere soprattutto il piano di rilancio e resilienza dell’economia italiana e la lotta alla Pandemia. I temi o problemi sono fondamentalmente due: 1) l’efficientamento della pubblica amministrazione ai vari livelli di governo; 2) la rimozione delle cause che hanno portato all’attuale stato di inefficienza della stessa PA. In effetti l’Autore indica quattro temi: 1) rinnovare la macchina politica e/o riforma della PA (84); 2) il problema del Mezzogiorno (88); 3) l’apertura dei cantieri alias “fare uscire gli investimenti da una situazione di stallo” (91); 4) la svolta europea con la Commissione che ci pungola e ci aiuta (94).  Anche se l’elenco dei problemi politici ed economici dell’Italia è ben più lungo di quello appena citato, risposte meglio argomentate si possono trovare nel suo precedente libro “La Grande balla del Sud che vive alle spalle del Nord”, La nave di Teseo. Napoletano ritorna sui primi due temi che ovviamente sono collegati alla qualità della classe politica nazionale e sub-centrale specialmente a quella regionale e al federalismo irresponsabile. Entrare nel merito delle affermazioni contenute nei diversi giorni del Diario mi porterebbe molto lontano e PQM entrerò nel merito solo dei temi più ripetuti o ripresi in esso ma che, secondo me, non sono chiariti a sufficienza per lo meno per un lettore comune.

Napoletano elogia Draghi il secondo De Gasperi, l’italiano meglio conosciuto nel mondo e più stimato di tutti, l’unico capace di promuovere non solo la ricostruzione economica ma anche quella morale del Paese.

76-77 Napoletano attacca la burocrazia affermando che “manca l’olio di gomito di un team di persone che sappia fare le cose”. Correttamente inteso il concetto significa che mancano le strutture di amministrazione attiva ed ordinaria che sappiano non solo elaborare programmi ma sappiano anche attuarli. Io credo che non sempre funzionano strutture inventate di esperti esterni che possano sostituire del tutto quelle ordinarie. Il problema vero è che alcuni settori irresponsabili della politica e degli stessi governi da decenni portano avanti azioni sistematiche di delegittimazione della burocrazia come se i burocrati fossero veri e propri componenti di un’associazione a delinquere. Questa operazione a volte portata avanti da membri degli stessi governi che sono a capo delle relative strutture amministrative ha effetti molto negativi sulla compattezza e sullo spirito di servizio dei burocrati. Si è poi introdotto lo spoils system che doveva risolvere casi di incompatibilità o di mancanza di fiducia tra i segretari generali di alcuni ministeri e il ministro di turno. Si è esteso il sistema della sostituzione oltre misura sull’assunto non dimostrato che chiunque venga dalla società civile è più bravo di qualsiasi burocrate di carriera creando, non di rado, situazioni imbarazzanti tra nominati incompetenti ma con la fiducia del ministro e funzionari di carriera profondi conoscitori della macchina amministrativa che devono spiegare per filo e per segno al loro superiore come si fanno le cose in certe strutture amministrative. E non finisce qui. Ogni anno dopo l’approvazione della legge di bilancio vengono assegnati gli obiettivi a tutti i dirigenti con o senza la fiducia del ministro ma per evitare la comparazione di merito non si procede ad alcuna attenta valutazione dei meriti e del conseguimento o meno degli obiettivi assegnati mettendo in non cale il d. lgs. n. 29/1993 e tutta la legislazione successiva che non posso esaminare in questa sede.

A p. 77 Napoletano cita “la mancanza della testa politica della macchina amministrativa”. Se il governo sconsideratamente nomina a capo di certe strutture amministrative persone incompetenti e poi arrivano ministri senza alcuna esperienza amministrativa ai livelli di base e a quelli intermedi e, per di più, delegittima i funzionari di carriera è chiaro che ti ritrovi con strutture ordinarie inefficienti.  Assumo che Napoletano converga con la mia tesi sulla necessità di strutture tecnocratiche stabili che sono fondamentali in generale e, ancor più, in un Paese dove la classe politica è di basso livello, i governi sono precari, dalla veduta e dalla durata corte. Si governa amministrando male e si amministra legiferando ancora peggio perché si procede con approccio puntuale e, non di rado, si assume che la legislazione precedente è tutta sbagliata e si sostituisce con una nuova che è tutta da sperimentare. In altre parole, spesso si interviene affrontando un problema alla volta: l’assenteismo e il tornello per controllarlo, la possibilità di licenziare i dirigenti, i metodi di incentivazione trascurando quasi sempre l’analisi dell’organizzazione del lavoro, la formazione continua. la migliore gestione del personale, la dotazione necessaria di mezzi materiali ed immateriali, ecc.

Non è un caso che l’Italia venga sistematicamente bocciata da strutture internazionali che si occupano dell’efficienza amministrativa. Prendo ad esempio la classifica dell’Università di Oxford che ci colloca al 27° posto sui 31 paesi avanzati presi in esame da Mirco Tonin e Francesco Trebbi.  I due professori commentano il rapporto “international civil service effectiveness” (INCISE) della Scuola di pubblica amministrazione dell’Università di Oxford – analogo a quello della Banca Mondiale Doing Business; gli effetti sono: la bassa efficacia della PA pesa in termini di costi sulle aziende private in misura quintupla rispetto al Canada che risulta al primo posto nella classifica citata, vedi il Sole 24 Ore del 18-07-2017.

L’altro grosso tema che Napoletano affronta ripetutamente è quello connesso proprio alla struttura complessiva dell’amministrazione e/o delle amministrazioni pubbliche. Il Nostro attribuisce la mancata crescita (stagnazione) degli ultimi venti anni al federalismo irresponsabile conseguente alla riforma del Titolo V Cost. ma lo fa senza chiarire bene che non siamo ancora in un vero assetto federale.  Cita a p. 126 lo squilibrio nella dotazione di asili nido tra la regione Emilia-Romagna e la Calabria senza ricordare che tale squilibrio era presente nei primi anni ’70 del secolo scorso quando non c’erano ancora e/o non erano operative neanche le RSO. Senza ricordare che correggere gli squilibri territoriali è compito fondamentale dello Stato. Per la cronaca, tale impegno era trattato dalla Commissione istituita dal Ministro del bilancio e della programmazione economica Antonio Giolitti che nei lavori preparatori del II piano quinquennale 1971-75 la Commissione dei conti pubblici nazionale di cui facevo parte ricevette il compito di calcolare il flusso di investimenti necessario per assicurare il tasso di crescita che potesse consentire alle regioni del Mezzogiorno di ridurre il divario con le regioni del Nord. Per procedere a tale calcolo il Presidente della Commissione prof. Parenti chiese al Presidente dell’IRI prof. Petrilli  i programmi di investimento delle imprese a partecipazione statale ma tale richiesta rimase inevasa nonostante essa fosse stata reiterata dal Segretario generale della programmazione Giorgio Ruffolo.  Purtroppo per via della crisi del Centro-sinistra del 1974 detto piano non fu mai varato.

Chiusa la parentesi, va chiarito che se tale divario persiste da oltre 50 anni, non è solo questione di macchina amministrativa. C’è anche questo problema ma c’è, in primo luogo, una questione di volontà politica come afferma lo stesso Napoletano quando scrive dell’assenza di testa politica della macchina.  Voglio essere chiaro su questo punto: una macchina amministrativa efficiente è fondamentale. Senza di essa non funziona nessuna forma di governo: né uno stato centralizzato né uno decentralizzato come quello che vuole la UE. Il federalismo è stato posto all’ordine del giorno a fine anni 80 e primi ’90 del secolo scorso dall’allora capo della Lega Nord On. Bossi ma tutti gli altri partiti erano contrari non solo al federalismo ma anche allo stesso Stato regionale previsto dalla Costituzione del 1948. La prova sta nel fatto che ci hanno messo oltre 25 anni per attuare le RSO operative. La legge che le istituisce è la n.281 del 1970 ma i decreti attuativi vengono completati nel 1976-77.  La legge istitutiva all’art. 9 prevedeva che la missione fondamentale delle RSO fosse l’elaborazione di piani regionali di sviluppo ma la venuta meno della programmazione nazionale ha portato le regioni a trascurare detta funzione e finiscono con il trasformarsi in stazioni di mediazioni politica. Ma con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978, alle regioni vengono assegnate importanti funzioni di gestioni amministrativa. Molte di esse non sono state capaci di istituire validi servizi ispettivi per controllare la spesa sanitaria che oscilla tra il 70 e il 75% dei loro bilanci.  Per brevità passo la riforma del Tit. V del 2001 approvata dal Centro-sinistra ma con ampio consenso del Centro-destra e delle Regioni. L’art. 118 novellato ha fatto qualcosa di peggio: ha trasferito la generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane salvo il ricorso alla sussidiarietà verticale per “assicurarne l’esercizio unitario”. Serviranno altri 8 anni per arrivare alla legge Calderoli n.42/2009 rimasta in gran parte nei cassetti anche a causa della crisi finanziaria mondiale. È un fatto che da venti anni stiamo in mezzo al guado e non sappiamo se andare avanti verso un assetto federale o regionale compiuto con congrui meccanismi perequativi e compensativi (vedi art. 119 Cost.), con l’attuazione seria dei livelli essenziali dell’assistenza LEA, dei livelli essenziali delle prestazioni LEP e l’abbandono definitivo del criterio della spesa storica – che continua ad alimentare squilibri – oppure tornare allo Stato centralizzato che di certo in 140 anni ha dato cattiva prova di sé.   

Garibaldi è stato l’eroe dei due mondi quando arrivò a Londra secondo lo storico Denis Mack Smith fu organizzata una manifestazione pubblica a cui avrebbero partecipato un milione di persone. Per Napoletano Draghi se non è l’uomo della Provvidenza poco ci manca. È l’italiano più conosciuto e stimato in Europa e nel mondo, che sa prendere le decisioni giuste al momento giusto, il secondo De Gasperi che può fare la ricostruzione non solo economica ma anche quella morale del Paese e Napoletano stesso avverte (199) “se non ci riesce Draghi, vuol dire che l’Italia è insalvabile”.

 Ma vengo ai temi 3 e 4 enunciati all’inizio: innescare un flusso sostenuto di investimenti e le regole fiscali europee. È vero che con il PNRR l’UE viene incontro all’Italia con dei prestiti non trascurabili e con dei contributi a fondo perduto ma fin qui non c’è niente di concreto in materia di riforma del Patto di stabilità e crescita – attualmente sospeso – né in materia di riforma del Fiscal Compact. Né il governo Draghi ha messo a punto delle proposte al riguardo.       

Per spiegare che salvare l’euro era una condizione necessaria ma non sufficiente per promuovere crescita sostenuta e sostenibile nella UE riprendo una breve analisi svolta nella recensione del volume sull’euro di Joseph Stiglitz del 2017. La premessa è che l’euro è il frutto di un approccio gradualista e funzionalista che ha funzionato ma non ha costruito gli strumenti necessari a livello centrale per promuovere la convergenza tra le regioni centrali (più sviluppate) e quelle periferiche.  Al riguardo ricordo che la teoria dell’area valutaria ottimale (AVO), elaborata in maniera significativa da Robert Mundell, presuppone una area geo-economica omogenea ma questa non c’è da nessuna parte se parliamo di regioni vaste come continenti. In presenza di squilibri territoriali l’AVO prescrive un sistema efficiente ed efficace di trasferimenti compensativi delle diseconomie esterne che gli operatori economici devono affrontare nelle aree periferiche e meno sviluppate: deficit infrastrutturali, distanza dai mercati, mancanza di manodopera qualificata, lentezza della giustizia civile, presenza di organizzazioni criminali, ecc. Si può ricordare che nella UE abbiamo già schemi di trasferimenti come i fondi strutturali e la politica di coesione economica e sociale ma sono dotati di risorse insufficienti. Non abbiamo un vero e proprio governo economico e finanziario al centro. Bisognerebbe aumentarle consistentemente per adeguarle ai fabbisogni e aumentare la loro efficacia potenziale. Ma gli squilibri strutturali e i divari territoriali sono fenomeni di lungo termine da affrontare con strategie di lungo termine. Scrive Stiglitz: non sono loro che hanno causato la crisi e servono altri strumenti per affrontare gli shock asimmetrici di breve-medio termine come quelli prodotti dalla finanza rapace. Servono altri strumenti e altre risorse e quelli fin qui creati – a dieci anni dall’inizio della crisi – sono alcuni del tutto inadeguati altri ancora da completare o costruire ex novo. Servirebbero soprattutto strumenti per il governo macro-economico dell’eurozona e dell’Unione a 27. La Germania e i suoi alleati di centro-destra hanno sempre respinto questa proposta nella fase decisiva della costruzione della moneta comune. Travolti dalla crisi alcuni Paesi Membri periferici sono stati in pratica commissariati dalla Troika (composta da rappresentanti della BCE, della CE e del FMI), con un ruolo egemonico della BCE. La Commissione Europea elabora programmi specifici per ciascun paese in crisi suddivisi in due parti: una prima contenente misure macro-economiche prevalentemente mirate a tagliare la spesa pubblica e/o aumentare le tasse per consolidare i conti pubblici; la seconda contenente prescrizioni circa le riforme strutturali da attuare per rendere i PM in crisi più efficienti e competitivi.  

Ora è vero che sulla carta il Trattato di Maastricht formalmente ha lasciato autonomia ai Paesi membri in materia di politica economica ma le regole per salvaguardare la stabilità monetaria, l’assenza di un bilancio comune in grado di far funzionare a dovere la funzione di allocazione e stabilizzazione macro-economica, le regole ancora più rigide introdotte con le riforme del PSC 2011 e il Fiscal Compact 2012, Six Pack, Two Pack, Europlus, MES, ecc.  hanno condizionato e continuano a condizionare una vera politica meridionalista nel nostro Paese. In altre parole, per via della rigidità delle regole fiscali macro-economiche europee non funziona la convergenza tra regioni centrali e periferiche dell’Unione e l’analoga rigidità della disciplina degli aiuti di Stato a livello decentrato non consente ai paesi di spingere per la convergenza tra le aree avanzate ed arretrate al loro interno. Ciò posto non voglio sminuire la rilevanza del salvataggio dell’euro deciso nel luglio 2012 che vede protagonista Draghi ovviamente supportato da tutto il Consiglio direttivo della BCE- dopo che la Merkel aveva frenato il falco Weidmann della Banca centrale tedesca.  Nonostante l’allentamento monetario ed alcune politiche monetarie non convenzionali come ad es. MRO, LTRO, FTO, SO, ecc. abbiamo avuto cinque anni di austerità perché con tassi di interesse vicini allo zero e deficit di domanda effettiva anche a livello globale la ripresa tarda ad arrivare. Draghi spesso ha evocato un miglior coordinamento delle politiche economiche ma non ho visto molte iniziative della BCE per completare l’Unione economica e monetaria e per dare un vero e proprio governo economico all’Unione.

Lungi da me la volontà di sminuire quello di buono che ha fatto Draghi in Europa salvando l’euro ma dopo, secondo me, non ha fatto – o non gli hanno consentito di fare – quello che era necessario per evitare le disastrose politiche di austerità imposte a senso unico su alcuni paesi periferici.

Circa la Troika e le sue malefatte contro la Grecia che – pur non esente da responsabilità – ha perso il 25% del suo PIL va precisato che il FMI dopo alcuni anni ha mostrato un certo ravvedimento operoso proponendo ad esempio un taglio del debito greco e ammettendo gli errori di calcolo sui moltiplicatori dei tagli alla spesa pubblica.  Qualche elemento di novità è venuto anche dalla Commissione europea la quale ha mostrato un timido nuovo approccio a favore della crescita con il c.d. Piano Juncker lanciato nel 2014. Nessuna traccia di ravvedimento da parte della BCE. Infatti, secondo il Presidente Draghi del quale cito tre affermazioni importanti dal discorso alla XVIII Conferenza di Francoforte del 6-04-2017: 1) la nostra politica monetaria sta funzionando; 2) la ripresa economica fa progressi; 3) la dinamica inflattiva dipende dalla continuazione dell’attuale politica monetaria e continuerà così finché essa si stabilizzerà attorno all’obiettivo prefissato del 2%. Non mi sfugge che in altre occasioni Draghi ha evocato il coordinamento delle politiche fiscali dei PM e che i suoi inviti sono rimasti inascoltati o difficili da mettere in atto. Se poi un Bollettino della stessa BCE ci dice che la vera disoccupazione è doppia (18%) rispetto a quella ufficiale, questo è un fatto di definizione statistica che ha attirato l’interesse dei media solo per un giorno. Se poi il divario tra PM del Nord e quelli del Sud cresce, questo dipende dagli squilibri storici che bisogna accettare come tali, anzi, come naturali come naturale definiscono gli economisti della BCE il tasso di disoccupazione italiano all’11,6%.  È un fatto che le politiche di austerità e le riforme strutturali proposte come ricetta unica per tutti i mali dei Paesi mediterranei finiscono con il neutralizzare la politica monetaria espansiva.

E vengo all’ultima perorazione di Napoletano per Draghi che ha la fiducia dei mercati, della Commissione europea e dei Grandi della terra ma lo stesso autore del libro deve ammettere che il suo Cavaliere bianco “non ha la bacchetta magica”, non è la fata turchina e, aggiungo io, deve svolgere la sua missione impossibile in un paese a bassa coesione sociale, dove non c’è una etica pubblica condivisa e, meno che mai, l’armonia sociale di confuciana memoria, dove prevalgono i rentier, i capitalisti finanziarizzati  sui lavoratori e la classe media  impoveriti dalla globalizzazione non governata, dove la sfiducia reciproca non riguarda solo i controllati e i controllori ma anche i poteri dello Stato e, paradossalmente i vari livelli di governo e le strutture amministrative che presiedono. A p. 194 Napoletano scrive che “senza fiducia e senza la mobilitazione delle coscienze la partita è persa in partenza”. PQM avverte che Draghi è l’unico che può promuovere la ricostruzione economica e morale del Paese e se lo si lascia solo fallirà anche lui. E se ciò dovesse accadere la colpa sarebbe di tutti gli italiani e in Europa e nel mondo tutti gli osservatori concluderebbero “se non riuscito Draghi, vuol dire che l’Italia è insalvabile” (199).

In conclusione, al netto delle insistite ripetizioni, di alcune sbavature agiografiche sul primo e secondo De Gasperi, sul vecchio e nuovo Cavaliere bianco, è apprezzabile l’impegno dell’Autore sulla questione meridionale e la sua centralità se l’Italia vuole avere una crescita sostenuta e sostenibile, se vuole avere un ruolo forte in Europa, nel Mondo e specialmente nel Mediterraneo. PQM il libro di Roberto Napoletano merita di essere letto e meditato con grande attenzione perché esamina molti dei nodi che bloccano l’economia, la società e la politica italiana – magari insieme a quello di Carlo Cottarelli, i sette peccati capitali dell’economica italiana, (mio post190512) e a quello di Luigi Paganetto, Rivitalizzare un’Europa (e un’Italia) anemica, Eurlink University Press, novembre 2020 (mio post210508).

Altri rinvii bibliografici.

Enzo F. Russo, La strada ostruita del federalismo in Italia, La Sapienza editrice, Roma, 2000;

Joseph E. Stiglitz, L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Giulio Einaudi Torino, 2017.

L’imbroglio degli indici sintetici di affidabilità fiscale.

Mentre si discute di una improbabile riforma fiscale di ampio respiro, pochi addetti ai lavori sanno che in realtà, da circa due anni a questa parte, è in corso un radicale cambio di paradigma culturale circa le modalità di attuare il vecchio sistema tributario e, probabilmente, quello che uscirà dalla riforma fiscale di cui al programma del Governo Draghi.

Questa nota prende lo spunto dalla pubblicazione di un comunicato stampa del MEF in data 14-07- 2021 sulle dichiarazioni fiscali dell’anno di imposta 2019 – il secondo anno di vigenza degli ISA entrati in vigore l’anno prima. L’acronimo ISA sta per indici sintetici di affidabilità fiscale che hanno sostituito gli studi di settore che, a loro volta, hanno sostituito gli indici presuntivi di reddito per diversi settori produttivi. Siamo nel campo degli ausili all’attività di accertamento dei redditi e del fatturato da parte dei verificatori della Guardia di Finanza- come noto corpo militare – e dei verificatori civili ora dipendenti dell’Agenzia delle entrate – d’ora in poi ADE. L’elaborazione di detti ausili era mirata ad aiutare nel loro lavoro i verificatori militari e civili non potendo questi avere competenze specifiche nei più disparati settori produttivi, della distribuzione all’ingrosso e al consumo.

Alla fine essi furono introdotti con decreto legge 30 agosto 1993 n. 331, convertito con modificazioni dalla legge 29 ottobre 1993 n. 427; l’effettivo utilizzo degli studi di settore avveniva gradualmente via via che si elaboravano gli studi e che essi venivano “coonestati” da una commissione in cui erano presenti membri esperti delle categorie interessate.  Prassi non usuale nei Paesi anglo-sassoni. Vedi il caso USA dove la c.d. funzione discriminante che utilizza l’Internal Revenue Service (IRS) è mantenuta segreta. Gli studi di settore richiesero un decennio di studi, di raccolta di dati ed elaborazioni da ultimo da parte della SOSE un’apposita società di studi partecipata dal MEF (88%) e dalla Banca d’Italia (12%) costituita in base all’art. 10 della legge n. 146/1998 che si avvale di 64 statistici, 33 economisti, 27 informatici e 38 unità di staff.

Ma in Italia l’introduzione degli SDS ha incontrato subito una forte ostilità  non solo da parte dei contribuenti ma soprattutto dalla giurisprudenza di merito delle Commissioni tributarie e  di quella di legittimità della Suprema Corte di Cassazione che, incapace di entrare nel merito  della complessa metodologia dei cluster gruppi di operatori omogenei in diverse parti del territori urbani e non e all’interno dei primi a sua volta suddivisi in aree centrali, periferiche, semiperiferiche e delle regressioni statistiche che calcolavano gli indici, si limitavano ad affermare che non si potevano fare accertamenti dei redditi e dei ricavi per medie.

Tale opposizione portò il ministro V. Visco di ritorno al MEF nel governo Prodi-2 a promuovere una revisione della metodologia all’interno della legge finanziaria 2007 (art. 1 comma 17) che riduceva le modalità di utilizzazione degli SDS in sede di accertamento, il livello delle sanzioni applicabili e introduceva incentivi in caso di adeguamento di ricavi o compensi pari o superiori ai livelli di congruità definiti con gli SDS.        

Per effetto di tale novella, in sede di rettifica del reddito d’impresa o dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione, è precluso l’utilizzo di presunzioni semplici[5] – anche se gravi, precise e concordanti – qualora il contribuente destinatario dell’accertamento abbia dichiarato, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello di congruità rilevante ai fini dell’applicazione degli studi di settore, anche tenendo conto degli specifici indicatori definiti a norma del citato comma 2 dell’articolo 10-bis della legge n. 146 del 1998”.

Dieci anni dopo il governo Gentiloni – Pier Carlo Padoan al MEF – viene attuato il passo più decisivo di “abbandono” degli SDS per passare agli ISA. Cambio radicale di paradigma? Si e no. Per chiarire il significato di questo passaggio ho trovato utile la lettura dell’audizione del prof. Vincenzo Atella presidente della SOSE davanti alla VI Commissione finanze del Senato in data 16-07-2019. Ha presentato numerose tabelle che dimostrerebbero l’eccezionale successo degli SDS con statistiche che coprono il periodo 1997-2018 e il sotto-periodo 2011-2017. Ironicamente, uno potrebbe dire proprio perché avevano avuto successo alla fine se n’è decretato l’abbandono o meglio il loro utilizzo come gli insulsi ISA. Come si spiega questo apparente paradosso? Secondo una mia lettura maliziosa dell’operazione, si spiega con l’ulteriore ricerca di un nuovo rapporto (di cooperative compliance) tra Fisco e contribuenti adottato e propalato dai ministri delle finanze dei governi degli ultimi 15 anni. Non più trattamento severo degli evasori più renitenti come propone un Rapporto OCSE sull’amministrazione finanziaria italiana del 2016 ma solo “spinta gentile” all’adeguamento, non più controlli approfonditi dei loro comportamenti ma aumento degli incentivi all’adesione. Debbo precisare che anche l’OCSE propone la cooperative compliance ma non esclude anzi raccomanda la severità con gli evasori incalliti – in Italia incentivati o diseducati dai ricorrenti condoni.  Con l’adozione degli ISA in qualche modo viene giustificato il calo di controlli, delle indagini bancarie e finanziarie, del mancato utilizzo delle banche dati che il governo Monti aveva incrementato. Si tenga conto che negli stessi anni per via del blocco del turnover la sola ADE ha perso 11 mila unità lavorative e non sono state rimpiazzate.

 E per altro verso, va tenuto presente che per via degli aiuti erogati a famiglie e imprese i compiti di controllo dell’AdE e della GdF sono considerevolmente aumentati.  Ragionando più freddamene, se uno prende sul serio che la metodologia di costruzione degli ISA – a detta del prof. Atella – altro non è che uno sviluppo ed affinamento della metodologia degli SDS, allora appare chiaro un importante effetto collaterale del passaggio: 1) un minor numero di controlli approfonditi; 2) maggiori incentivi all’adesione – entrambi giustificabili dalla cooperative compliance. In un modo o nell’altro anche in materia di lotta all’evasione fiscale si sta perseguendo non il rigore necessario per attuare la giustizia fiscale – grossa parte della giustizia sociale – ma l’allargamento dell’area dell’impunità. Anche in questo campo si può riscontrare lo stesso approccio seguito con la riforma della giustizia penale laddove con la improcedibilità automatica all’interno del processo si riducono i tempi della prescrizione. Da decenni ormai il MIFIN non pubblica gli elenchi degli evasori. Con gli ISA e i maggiori incentivi avremo statistiche che evidenzieranno numeri crescenti di contribuenti fiscalmente affidabili mentre pensionati e lavoratori dipendenti soggetti a ritenuta alla fonte rimarranno tartassati come purtroppo prevedono certe simulazioni (anche di fonte ministeriale) di alcune proposte di riforma fiscale.

Note bibliografiche.  

https://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2021/Analisi-e-statistiche-sulle-dichiarazioni-fiscali-2020-Indici-Sintetici-di-Affidabilita-fiscale-Irpef-titolari-di-partita-Iva-e-per-reddito-prevalente/

https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/016/301/Audizione_SOSE.pdf audizione del prof. V. Atella presidente SOSE VI Comm Senato 16-07-2019.

OECD (2016), Italy’s Tax Administration, Paris

https://www.finanze.gov.it/export/sites/finanze/it/.content/Documenti/Varie/Rapporto_OCSE_Eng.pdf

Debolezza della informatica delle pubbliche amministrazioni.

L’informatica delle pubbliche amministrazioni italiane come, da ultimo ha detto il ministro Colao, non solo è nel caos ma è anche un colabrodo rispetto a probabili attacchi esterni da parte degli hacker.  Vedi da ultimo il caso del sistema informativo della sanità della Regione Lazio. Più in generale, vedi il caso del collegamento degli Uffici anagrafe dei 8.103 comuni italiani in atto solo per alcune centinaia di essi – secondo quanto risulta da alcune indagini giornalistiche.

Provenendo io dal settore pubblico prima lo stipendio e poi la pensione erano gestiti dall’INPDAP. Da quando l’INPS ha incorporato il primo ente non ricevo alcun riscontro cartaceo della mia pensione. Mensilmente posso verificare solo la somma netta versata dall’INPS e posso farlo perché uso con frequenza la banca on line. Nella Primavera volendo ritirare la delega a riscotere la pensione ad una banca per darla ad un’altra prima mi dicono che bisognava scaricare dal sito web dell’INPS un apposito modello con cui fare la richiesta. Non c’è stato verso di farlo perché nel frattempo quel modello mi hanno spiegato successivamente era stato abrogato.    Bisognava però scaricare un codice identificativo della pensione mai ricevuto dall’INPS e che bisogna darlo alla nuova banca scelta che può avanzare direttamente la richiesta. Inutili i miei diversi tentativi di ottenere suddetto codice on line.

Nella frustrazione che ti prende in questi casi, mi sono ricordato di avere un amico importante dentro l’INPS e superando la mia ritrosia a sfruttare le amicizie personali per ottenere qualcosa che dovresti ottenere da solo, mi sono rivolto a lui. Ha ammesso che la situazione del sito web è molto problematica e che mi avrebbe fatto fare l’operazione d’ufficio. In secondo luogo, mi ha spiegato che il motivo per cui l’INPS non manda agli interessati alcuna documentazione è il risparmio di carta ma che, in teoria, si può entrare nel sito e trovarlo da soli. Ho provato a farlo ma non ci sono riuscito. Devo dire che le schermate che illustrano quello che puoi fare nel sito non sono né chiare né semplici. E’ un problema frequente degli informatici italiani mi ha spiegato un esperto. Anche quando i nostri riescono a mettere in piedi una buona procedura non di rado non la sanno spiegare bene ad un utente comune che non ha studiato informatica. Se aggiungi poi che il sito web è spesso congestionato succede che la procedura poco chiara che stai seguendo si blocca e devi ricominciare tutto da capo.  La prova provata è che la procedura di ufficio di cui ho potuto avvantaggiarmi grazie all’amico VIP per diventare operativa ha richiesto oltre due mesi di tempo.

Mi è stato spiegato che i dirigenti dell’INPS e suppongo anche il Presidente sono al corrente del malfunzionamento del sito e sono in corso lavori per renderlo più efficiente. Per ora resta il fatto che un pensionato non digitale non può sapere come è stata calcolata la sua pensione, quanta Irpef, quante addizionali regionali, locali e ambientali sono state trattenute alla fonte in modo non trasparente.  

 ANPR – Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente|Agenzia per l’Italia digitale (agid.gov.it)   

@enzorus2020