Roberto Napoletano e il ritorno del Cavaliere bianco Mario Draghi

Ho trovato faticoso scrivere una recensione di un libro scritto come un diario delle cose pensate e scritte dal giorno in cui si è formato il governo Draghi. Anche per questo motivo Napoletano nel suo nuovo libro – Mario Draghi, Il ritorno del Cavaliere bianco, La nave di Teseo + giugno 2021 – torna ripetutamente su due problemi fondamentali che se non risolti al meglio potrebbero compromettere soprattutto il piano di rilancio e resilienza dell’economia italiana e la lotta alla Pandemia. I temi o problemi sono fondamentalmente due: 1) l’efficientamento della pubblica amministrazione ai vari livelli di governo; 2) la rimozione delle cause che hanno portato all’attuale stato di inefficienza della stessa PA. In effetti l’Autore indica quattro temi: 1) rinnovare la macchina politica e/o riforma della PA (84); 2) il problema del Mezzogiorno (88); 3) l’apertura dei cantieri alias “fare uscire gli investimenti da una situazione di stallo” (91); 4) la svolta europea con la Commissione che ci pungola e ci aiuta (94).  Anche se l’elenco dei problemi politici ed economici dell’Italia è ben più lungo di quello appena citato, risposte meglio argomentate si possono trovare nel suo precedente libro “La Grande balla del Sud che vive alle spalle del Nord”, La nave di Teseo. Napoletano ritorna sui primi due temi che ovviamente sono collegati alla qualità della classe politica nazionale e sub-centrale specialmente a quella regionale e al federalismo irresponsabile. Entrare nel merito delle affermazioni contenute nei diversi giorni del Diario mi porterebbe molto lontano e PQM entrerò nel merito solo dei temi più ripetuti o ripresi in esso ma che, secondo me, non sono chiariti a sufficienza per lo meno per un lettore comune.

Napoletano elogia Draghi il secondo De Gasperi, l’italiano meglio conosciuto nel mondo e più stimato di tutti, l’unico capace di promuovere non solo la ricostruzione economica ma anche quella morale del Paese.

76-77 Napoletano attacca la burocrazia affermando che “manca l’olio di gomito di un team di persone che sappia fare le cose”. Correttamente inteso il concetto significa che mancano le strutture di amministrazione attiva ed ordinaria che sappiano non solo elaborare programmi ma sappiano anche attuarli. Io credo che non sempre funzionano strutture inventate di esperti esterni che possano sostituire del tutto quelle ordinarie. Il problema vero è che alcuni settori irresponsabili della politica e degli stessi governi da decenni portano avanti azioni sistematiche di delegittimazione della burocrazia come se i burocrati fossero veri e propri componenti di un’associazione a delinquere. Questa operazione a volte portata avanti da membri degli stessi governi che sono a capo delle relative strutture amministrative ha effetti molto negativi sulla compattezza e sullo spirito di servizio dei burocrati. Si è poi introdotto lo spoils system che doveva risolvere casi di incompatibilità o di mancanza di fiducia tra i segretari generali di alcuni ministeri e il ministro di turno. Si è esteso il sistema della sostituzione oltre misura sull’assunto non dimostrato che chiunque venga dalla società civile è più bravo di qualsiasi burocrate di carriera creando, non di rado, situazioni imbarazzanti tra nominati incompetenti ma con la fiducia del ministro e funzionari di carriera profondi conoscitori della macchina amministrativa che devono spiegare per filo e per segno al loro superiore come si fanno le cose in certe strutture amministrative. E non finisce qui. Ogni anno dopo l’approvazione della legge di bilancio vengono assegnati gli obiettivi a tutti i dirigenti con o senza la fiducia del ministro ma per evitare la comparazione di merito non si procede ad alcuna attenta valutazione dei meriti e del conseguimento o meno degli obiettivi assegnati mettendo in non cale il d. lgs. n. 29/1993 e tutta la legislazione successiva che non posso esaminare in questa sede.

A p. 77 Napoletano cita “la mancanza della testa politica della macchina amministrativa”. Se il governo sconsideratamente nomina a capo di certe strutture amministrative persone incompetenti e poi arrivano ministri senza alcuna esperienza amministrativa ai livelli di base e a quelli intermedi e, per di più, delegittima i funzionari di carriera è chiaro che ti ritrovi con strutture ordinarie inefficienti.  Assumo che Napoletano converga con la mia tesi sulla necessità di strutture tecnocratiche stabili che sono fondamentali in generale e, ancor più, in un Paese dove la classe politica è di basso livello, i governi sono precari, dalla veduta e dalla durata corte. Si governa amministrando male e si amministra legiferando ancora peggio perché si procede con approccio puntuale e, non di rado, si assume che la legislazione precedente è tutta sbagliata e si sostituisce con una nuova che è tutta da sperimentare. In altre parole, spesso si interviene affrontando un problema alla volta: l’assenteismo e il tornello per controllarlo, la possibilità di licenziare i dirigenti, i metodi di incentivazione trascurando quasi sempre l’analisi dell’organizzazione del lavoro, la formazione continua. la migliore gestione del personale, la dotazione necessaria di mezzi materiali ed immateriali, ecc.

Non è un caso che l’Italia venga sistematicamente bocciata da strutture internazionali che si occupano dell’efficienza amministrativa. Prendo ad esempio la classifica dell’Università di Oxford che ci colloca al 27° posto sui 31 paesi avanzati presi in esame da Mirco Tonin e Francesco Trebbi.  I due professori commentano il rapporto “international civil service effectiveness” (INCISE) della Scuola di pubblica amministrazione dell’Università di Oxford – analogo a quello della Banca Mondiale Doing Business; gli effetti sono: la bassa efficacia della PA pesa in termini di costi sulle aziende private in misura quintupla rispetto al Canada che risulta al primo posto nella classifica citata, vedi il Sole 24 Ore del 18-07-2017.

L’altro grosso tema che Napoletano affronta ripetutamente è quello connesso proprio alla struttura complessiva dell’amministrazione e/o delle amministrazioni pubbliche. Il Nostro attribuisce la mancata crescita (stagnazione) degli ultimi venti anni al federalismo irresponsabile conseguente alla riforma del Titolo V Cost. ma lo fa senza chiarire bene che non siamo ancora in un vero assetto federale.  Cita a p. 126 lo squilibrio nella dotazione di asili nido tra la regione Emilia-Romagna e la Calabria senza ricordare che tale squilibrio era presente nei primi anni ’70 del secolo scorso quando non c’erano ancora e/o non erano operative neanche le RSO. Senza ricordare che correggere gli squilibri territoriali è compito fondamentale dello Stato. Per la cronaca, tale impegno era trattato dalla Commissione istituita dal Ministro del bilancio e della programmazione economica Antonio Giolitti che nei lavori preparatori del II piano quinquennale 1971-75 la Commissione dei conti pubblici nazionale di cui facevo parte ricevette il compito di calcolare il flusso di investimenti necessario per assicurare il tasso di crescita che potesse consentire alle regioni del Mezzogiorno di ridurre il divario con le regioni del Nord. Per procedere a tale calcolo il Presidente della Commissione prof. Parenti chiese al Presidente dell’IRI prof. Petrilli  i programmi di investimento delle imprese a partecipazione statale ma tale richiesta rimase inevasa nonostante essa fosse stata reiterata dal Segretario generale della programmazione Giorgio Ruffolo.  Purtroppo per via della crisi del Centro-sinistra del 1974 detto piano non fu mai varato.

Chiusa la parentesi, va chiarito che se tale divario persiste da oltre 50 anni, non è solo questione di macchina amministrativa. C’è anche questo problema ma c’è, in primo luogo, una questione di volontà politica come afferma lo stesso Napoletano quando scrive dell’assenza di testa politica della macchina.  Voglio essere chiaro su questo punto: una macchina amministrativa efficiente è fondamentale. Senza di essa non funziona nessuna forma di governo: né uno stato centralizzato né uno decentralizzato come quello che vuole la UE. Il federalismo è stato posto all’ordine del giorno a fine anni 80 e primi ’90 del secolo scorso dall’allora capo della Lega Nord On. Bossi ma tutti gli altri partiti erano contrari non solo al federalismo ma anche allo stesso Stato regionale previsto dalla Costituzione del 1948. La prova sta nel fatto che ci hanno messo oltre 25 anni per attuare le RSO operative. La legge che le istituisce è la n.281 del 1970 ma i decreti attuativi vengono completati nel 1976-77.  La legge istitutiva all’art. 9 prevedeva che la missione fondamentale delle RSO fosse l’elaborazione di piani regionali di sviluppo ma la venuta meno della programmazione nazionale ha portato le regioni a trascurare detta funzione e finiscono con il trasformarsi in stazioni di mediazioni politica. Ma con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978, alle regioni vengono assegnate importanti funzioni di gestioni amministrativa. Molte di esse non sono state capaci di istituire validi servizi ispettivi per controllare la spesa sanitaria che oscilla tra il 70 e il 75% dei loro bilanci.  Per brevità passo la riforma del Tit. V del 2001 approvata dal Centro-sinistra ma con ampio consenso del Centro-destra e delle Regioni. L’art. 118 novellato ha fatto qualcosa di peggio: ha trasferito la generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane salvo il ricorso alla sussidiarietà verticale per “assicurarne l’esercizio unitario”. Serviranno altri 8 anni per arrivare alla legge Calderoli n.42/2009 rimasta in gran parte nei cassetti anche a causa della crisi finanziaria mondiale. È un fatto che da venti anni stiamo in mezzo al guado e non sappiamo se andare avanti verso un assetto federale o regionale compiuto con congrui meccanismi perequativi e compensativi (vedi art. 119 Cost.), con l’attuazione seria dei livelli essenziali dell’assistenza LEA, dei livelli essenziali delle prestazioni LEP e l’abbandono definitivo del criterio della spesa storica – che continua ad alimentare squilibri – oppure tornare allo Stato centralizzato che di certo in 140 anni ha dato cattiva prova di sé.   

Garibaldi è stato l’eroe dei due mondi quando arrivò a Londra secondo lo storico Denis Mack Smith fu organizzata una manifestazione pubblica a cui avrebbero partecipato un milione di persone. Per Napoletano Draghi se non è l’uomo della Provvidenza poco ci manca. È l’italiano più conosciuto e stimato in Europa e nel mondo, che sa prendere le decisioni giuste al momento giusto, il secondo De Gasperi che può fare la ricostruzione non solo economica ma anche quella morale del Paese e Napoletano stesso avverte (199) “se non ci riesce Draghi, vuol dire che l’Italia è insalvabile”.

 Ma vengo ai temi 3 e 4 enunciati all’inizio: innescare un flusso sostenuto di investimenti e le regole fiscali europee. È vero che con il PNRR l’UE viene incontro all’Italia con dei prestiti non trascurabili e con dei contributi a fondo perduto ma fin qui non c’è niente di concreto in materia di riforma del Patto di stabilità e crescita – attualmente sospeso – né in materia di riforma del Fiscal Compact. Né il governo Draghi ha messo a punto delle proposte al riguardo.       

Per spiegare che salvare l’euro era una condizione necessaria ma non sufficiente per promuovere crescita sostenuta e sostenibile nella UE riprendo una breve analisi svolta nella recensione del volume sull’euro di Joseph Stiglitz del 2017. La premessa è che l’euro è il frutto di un approccio gradualista e funzionalista che ha funzionato ma non ha costruito gli strumenti necessari a livello centrale per promuovere la convergenza tra le regioni centrali (più sviluppate) e quelle periferiche.  Al riguardo ricordo che la teoria dell’area valutaria ottimale (AVO), elaborata in maniera significativa da Robert Mundell, presuppone una area geo-economica omogenea ma questa non c’è da nessuna parte se parliamo di regioni vaste come continenti. In presenza di squilibri territoriali l’AVO prescrive un sistema efficiente ed efficace di trasferimenti compensativi delle diseconomie esterne che gli operatori economici devono affrontare nelle aree periferiche e meno sviluppate: deficit infrastrutturali, distanza dai mercati, mancanza di manodopera qualificata, lentezza della giustizia civile, presenza di organizzazioni criminali, ecc. Si può ricordare che nella UE abbiamo già schemi di trasferimenti come i fondi strutturali e la politica di coesione economica e sociale ma sono dotati di risorse insufficienti. Non abbiamo un vero e proprio governo economico e finanziario al centro. Bisognerebbe aumentarle consistentemente per adeguarle ai fabbisogni e aumentare la loro efficacia potenziale. Ma gli squilibri strutturali e i divari territoriali sono fenomeni di lungo termine da affrontare con strategie di lungo termine. Scrive Stiglitz: non sono loro che hanno causato la crisi e servono altri strumenti per affrontare gli shock asimmetrici di breve-medio termine come quelli prodotti dalla finanza rapace. Servono altri strumenti e altre risorse e quelli fin qui creati – a dieci anni dall’inizio della crisi – sono alcuni del tutto inadeguati altri ancora da completare o costruire ex novo. Servirebbero soprattutto strumenti per il governo macro-economico dell’eurozona e dell’Unione a 27. La Germania e i suoi alleati di centro-destra hanno sempre respinto questa proposta nella fase decisiva della costruzione della moneta comune. Travolti dalla crisi alcuni Paesi Membri periferici sono stati in pratica commissariati dalla Troika (composta da rappresentanti della BCE, della CE e del FMI), con un ruolo egemonico della BCE. La Commissione Europea elabora programmi specifici per ciascun paese in crisi suddivisi in due parti: una prima contenente misure macro-economiche prevalentemente mirate a tagliare la spesa pubblica e/o aumentare le tasse per consolidare i conti pubblici; la seconda contenente prescrizioni circa le riforme strutturali da attuare per rendere i PM in crisi più efficienti e competitivi.  

Ora è vero che sulla carta il Trattato di Maastricht formalmente ha lasciato autonomia ai Paesi membri in materia di politica economica ma le regole per salvaguardare la stabilità monetaria, l’assenza di un bilancio comune in grado di far funzionare a dovere la funzione di allocazione e stabilizzazione macro-economica, le regole ancora più rigide introdotte con le riforme del PSC 2011 e il Fiscal Compact 2012, Six Pack, Two Pack, Europlus, MES, ecc.  hanno condizionato e continuano a condizionare una vera politica meridionalista nel nostro Paese. In altre parole, per via della rigidità delle regole fiscali macro-economiche europee non funziona la convergenza tra regioni centrali e periferiche dell’Unione e l’analoga rigidità della disciplina degli aiuti di Stato a livello decentrato non consente ai paesi di spingere per la convergenza tra le aree avanzate ed arretrate al loro interno. Ciò posto non voglio sminuire la rilevanza del salvataggio dell’euro deciso nel luglio 2012 che vede protagonista Draghi ovviamente supportato da tutto il Consiglio direttivo della BCE- dopo che la Merkel aveva frenato il falco Weidmann della Banca centrale tedesca.  Nonostante l’allentamento monetario ed alcune politiche monetarie non convenzionali come ad es. MRO, LTRO, FTO, SO, ecc. abbiamo avuto cinque anni di austerità perché con tassi di interesse vicini allo zero e deficit di domanda effettiva anche a livello globale la ripresa tarda ad arrivare. Draghi spesso ha evocato un miglior coordinamento delle politiche economiche ma non ho visto molte iniziative della BCE per completare l’Unione economica e monetaria e per dare un vero e proprio governo economico all’Unione.

Lungi da me la volontà di sminuire quello di buono che ha fatto Draghi in Europa salvando l’euro ma dopo, secondo me, non ha fatto – o non gli hanno consentito di fare – quello che era necessario per evitare le disastrose politiche di austerità imposte a senso unico su alcuni paesi periferici.

Circa la Troika e le sue malefatte contro la Grecia che – pur non esente da responsabilità – ha perso il 25% del suo PIL va precisato che il FMI dopo alcuni anni ha mostrato un certo ravvedimento operoso proponendo ad esempio un taglio del debito greco e ammettendo gli errori di calcolo sui moltiplicatori dei tagli alla spesa pubblica.  Qualche elemento di novità è venuto anche dalla Commissione europea la quale ha mostrato un timido nuovo approccio a favore della crescita con il c.d. Piano Juncker lanciato nel 2014. Nessuna traccia di ravvedimento da parte della BCE. Infatti, secondo il Presidente Draghi del quale cito tre affermazioni importanti dal discorso alla XVIII Conferenza di Francoforte del 6-04-2017: 1) la nostra politica monetaria sta funzionando; 2) la ripresa economica fa progressi; 3) la dinamica inflattiva dipende dalla continuazione dell’attuale politica monetaria e continuerà così finché essa si stabilizzerà attorno all’obiettivo prefissato del 2%. Non mi sfugge che in altre occasioni Draghi ha evocato il coordinamento delle politiche fiscali dei PM e che i suoi inviti sono rimasti inascoltati o difficili da mettere in atto. Se poi un Bollettino della stessa BCE ci dice che la vera disoccupazione è doppia (18%) rispetto a quella ufficiale, questo è un fatto di definizione statistica che ha attirato l’interesse dei media solo per un giorno. Se poi il divario tra PM del Nord e quelli del Sud cresce, questo dipende dagli squilibri storici che bisogna accettare come tali, anzi, come naturali come naturale definiscono gli economisti della BCE il tasso di disoccupazione italiano all’11,6%.  È un fatto che le politiche di austerità e le riforme strutturali proposte come ricetta unica per tutti i mali dei Paesi mediterranei finiscono con il neutralizzare la politica monetaria espansiva.

E vengo all’ultima perorazione di Napoletano per Draghi che ha la fiducia dei mercati, della Commissione europea e dei Grandi della terra ma lo stesso autore del libro deve ammettere che il suo Cavaliere bianco “non ha la bacchetta magica”, non è la fata turchina e, aggiungo io, deve svolgere la sua missione impossibile in un paese a bassa coesione sociale, dove non c’è una etica pubblica condivisa e, meno che mai, l’armonia sociale di confuciana memoria, dove prevalgono i rentier, i capitalisti finanziarizzati  sui lavoratori e la classe media  impoveriti dalla globalizzazione non governata, dove la sfiducia reciproca non riguarda solo i controllati e i controllori ma anche i poteri dello Stato e, paradossalmente i vari livelli di governo e le strutture amministrative che presiedono. A p. 194 Napoletano scrive che “senza fiducia e senza la mobilitazione delle coscienze la partita è persa in partenza”. PQM avverte che Draghi è l’unico che può promuovere la ricostruzione economica e morale del Paese e se lo si lascia solo fallirà anche lui. E se ciò dovesse accadere la colpa sarebbe di tutti gli italiani e in Europa e nel mondo tutti gli osservatori concluderebbero “se non riuscito Draghi, vuol dire che l’Italia è insalvabile” (199).

In conclusione, al netto delle insistite ripetizioni, di alcune sbavature agiografiche sul primo e secondo De Gasperi, sul vecchio e nuovo Cavaliere bianco, è apprezzabile l’impegno dell’Autore sulla questione meridionale e la sua centralità se l’Italia vuole avere una crescita sostenuta e sostenibile, se vuole avere un ruolo forte in Europa, nel Mondo e specialmente nel Mediterraneo. PQM il libro di Roberto Napoletano merita di essere letto e meditato con grande attenzione perché esamina molti dei nodi che bloccano l’economia, la società e la politica italiana – magari insieme a quello di Carlo Cottarelli, i sette peccati capitali dell’economica italiana, (mio post190512) e a quello di Luigi Paganetto, Rivitalizzare un’Europa (e un’Italia) anemica, Eurlink University Press, novembre 2020 (mio post210508).

Altri rinvii bibliografici.

Enzo F. Russo, La strada ostruita del federalismo in Italia, La Sapienza editrice, Roma, 2000;

Joseph E. Stiglitz, L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Giulio Einaudi Torino, 2017.

Perché l’Italia sta sull’orlo del precipizio.

I Sette peccati capitali dell’economia italiana (Feltrinelli 2018) secondo Carlo Cottarelli sono: 1) l’evasione fiscale; 2) la corruzione; 3) l’eccesso di burocrazia; 4) la lentezza della giustizia; 5) il crollo demografico; 6) il divario tra Nord e Sud; 7) la difficoltà a convivere con l’euro. E’ evidente che i primi quattro peccati sono strettamente collegati tra di loro e hanno a che fare con il funzionamento delle nostre istituzioni.

1) l’evasione fiscale.  Cottarelli fa un breve excursus sulle misure adottate per contrastare l’evasione; si sofferma in particolare sulle continue modifiche dei tetti all’utilizzo del contante da 1000 a 3000 euro in un paese che usa molto il contante e critica tale misura come un segnale sbagliato. Uguale giudizio critico dà delle voluntary disclosures (condoni belli e buoni) che in Italia prevedono trattamenti molto generosi: tagliano interessi e sanzioni sulle somme non pagate mentre in altri paesi si limitano a tagliare solo le sanzioni penali. In Italia l’evasione fiscale è un retaggio storico negativo di cui non riusciamo a liberarci per diversi motivi: a) l’illegalità  diffusa economica e non; b) le alte aliquote che sono tali per quelli pagano anche per gli evasori alimentando così la sfiducia nello Stato; c) l’onerosità degli adempimenti amministrativi  per le PMI, lavoratori autonomi e professionisti che rispondono non solo delle loro imposte ma, come sostituti di imposta, anche per quelle dei loro dipendenti e collaboratori con conseguente aggravio dei costi di adempimento;  d) l’inefficienza voluta dell’attività di accertamento.  È chiaro che, in questo modo, in Italia, si rende conveniente non pagare le tasse e se i governi continuano a tenere alti i tetti sull’utilizzo del contante, si riduce la tracciabilità e l’efficacia della fatturazione elettronica e di misure come lo split payment, previsto dalla legge 190/2014 che impone alle PA che non sono soggetti IVA di versare direttamente all’Erario l’Iva evidenziata nelle fatture dei loro fornitori; e il reverse charge, alias, inversione contabile per cui l’IVA è versata dal beneficiario invece che dal prestatore dei servizi come di norma.  Impressionanti i dati dei soldi imboscati all’estero da imprenditori, politici corrotti e mafie nel Nord Est vedi Report del 29-04-2019 ma non solo in quelle regioni. Vedi anche inchieste di Milano e in Sicilia.

 2) la corruzione in Italia è una metastasi e non può sorprendere nessuno. L’Italia è il Paese dove sono nate e prosperano tre delle più grandi criminalità organizzate le quali, in tempi recenti, non ricorrono più alle forme estreme di violenza per perseguire i loro obiettivi. A quelle native più recentemente si sono aggiunte altre mafie tra le quali quella nigeriana.  Le mafie italiane come le altre nel mondo conducono sistematica attività di riciclaggio dei loro profitti derivanti dal traffico della droga, delle armi, della contraffazione, della tratta di esseri umani e quant’altro. Investono i loro proventi nella attività legali attraverso prestanome ma per fare questo hanno bisogno della connivenza di banche, assicurazioni, società di investimento e funzionari pubblici corrotti. Non ultimo si noti che una pubblica amministrazione inefficiente di per sé produce corruzione perché imprese, società e anche persone fisiche che per svolgere la loro attività abbisognano di interloquire con uffici pubblici o offrono mazzette oppure sono richiesti di offrirle specialmente quando autorizzazioni e visti degli uffici non sono chiaramente dovuti.    L’ultimo indice (2018) sulla corruzione percepita elaborato da Transparency International vede l’Italia al 53mo posto nel mondo con 52 punti su una scala da 0 (paesi molto corrotti) a 100 per quelli puliti o maggiormente virtuosi. In sei anni (2012-2018) l’Italia ha guadagnato dieci punti grazie anche al lavoro di prevenzione svolto dall’ANAC (Agenzia nazionale anti corruzione) guidata da Raffaele Cantone. Ma molto lavoro resta da fare se non cessa la delegittimazione dei giudici, se non migliora l’efficienza della PA, se non si ricostruisce un valido sistema di controlli interni ed esterni a carattere repressivo, se non si risolve il problema della giustizia, se non si debella il familismo amorale promuovendo un senso condiviso di etica pubblica e giustizia sociale.      

3) l’eccesso di burocrazia; da intendere come eccesso di legislazione di cattiva qualità; giustamente Cottarelli afferma che il grado di intensità burocratica può essere misurato non tanto dal numero dei dipendenti pubblici (burocrati in senso dispregiativo specie nel linguaggio inappropriato di autorevoli esponenti del governo giallo-verde) ma dal numero di leggi, regolamenti, risoluzioni e circolari che annualmente vengono approvati dal Parlamento, dal governo e dalle amministrazioni pubbliche. Sul punto vedi Tremonti “Lo Stato criminogeno” e Remo Bodei che riprende la metafora di Solone della tela del ragno. Da quest’ultimo l’insieme delle leggi viene paragonato alla tela del ragno dalla quale i soggetti (poteri) forti si liberano facilmente rompendola e quindi violando la legge e a un tempo producendo crimini mentre i soggetti deboli (come gli insetti più piccoli) vi restano prigionieri e subiscono le sanzioni a volte persino innocenti. Come siamo arrivati a tal punto? nel tempo i governanti hanno creato un sistema di guardie e ladri e di sfiducia reciproca tra gli stessi poteri dello Stato per cui si legifera non sulla base di regole generali e/o principi che di volta in volta l’autorità giudiziaria e le pubbliche amministrazioni possono modulare sul caso specifico ma prevedendo sempre discipline specifiche su casi particolari e diversi. Nei decenni passati il governo a capo dell’esecutivo ha espropriato il Parlamento dell’iniziativa legislativa e, quindi, occupa la maggior parte del suo tempo a scrivere nuove leggi e ad attuare deleghe con principi non meglio definiti. Da ultimo si è arrivati all’aberrazione per cui il governo vara decreti leggi con la clausola “salvo intese”.  Per altro verso, il governo ha rinunciato a verifiche sulle cause che hanno determinato la mancata attuazione oppure l’inefficacia delle leggi precedenti in un contesto in cui le Commissioni parlamentari continuano a fare audizioni ma di esse il governo non tiene il debito conto.  A livello politico in Italia è prevalsa la prassi secondo cui i problemi si risolvono approvando sempre nuove leggi non sui principi ma sui casi specifici.    Giudici e alti dirigenti pubblici (i burocrati) non di rado delegittimati dai politici (legislatori) chiedono che le leggi prevedano tutte le fattispecie concrete possibili ed immaginabili. Il che porta ad un inseguimento senza fine di una realtà dinamica e alla moltiplicazione delle leggi e dei regolamenti e dei regolamenti, alla difficoltà di conoscerli tutti, alla complessità del sistema. Non di rado capita di verificare che non solo i cittadini violano leggi di cui ignorano l’esistenza ma anche gli stessi operatori pubblici non conoscono bene le leggi che devono applicare.

4) la lentezza della giustizia; secondo il Censis si tratta della seconda causa della scarsa affluenza di investimenti esteri in Italia.  Nel 2009 abbiamo fatto il pieno con 5,7 milioni di processi civili pendenti rispetto a 1,1 milioni del 1975. L’efficienza della giustizia si valuta non solo sulla base del numero dei processi pendenti ma anche in base alla durata ossia, al tempo necessario per arrivare a sentenza definitiva. Per affrontare questo problema nel marzo 2001 il Parlamento approvò la legge Pinto in base alla quale si può chiedere un risarcimento allo Stato proprio per la lunga attesa. La giustizia lenta infatti equivale a giustizia in parte negata e contribuisce a minare la certezza del diritto.

Si è ottenuto qualche miglioramento in termini di accorciamento dei tempi per il 1° e 2° grado di giudizio: dai 620 giorni del 2010 siamo scesi a 532 nel 2014, a 410 nel 2016. Si tratta di dati che Cottarelli prende dal sito del Ministero di Grazia e giustizia che a me sembrano del tutto incoerenti con quelli di altre fonti.   Ma i tempi si sono allungati se si considera anche la Cassazione. Uno studio della OCSE calcola che per percorrere i tre gradi di giudizio servono in media 2.866 giorni pari a sette anni e dieci mesi.   Ecco la giustizia protratta a lungo termine causa la mancanza di effettività dell’ordinamento e l’espandersi della illegalità. Come sostiene Davigo, “in Italia si è diffusa una subcultura secondo cui sono furbi e intelligenti quelli che violano la legge e fessi quelli che la rispettano. I primi ne traggono vantaggio economico e da qui l’incentivo a violarla. Controlli inefficienti ed inefficaci contribuiscono a determinare un meccanismo che sempre più incentiva e fa crescere l’illegalità. Non solo Davigo mette in evidenza che in Italia non c’è certezza del diritto né certezza della pena e non solo perché molti procedimenti si estinguono per intervento della prescrizione ma anche perché è fiorita, in nome della funzione rieducativa della pena, una complessa legislazione agevolativa per cui le pene vengono ridotte nella fase esecutiva con sconti e facilitazioni varie.

Cottarelli pensa anche a cosa si può fare per migliorare la situazione: a) si possono seguire percorsi standardizzati piuttosto che gestire in parallelo diversi procedimenti; b) si può agire dal lato della domanda di giustizia riducendo la litigiosità e limitando la possibilità di ricorrere in Cassazione; c) semplificando la legislazione specialmente in cambi come il diritto fallimentare. E infatti, seguendo questa linea, si sono aumentate le tasse giudiziarie; si sono introdotte nel 2010 le mediazioni civili e la mediazione (negoziazione) assistita da avvocati; si è eliminato   il tariffario legato ai singoli atti svolti nel lungo percorso del procedimento che, a quanto sembra non basta a rendere meno conveniente per gli avvocati il prolungamento dei tempi;  si sono chiusi i piccoli Tribunali; si è istituito un Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia; nel 2014 si è reso obbligatorio il c.c. processo telematico. Nonostante tutto questo i Tribunali restano ingolfati. Sia Cottarelli che Davigo individuano una delle cause nell’alto numero di avvocati 237 mila con un rapporto tra avvocati e giudici di 32/1.  Cottarelli arriva anche a proporre il numero chiuso per la Facoltà di giurisprudenza. Tralascio per brevità il discorso sugli oltre tre milioni di processi penali. Ma al di là delle battute, delle invettive contro i giudici fannulloni – una vera e propria falsità se come testimoniano I rapporti Cepej essi risultano tra i produttivi – allora le cause profonde vanno ricercate anche nella riduzione delle risorse che il governo mette a disposizione della amministrazione della giustizia: un misero 1,35% del PIL.  Non ultimo nella rivoluzione culturale necessaria per educare gli italiani al rispetto delle regole e della legalità. Vaste programme.

 5) il crollo demografico. L’Italia, come altri paesi europei, soffre dell’invecchiamento della popolazione. Incidono da un lato il calo della fertilità e dall’altro l’allungamento della vita. “eravamo 56 milioni e mezzo a fine anni 1980; vent’anni dopo eravamo ancora un po’ al disotto dei 57 milioni…”.  Nel primo decennio degli anni 2000 c’è stato un lieve aumento della natalità per via della più alta fertilità delle donne immigrate poi è iniziata la decrescita. Nel 1970 l’età media era di 32,8 anni; nel 2015 passa a 46 anni. Nel 1969 nacquero 950 mila bambini pari ad un tasso di natalità (n. dei nati vivi per 1000 abitanti) pari a 18. Nel 1981 scende a 11. Un vero crollo. Il tasso di fertilità (numero di figli per donna in età fertile) nello stesso periodo scende dal 2,46 a 1,73. Ed ancora di un altro 0,4 negli anni 80 e negli anni 90 sino a toccare l’1,23.   Invecchia la popolazione e un numero decrescente di attivi deve mantenere un numero crescente di persone anziane. Si determina un problema di equilibrio ed equità intergenerazionale a prescindere dal fatto che il problema del mantenimento sia affrontato privatamente o attraverso pensioni gestite dal settore pubblico. Occorre in ogni caso lavorare più a lungo e risparmiare di più se si vuole assicurare la sostenibilità del sistema. Nel 1970 la spesa previdenziale era pari al 7,4% del PIL ora è pari al 17%. Nel 1971 gli ultrasessantenni erano il 16,6% della popolazione, nel censimento del 2011 il 27,1%. È chiaro che tali dati creano una forte rigidità nella spesa pubblica totale se le pensioni assommano al 36% della stessa. Ma oltre agli effetti del calo demografico sui conti pubblici ci sono quelli sulla crescita economica. Se lavorano meno persone in età lavorativa (quelle tra 15 e 64 anni) e se la produttività delle persone anziane è di norma più bassa e se anche la produttività dei lavoratori immigrati è anch’essa bassa si produce di meno, si accentuano i problemi di sostenibilità del sistema pensionistico. Se poi uno pensa che tra disoccupati in senso tecnico e inattivi abbiamo tra i 6 e 7 milioni di persone in età lavorativa che non lavorano perché il sistema non domanda lavoro a sufficienza allora si spiega la stagnazione e l’urgente necessita di una politica economica idonea a perseguire la massima occupazione. Non possiamo rallegrarci se la disoccupazione scende di qualche decimale sempre al di sopra del 10%.      

6) Divario Nord-Sud. Un altro peccato storico tuttora irrisolto anzi aggravato. Divario di reddito, di occupazione, di produttività anche per le più basse qualifiche dei lavoratori meridionali. Si è ottenuta convergenza solo nel ventennio 1951-71 nel periodo del miracolo economico e del lancio di una seria politica meridionalista ad opera dei primi governi di centro-sinistra nella stagione della programmazione economica. La convergenza termina a metà anni settanta con la fine del centro-sinistra e la crisi di ristrutturazione del sistema industriale in parallelo con la crisi mondiale dell’industria siderurgica e cantieristica. Il divario Nord-Sud è alimentato anche dalla maggiore inefficienza delle pubbliche amministrazioni meridionali che dopo l’attuazione delle RSO abbandonano la missione della programmazione dello sviluppo e si concentrano nella gestione corrotta dei fondi del sistema sanitario istituito nel 1978. In un suo saggio Giuliano Amato osserva la trasformazione delle RSO in stazioni di mediazione politica. La situazione peggiora ulteriormente con l’abrogazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno richiesta da Bossi e graziosamente concessa da Berlusconi.   Scrive Cottarelli: nelle regioni meridionali si osservano un numero più alto di opere pubbliche incompiute, di casi di malasanità (tra cui un maggior numero di parti cesarei), fenomeni gravi di corruzione negli acquisti pubblici di forniture varie, cattivo utilizzo dei fondi strutturali UE, maggior numero di dipendenti a fronte di minore efficienza nella sanità, nell’amministrazione della giustizia, nell’assistenza all’infanzia, nella gestione dei rifiuti solidi urbani. Lo testimoniano anche i rapporti della Commissione europea con il suo indice EQGI (european quality of government index).  Le ragioni profonde di questo divario secondo Cottarelli dipendono dalla qualità del capitale sociale (scarsa capacità di agire anche per gli altri) e di quello umano (prevalenza di basse qualifiche a tutti i livelli). Riprendendo studi fatti presso l’Università di Bologna, l’indice sintetico del capitale sociale nel 2009 si ragguagli allo 0,71 al Nord, 0,59 nel Centro e allo 0,30 nel Sud. La Val d’Aosta risulta la peggiore delle regioni del Nord; la Sardegna sulla base dello stesso indice pari a 0,50 si stacca dalle altre regioni del Sud. Per lo stesso 2009 l’indice del capitale umano definito come livello di istruzione, attrattività delle università meridionali per gli studenti provenienti da altre regioni, formazione e competenze nelle materie scientifiche l’indice del Centro-Nord si ragguaglia allo 0,63 quello del Sud allo 0,51. Ricordo che nel 2006-07 l’allora PdCdM Prodi disse che nelle università meridionali risultavano immatricolati ben 55 mila studenti in scienze della comunicazione. Cottarelli cita anche uno studio dell’OCSE secondo cui la percentuale degli adulti con basse competenze linguistiche e matematiche nel Sud raggiunge il 50% e nel C-N il 34%. Venendo ai rimedi, Cottarelli propone tre piani di azione: a) non puntare sugli incentivi fiscali perché secondo studi empirici internazionali avrebbero solo effetti marginali e lasciare maggiore spazio al mercato: le imprese investono dove possono realizzare maggiori rendimenti; al Sud incidono salari pari a quelli del Nord a fronte di un costo della vista più basso. Secondo Cottarelli l’abrogazione delle c.d. gabbie salariali a fine anni 60 avrebbe determinato l’interruzione del processo di convergenza delle regioni meridionali con quelle del Nord; oggi non si tratta di ristabilire le gabbie salariali ma di convincere i sindacati di ricorrere alla contrattazione di secondo livello. È una proposta che mi sembra di condividere specialmente se inserita all’interno di programmi di crescita del PIL e dell’occupazione negoziati con le regioni dalle parti sociali. Questo dei piani regionali e locali del lavoro a me sembra una questione trascurata anche dai sindacati del C-N che preferiscono coltivare il livello locale della contrattazione aziendale all’interno del quale, ove possibile, strappano piani di welfare aziendale. Un secondo piano di azione riguarda le amministrazioni regionali e locali che devono migliorare la loro efficienza perché – come scrive Cottarelli – non c’è motivo perché a parità di regole generali al Sud esse debbano funzionare male.  Cito una mia esperienza diretta con l’anagrafe popolazione del Comune di Roma I Municipio: ho chiesto a novembre 2018 il rinnovo della Carta d’identità; dopo tre richieste dirette allo sportello mi è stato detto che dovevo prenotarmi on line ed il primo giorno utile mi è stato fissato per il 20 maggio successivo.

Il terzo piano di azione riguarda appunto il miglioramento del capitale sociale e umano. Riguardo al primo si tratta di intensificare la lotta alla criminalità organizzata che nasce e prospera nelle regioni meridionali e non solo in esse, alla corruzione, all’illegalità diffusa, alla lentezza della giustizia che abbiamo visto sopra. Con riguardo al secondo si tratta di migliorare il sistema educativo e di investire nel capitale umano per dargli le qualifiche necessarie nella grande trasformazione dell’economia che è in corso.  Si tratta di creare un ambiente favorevole e ricettivo anche per gli investimenti dall’estero. 

7) L’incapacità di convivere con le regole europee pure condivise al momento della loro approvazione. La questione merita una spiegazione che è stata data dal Ministro Tria in una recente audizione parlamentare. Annotava una scarsa partecipazione nella fase ascensionale dei tecnici (sherpa) e politici italiani che non si coordinano tra di loro e, non di rado, i secondi arrivano ad approvare regolamenti e direttive o addirittura trattati intergovernativi di cui ignorano la reale portata – salvo a prenderne le distanze in conferenza stampa subito dopo la riunione. Il Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo il 16-11-2011 ha approvato il PSC ma non si sa chi lo ha firmato per l’Italia perché nello stesso giorno il Presidente della Repubblica ha conferito l’incarico a Mario Monti.   Ma torniamo all’euro: siamo entrati nella moneta comune e, quindi, la causa di tutti i mali dell’economia italiana è l’euro. C’è chi parla addirittura di “colpa” dell’euro come se la moneta fosse un soggetto economico e non una unità di conto di per sé neutra. Il problema vero sta nella capacità delle imprese di produrre a costi competitivi. Cottarelli ci ricorda che nel 1970 il cambio lira/marco era a 172/1, nel 1998 a 987/1. Suddivide lo sviluppo economico in quattro periodi storici: 1861-1921; 1922-42; 1949-98; 1999-2019. Definisce l’ultimo periodo: “venti anni persi”. A sua volta suddivide l’ultimo periodo in due sotto periodi: prima e dopo la crisi. Nel periodo 1999-2007 il CLUP (costo del lavoro per unità di prodotto) in Germania resta stabile perché i salari crescono come la produttività. In Italia ferma la produttività i salari crescono del 20-25%. Negli anni 80-90 cresciamo come gli altri principali partner europei; negli anni 2000 noi cresciamo a tassi pari alla metà[VR1]  dei primi. Con la crisi mondiale e dell’euro perdiamo 10 punti di PIL. E Cottarelli elenca tre motivi per cui abbiamo perso competitività dopo l’ingresso nell’euro: a) l’abitudine a dare aumenti di salari a prescindere dalla dinamica della produttività; b) l’avere utilizzato da parte di imprese e famiglie la maggiore liquidità per aumentare la spesa corrente; c) sul versante del settore pubblico analogo comportamento:  la riduzione del costo del servizio del debito pubblico per effetto della riduzione dei tassi di interesse porta ad un aumento della spesa corrente come se il debito pubblico fosse stato magicamente risolto. Nello stesso sotto periodo il prezzo del petrolio passa da 11 dollari del 1998 a 70 nel 2007 – uno shock che non viene percepito come tale ma che importa inflazione.  I profitti delle imprese italiane scendono dal 48% del 1998 al 40% del 2013. Gli investimenti dal 17% (98) al 13% (2016); tra il 1998-2016, la produttività italiana aumenta del 3,5% quella tedesca del 47%; le esportazioni italiane aumentano del 25%, quelle tedesche del 115%.   Sono dati dell’economia reale che la dicono lunga sulla dinamica del nostro sistema paese. Definisce il settimo peccato come l’idea secondo cui siamo entrati nell’euro pensando che potevamo continuare a fare quello che facevamo prima: svalutare l’unità di conto per recuperare competitività. Non si sono internalizzati gli effetti della perdita della sovranità monetaria e si è andati avanti come nel passato. Negli ultimi 19 anni la politica economica e finanziaria è stata altalenante: rigore con Prodi e Monti, lassismo con gli altri governi.  Finora i mercati hanno dato fiducia al governo giallo-verde ma potrebbe bastare un fatto straordinario endogeno o esogeno perché la situazione degeneri. Il mio ovviamente non è un auspicio ma un rischio calcolato. Stiamo navigando sul Titanic.  


 [VR1]

La Banca d’Italia non è più credibile. Lo ha detto Di Maio

La Banca d’Italia rivede allo 0,6 la previsione di crescita dell’economia italiana per il 2019 e si profilano seri problemi per i conti pubblici. Il vice-presidente del consiglio dei ministri Di Maio, ignaro di nozioni elementari di economia politica, ha definito apocalittica detta previsione mettendo in dubbio l’onestà intellettuale degli economisti che fanno le simulazioni del modello econometrico della BdI. Tenendo conto che questa è anche un consulente del governo in pratica sfiducia uno dei suoi massimi consulenti e lo fa con le chiacchiere da bar dello sport. Di Maio probabilmente non capisce che le previsioni non sono oro colato e che tutte le previsioni sono soggette a margini diversi di incertezza; si fanno sulla base di ipotesi circa gli andamenti spontanei e gli effetti delle azioni fatte dai governi e dagli operatori privati e degli andamenti dell’economia internazionale nella quale, in questa fase, domina una grande incertezza. Essendoci una pluralità di soggetti pubblici e privati che fanno previsioni sulla crescita dei diversi paesi, poi si vede se si raggiunge un consenso tra i diversi soggetti e, alla fine, si verificherà chi ha fatto le previsioni più vicine ai risultati reali.  E’ noto che anche il Ministero dell’economia e delle finanze ha un suo modello econometrico ma stranamente non si sa se ha fatto analoghe previsioni. Oso dare al Vice-presidente del cdm un consiglio non richiesto. Perché non chiede alla Casaleggio & Associati di attrezzarsi per fare previsioni economiche o teme che il massimo stratega del Movimento 5 Stelle faccia altre previsioni apocalittiche come quelle sulla fine della democrazia rappresentativa e l’inutilità e/o intralcio dei parlamenti che saranno presto sostituiti da efficaci strumenti di democrazia diretta.  E questo a dispetto del parere dei maggiori politologi e filosofi della democrazia i quali sostengono che gli strumenti della democrazia meglio si adattano a risolvere problemi di livello locale.  Stiamo tutti assistendo alle conseguenze del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea.  È un vizio congenito dei populisti fare delle semplificazioni ed accusare di sabotaggio gli altri che la pensano diversamente e richiamano l’attenzione sulla complessità dei problemi. È un vizio tipico degli aspiranti dittatori o nemici del pluralismo che adottano la logica amico-nemico, alias,  “con me o contro di me”.

P.S.: Aggiornamento: qualche ora dopo aver pubblicato questo post arriva la notizia. Il Fondo monetario internazionale conferma il rallentamento dell’economia mondiale e di quella dell’Unione europea. E per l’Italia conferma le previsioni della Banca d’Italia della settimana scorsa. La direttrice del FMI Christine Lagarde aggiunge che l’Italia è un fattore di rischio per l’economia UE. Una cosa ovvia visto che, per dimensioni, l’economia Italia è la quarta, cresce meno delle altre e che abbiamo il secondo debito pubblico più alto la cui sostenibilità è inevitabilmente revocata in dubbio proprio dalla prevista caduta del tasso di crescita. Questa volta risponde l’altro Vice-presidente del Consiglio dei ministri Salvini il quale, indispettito ma altrettanto ignaro di economia e storia finanziaria del suo socio di maggioranza governativa, non sa fare altro che rimproverare alla Lagarde gli errori commessi dal FMI nel passato. Uno sport a cui Salvini e Di Maio sono adusi: tutti i loro predecessori hanno sempre sbagliato tutto. Viceversa loro non hanno dubbi sul loro operato: stanno facendo tutto alla perfezione.   

In alcuni casi anche i ministri tecnici farebbero meglio se rimanessero silenti

Comunicato n. 180: Dichiarazione del Ministro Tria: “il tasso di crescita non si negozia”: il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, smentisce voci e indiscrezioni apparse sui giornali secondo cui il tasso di crescita dell’Italia sia stato o sia oggetto di dibattito politico. Le previsioni di crescita sono infatti il risultato di valutazione squisitamente tecnica. Per questo non possono diventare oggetto di negoziato alcuno dentro o fuori dal Governo. Roma, 13 novembre 2018 Ore 11,10
La prima affermazione dogmatica assolutamente priva di fondamento è che “il tasso di crescita non si negozia”. E’ vero il contrario. Non solo perché l’Italia è paese membro dell’Unione europea e dell’Unione economica e monetaria su cui tornerò dopo ma anche perché in assetto democratico e partecipato il tasso di crescita può e deve essere “negoziato” con le parti sociali, con le organizzazioni datoriali e con quelle dei lavoratori. In un assetto liberal-democratico dove i salari sono determinati dalla libera contrattazione del salario e non solo del salario e dove i prezzi sono determinati dalle forze del mercato, gli equilibri della finanza pubblica possono essere fortemente influenzati dagli andamenti di queste variabili fondamentali che non sono naturalmente convergenti con quelli del governo e viceversa. Con una spesa pubblica prossima al 50% del PIL e con un debito pubblico al 131% circa del PIL il governo farebbe bene a concertare le sue politiche economiche e fiscali con le parti sociali. Sappiamo che così non è stato.
Sorprende che un ministro dell’economia e delle finanze, un economista rispettabile chiamato a coprire con una foglia di fico la testardaggine di due vicepresidenti del Consiglio incompetenti si lasci andare ad una dichiarazione come quella riportata. Se poi il governo avesse il minimo rispetto delle nuove procedure di bilancio introdotte con il Patto di stabilità e crescita (2011) e annessi regolamenti, con quelle del semestre europeo tutte negoziate e sottoscritte dai precedenti governi italiani al fine di coordinare le politiche economiche e fiscali dei Paesi membri dell’Unione economica e monetaria non si lascerebbe andare in simili dichiarazioni. Il MEF Tria sostiene che “le previsioni crescita sono infatti il risultato di valutazioni squisitamente tecniche”. Vero e falso allo stesso tempo. Il MEF non dice che le su previsioni sono fatte facendo girare il modello econometrico del Ministero che dirige per cui basta modificare ad es. il dato sugli investimenti, quello delle esportazioni, sulla produttività, ecc. per avere un risultato diverso. Ora se la Commissione europea, il FMI, l’Ufficio parlamentare del bilancio, l’Istat, la Corte dei Conti ed altri sostengono che la previsione di crescita del PIL del 2019 è ottimistica anche questa è non solo una valutazione squisitamente tecnica ma anche maggiormente attendibile perché proveniente da organismi indipendenti. Il MEF implicitamente assume che le valutazioni tecniche del suo ministero sono infallibili. Invece sappiamo e anche l’economista Tria sa che tutte le previsioni sono incerte e fallibili non solo perché sono manipolabili ex ante ma anche perché rispetto al momento in cui sono calcolate possono sopravvenire cambiamenti nelle variabili endogene ed esogene che non sono state previsti. In ogni caso, quando ci sono diverse valutazioni tecniche nella prassi internazionale conta il consenso che le varie previsioni raccolgono.
Il governo non ha ricevuto le parti sociali per discutere della manovra di bilancio e della programmazione finanziaria dei prossimi tre anni. Il governo sta seguendo l’approccio: “prendere o lasciare”. Ma se questo può funzionare a livello interno, è poco probabile che funzioni a livello dell’Unione europea. Non solo ma al di là della probabile attivazione della procedura di infrazione per debito eccessivo prevista dalle regole europee e delle sanzioni eventualmente applicate, è facilmente prevedibile che le vere sanzioni possono arrivare prima di quanto si pensi dalle reazioni dei mercati. Una manovra di bilancio che a parole punta ad un tasso di crescita irrealistico in un paese con un alto debito pubblico, una manovra che prevede un aumento notevole della spesa corrente a fronte della quale si vedono soprattutto riduzione delle tasse, può mettere a rischio la stabilità finanziaria e provocare una grave crisi del debito pubblico e del sistema bancario che di esso detiene una quota consistente (378 miliardi) con pesanti conseguenze non solo per l’Italia ma anche per l’Unione. Non è un caso che Cristine Lagarde direttrice del Fondo monetario internazionale è tornata a parlare di rischio di contagio – questa volta ben più alto che nel caso della crisi del debito della Grecia.