Niente di nuovo sul fronte della lotta all’evasione.

Negli anni 70 del secolo scorso, al culmine della potenza negoziale del sindacato, non mancavano le difficoltà sulla strada dell’approvazione e dell’attuazione delle riforme di struttura. Ricordo bene lo slogan “lotta dura senza paura per le riforme di struttura”. E una di esse fu la riforma fiscale del 1971 che adeguava il nostro sistema tributario a quello degli altri paesi europei. poi l’attuazione avvenne in due fasi prima con le imposte indirette e poi con quelle dirette 1974. Tante speranze di maggiore giustizia tributaria collegate all’attuazione della riforma andarono deluse e appena cinque anni dopo Antonio Pedone pubblicava un aureo volumetto che denunciava la suddivisione degli italiani tra “Evasori e tartassati. I nodi della politica tributaria italiana”, il Mulino, Bologna, 1979.  40 anni dopo non si può dire che la situazione sia sensibilmente migliorata: l’evasione stimata si aggira sui 7-8 punti di PIL.

Allora la spiegazione fu che l’enorme aumento del numero dei contribuenti aveva sommerso la vecchia struttura amministrativa del ministero delle finanze. Da allora sono state fatte oltre a molte riforme riguardanti le imposte e l’accertamento (gli istituti sostanziali e procedurali) anche le strutture amministrative passando dalle direzioni generali, ai dipartimenti ed infine alle agenzie ma nella sostanza la situazione non è cambiata in termini di capacita di controllo, di rispetto del principio di eguaglianza e di contributo alle spese pubbliche secondo le previsioni degli artt. 3, 23 e 53 della Costituzione.

Mi occupo solo del discorso sull’evasione davanti a tre segretari generali delle tre grandi confederazioni CGIL, CISL, UIL: Landini, Furlan e Barbagallo in occasione di un Seminario in ricordo di Federico Caffè.

La destra: l’evasione fiscale si combatte solo con la riduzione delle tasse. Vorrei aiutare la destra ricordandole l’aneddoto di Lady Godiva la quale attorno all’anno mille amava il popolo di Coventry, abborriva vederlo tartassato dal suo consorte e lo spinse a ridurre le tasse. Vari esponenti della destra ripetono come pappagalli: per ridurre l’evasione bisogna prima ridurre le tasse senza mai dire quali servizi pubblici tagliare e, meno che mai, come cercare di ridurre il debito pubblico. No alle tasse e no alle manette agli evasori senza se e senza ma, anche perché con la riduzione delle tasse, ipso facto, l’economia riprende a crescere. È la tipica impostazione neoliberista secondo cui ridotto al minimo l’intervento pubblico nell’economia questa spontaneamente raggiunge la piena occupazione e una distribuzione del reddito socialmente accettabile. 

Critico anche la sinistra perché utilizza l’approccio puntuale invece di quello globale. Di volta in volta, il problema è la ricevuta fiscale, il registratore di cassa, gli Indici Presuntivi di Reddito, gli Studi di settore, la bolla di accompagnamento delle merci viaggianti, il redditometro, lo spesometro, la fatturazione elettronica, e ora l’utilizzo della carta di credito, la tracciabilità di ogni operazione messa in atto dal cittadino-contribuente, ecc.

Ma il problema è complesso e l’approccio puntuale non basta se non funzionano tutti gli altri strumenti. E soprattutto se non si fanno verifiche esterne e accertamenti in grado di resistere in sede contenziosa. Si possono registrare tutte le operazioni ma poi qualcuno deve controllare che esse siano completamente appostate nel bilancio e nelle dichiarazioni dei redditi. E al riguardo viene fuori un problema di cui nessuno parla: mancano 6-7 mila persone sono andate in pensione e non sono state sostituite. L’Agenzia delle Entrate (AdE) ha un personale strutturalmente carente nel numero e nelle qualifiche e non solo per la sentenza della Corte Costituzionale che ne ha decimato i dirigenti nominati con procedure in difformità all’art. 97 della Costituzione.

Come sappiamo nel 2012 il governo Monti ha messo dentro la banca dei rapporti finanziari tutti i lavoratori dipendenti e i pensionati (32-33 milioni di soggetti) come se fossero tutti sospetti evasori e, quindi, ampliando enormemente i soggetti da controllare. Prima che detta banca dati cominciasse a funzionare la Direttrice dell’AdE Rossella Orlandi – poi retrocessa a direttrice regionale dell’Emilia Romagna – affermava propagandisticamente che l’Agenzia era in grado di controllare il saldo bancario giornaliero di ogni singolo contribuente. La banca dei rapporti finanziari ha cominciato a funzionare da alcuni anni ma da allora, paradossalmente, le indagini finanziarie dell’AdE e quelle della Guardia di finanza si sono ridotte le prime a lumicino e le seconde a poche migliaia (vedi Relazione della Corte dei Conti 2017).   Recentemente Ernesto Maria Ruffini, giubilato dal governo giallo verde appena arrivato al potere, ha scritto che ci sono 669 milioni di dossier emersi dalla banca dai rapporti finanziari. E un numero esagerato? Non lo so ma fin qui nessuno ha smentito l’ex direttore dell’ADE – lo ripeto mandato a casa dal governo giallo-verde. È stato sostituito con un Generale della Guardia di finanza che di per sé è garanzia di affidabilità e competenza ma questi ha subito dichiarato che si concentrerà sui grandi evasori. Senonché anche questa affermazione mi lascia alquanto perplesso perché la gente comune identifica i grandi evasori con le grandi imprese ma è ben noto che queste eludono e non evadono. E combattere l’elusione è ancora più difficile che contrastare l’evasione “minore” e sappiamo che questa è sport nazionale che contribuisce massicciamente a formare i 110 miliardi all’anno delle stime correnti.

Ma per vincere una guerra non basta un bravo generale. Ci vuole un esercito abbastanza numeroso e bene addestrato.  Il problema è trovare gli esperti in grado di esaminare suddetti fascicoli. E anche per esperienza diretta Vi assicuro che si tratta di compito molto complesso che richiede tempi lunghi. Non basta assicurare la tracciabilità delle operazioni, poi bisogna controllarle una per una in sede di motivazione dell’accertamento. Basta riflettere sull’esperienza degli studi di settore che hanno richiesto un paio di decenni per definirli e dopo altri due decenni di sperimentazione sono stati accantonati, rectius, trasformati in pagelle di buona condotta fiscale. Il motivo fondamentale?  la giurisprudenza ostile anche della Suprema Corte di Cassazione secondo cui non si possono motivare gli accertamenti ricorrendo alle medie statistiche – in realtà regressioni.  Così in un paese di diffusa evasione fiscale!  Le imprese possono continuare a presentare bilanci falsi ma gli accertamenti devono essere analitici su base documentale e perfettamente motivati.

Non ultimo, l’Italia eccelle per la politicizzazione della politica dell’accertamento. Non è così in altri paesi avanzati. In Italia il direttore dell’ADE diventa subito un personaggio pubblico che rilascia interviste e, a turno, rasserena o minaccia gli evasori.  Negli USA e nel Regno Unito pochi sanno chi sono i Direttori dell’Internal Revenue Service e del corrispondente ufficio britannico. Non intervengono continuamente nel dibattito pubblico e interloquiscono solo con le Commissioni parlamentari di settore. Nelle democrazie avanzate, i sistemi tributari funzionano meglio perché c’è alla base l’adesione spontanea dei cittadini-contribuenti. In Italia violare le regole fiscali conviene anche per via della dissennata politica dei condoni e delle rottamazioni ricorrenti. Va tenuto presente che condoni e rottamazioni varie assorbono buona parte della capacità operativa degli Uffici a scapito dei controlli ordinari.

In Italia non c’è una nozione di giustizia sociale condivisa e, meno che mai, un’idea precisa di giustizia tributaria. I legali citano gli art. 3, 23 e 53 della Costituzione. Ma pochi sanno che guardare solo al lato del prelievo non basta per fare vera giustizia fiscale.

Enzorus2020@gmail.com

Il difficile bilanciamento tra la funzione rieducativa e afflittiva della pena.

Nel recente dibattito sul c.d. ergastolo ostativo non ho sentito molte citazioni di Cesare Beccaria (e/o Pietro Verri, Dei delitti e delle pene, 1764) che ha rivoluzionato l’approccio al diritto penale. In pieno illuminismo, il primo o entrambi diedero un contributo decisivo all’innovazione ed ebbero un successo straordinario in Europa e in America.

Seguendo il combinato disposto degli art. 13 comma 4 e 27 comma 3 della nostra Costituzione “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” e “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le pene devono essere finalizzate non alla vendetta della società nei confronti dei condannati bensì alla loro rieducazione e, possibilmente, al loro reinserimento nella società. Se così ha ragione la CEDU a sostenere che la norma sull’ergastolo ostativo è incostituzionale.

E per determinare l’utilità di una pena Beccaria aggiunge: “perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata ai delitti, dettata dalle leggi”.

Ma oggi in Italia, davanti ad un apparato amministrativo poco efficiente, davanti allo scarso coordinamento delle forze di polizia militari e civili che dovrebbero combattere più decisamente le organizzazioni criminali e la corruzione a cui spesso fanno ricorso, il governo-legislatore che cosa fa? Alza le sanzioni civili e penali nell’illusione che il loro altissimo livello edittale sia equivalente ad una più alta deterrenza. È un’operazione senza costo apparente ma, in questo modo, il governo-legislatore contraddice un principio fondamentale secondo cui le pene devono essere ragionevoli ma sistematicamente applicate – magari in flagranza di reato e/o a seguito di processi svolti in tempi ragionevoli. In Italia, in tutti i settori a partire dal codice della strada, si pratica una escalation folle delle sanzioni, una continua modifica dei codici di procedura, una prassi di amnistie, condoni, rottamazioni delle cartelle in perfetta contraddizione con i principi, che fanno strame della giustizia ed hanno un profondo effetto diseducativo.

E tuttavia dietro le spalle dei giudici nei tribunali campeggia sempre la scritta: “La legge è eguale per tutti”. Se così anche la legislazione che prevede riduzioni di pene o regimi alternativi alle carceri per i delitti meno gravi e per quanti seriamente si ravvedono deve valere per tutti. E d’uopo ricordare che la normativa del c.d. ergastolo ostativo non si applica solo ai mafiosi ma anche agli stupratori di gruppo, ai sequestratori di persone a scopo di estorsione se procurano la morte del sequestrato, al reato di genocidio, ai criminali di guerra particolarmente efferati, ecc..

A parte la sentenza della CEDU (Corte europea dei diritti dell’uomo) che a giugno aveva condannato  l’Italia e ora ha respinto il ricorso  proprio sull’ergastolo ostativo, quanti sostengono che per via dell’iniziazione i mafiosi son impossibilitati a ravvedersi e, quindi, non suscettibili di serio ravvedimento sono in contraddizione con se stessi, se prima hanno accettato il patteggiamento con i pentiti. Ricordo il periodo quando c’erano circa 1.500 pentiti e molti sostenevano che essi non erano attendibili, che si inventavano le denunce che facevano, eppure per un periodo non breve hanno aiutato non poco ad assestare un duro colpo alle organizzazioni criminali in Italia.

Ma poi la persistente campagna di delegittimazione della stessa magistratura e dei pentiti portata avanti da alcune forze politiche poi arrivate al governo ha ridimenzionato se non proprio azzerato il fenomeno dei pentiti.

Brusca che si è macchiato di orrendi delitti ma secondo i magistrati di sorveglianza ha contribuito ad evitare altri delitti e si è ravveduto. Ha avuto molti permessi per uscire dal carcere e gli stessi magistrati lo ritengono affidabile.

Non ultima c’è la sentenza della Suprema Corte di Cassazione che ha respinto il ricorso degli avvocati di Brusca avverso l’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Roma che ha negato gli arresti domiciliari al suddetto nonostante il parere favorevole della Procura della direzione nazionale antimafia.  

Secondo me, la posizione della Suprema Corte di Cassazione non era facile perché doveva muoversi tra due sentenze della Corte costituzionale la n. 274/1974 E LA 135 che hanno dichiarato la legittimità degli art. 4 bis comma 4 e dell’art. 58 dell’ordinamento penitenziario e altre come ad esempio la 189/2010 e la 149 /2018 che chiamano in causa le valutazioni dei magistrati di sorveglianza sui vari percorsi di sorveglianza sui percorsi di ravvedimento compiuti dai condannati. Sappiamo che alcuni magistrati li ammettono ed altri li escludono in linea di principio per alcune fattispecie di reati che suscitano un forte allarme sociale. Di certo il ricorso a criteri che prendono in considerazione valutazioni sui singoli percorsi pongono difficili trade off tra la funzione rieducativa e quella afflittiva della pena. In fatto, solo i magistrati che seguono detti percorsi aiutati da psicanalisti, direttori degli istituti penitenziari, assistenti sociali ed altri esperti possono decidere. E tuttavia le norme generali sulle pene e le deroghe previste    dai vari regimi agevolativi devono mirare anche alla ricerca dell’obbiettivo della individualizzazione o personalizzazione della pena.

 Nel caso specifico i magistrati sono divisi anche sulla validità delle norme vigenti. Alcuni sostengono che il carcere ostativo è un importante strumento della lotta alla mafia ma l’argomento prova troppo. In detta lotta, i magistrati hanno pagato un prezzo di sangue molto elevato e, quindi, le loro osservazioni vanno considerate con la massima attenzione. È umanamente comprensibile anche l’indignazione dei familiari delle vittime. Ma il giudice terzo sa che la lotta alle organizzazioni criminali, che in Italia crescono di numero e mantengono un controllo pervasivo sul territorio ed una influenza sulla politica che non trova riscontri pari in altri paesi, è questione molto complessa che abbisogna di una molteplicità di strumenti e, oserei dire, che nessuno strumento da solo è decisivo.   La giurisprudenza è divisa ma ora c’è una valutazione qualificata di un giudice sovranazionale come la CEDU che mette in discussione la costituzionalità della norma generale. Inevitabilmente la parola torna alla nostra Corte costituzionale.     

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La disintermediazione dei corpi intermedi attacca la democrazia

Il mostro effimero. Democrazia, economia e corpi intermedi, a cura di Franco Bassanini, Floriana Cerniglia, Filippo Pizzolato, Alberto Quadrio Curzio, Luciano Vandelli, il Mulino, 2019.  A proposito di mostri mi è capitato di recensire: Il mostro mite. Perché il mondo non va a sinistra di Raffaele Simone, Garzanti Libri 2008 e il libro di Nello Barile, Il populismo soft e la svolta neototalitaria, Apogeo, 2009. Poi qualcuno ha parlato di mostro burocratico riferendosi agli Uffici amministrativi di Bruxelles – tesi del tutto infondata che non vale la pena di commentare.

Raffaele Simone è docente di linguistica con una vasta produzione saggistica prevalentemente in materia di filosofia della politica che lo fanno individuare anche come politologo. Nello Barile insegna sociologia della comunicazione politica, quindi, anche lui in qualche modo un politologo.

I saggi contenuti nel libro collettaneo che ora leggiamo sono opera di studiosi di diritto costituzionale, pubblico e amministrativo. L’approccio prevalente è quello giuridico-istituzionale a parte il caso di Franco Bassanini che ha anche un’ampia conoscenza in materia economico-finanziaria con lunga esperienza operativa di governo e di direzione aziendale e quello di Quadrio Curzio professore emerito di economia politica e Presidente emerito dell’Accademia dei Lincei.   Dico subito che rispetto ad altre analoghe pubblicazioni, questa in esame si caratterizza per un’analisi approfondita della riforma del Titolo V Cost. del 2001 che intendeva ristrutturare l’assetto istituzionale dell’Italia in applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale e verticale e, quindi, passando dall’assetto regionale previsto dai padri costituenti del 1947 verso un assetto più spinto di carattere federale – raccogliendo anche le pressioni messe in atto dalla Lega Nord sin dalla nascita di questa forza politica.  La riforma del Titolo V Cost mirava e mira “all’attuazione del modello costituzionale di una democrazia liberale, pluralista, personalista e comunitaria” articolando appropriatamente il principio di sussidiarietà nella sua duplice dimensione. Dove le due dimensioni sono interdipendenti e si giustificano pienamente non solo in relazione alla dimensione geografica dello Stato ma anche in relazione alle diversità regionali ivi presenti.

Da ultimo il maggiore ostacolo al raggiungimento di tale obiettivo secondo Bassanini “è l’affermarsi, dietro il paravento di una rivendicazione della sovranità del popolo e del primato della politica, della pratica della disintermediazione politica: di un modello giacobino di democrazia immediata, centralizzata e plebiscitaria vagamente ispirato al pensiero di Rousseau, e basato sul rapporto diretto tra il leader e i suoi seguaci, dunque sulla concezione del popolo sovrano come un insieme atomistico di individui, sulla delegittimazione dei corpi intermedi e sul ridimensionamento del loro ruolo, sulla compressione delle autonomie territoriali, sul rifiuto dei limiti costituzionali, e sulla rivendicazione della prevalenza della politica sulla libertà del mercato e sull’autonomia delle autorità preposte alla sua regolazione (e perciò, ovviamente ‘non elette’ dal popolo. È il vero nemico, se non l’antitesi, del principio di sussidiarietà. È la nuova incarnazione del ‘mostro effimero’ (una ‘costituzione repubblicana nella testa e ultramonarchica in tutte le altre parti’ come la definì a suo tempo Alexis de Tocqueville nel suo classico La democrazia in America.

Io mi limito ad esplicitare la disintermediazione come il portato diretto del neoliberismo che arriva al potere in Inghilterra con la Thatcher nel 1979 e che, in parte significativa, viene fatto proprio o subito dalla sinistra europea a partire dalla metà degli anni 1980. Semplificando, gli assunti fondamentali del pensiero neoliberista elaborati dalla Scuola di Chicago sono due: l’individuo è il migliore giudice di sé stesso; l’individuo è razionale (anche se privo delle conoscenze che servono per prendere decisioni razionali); l’individuo razionale massimizza il proprio interesse; l’individuo è, quindi, egoista e per nulla o poco solidale; l’individuo altruista è visto come una eccezione alla regola. Il secondo assunto fondamentale è che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato; l’individuo è soggetto di aspettative razionali mentre Keynes e i post keynesiani assumerebbero che esso sia stupido e che i governi con le loro manovre di politica economica possono influenzare a volontà i comportamenti di famiglie e imprese; se così il perimetro dell’intervento pubblico nell’economia deve essere ridotto allo stretto necessario (lo Stato minimo o gendarme di Robert Nozick); i mercati sono efficienti e sono in grado di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al loro migliore funzionamento. 

Secondo Milton Friedman il governo non doveva in alcun modo sottoporre la politica monetaria a manovre anticicliche; doveva limitarsi a fissare un tasso di crescita dell’offerta di liquidità a cui l’economia reale si sarebbe gradualmente adattata senza provocare spinte inflazionistiche. Da qui la richiesta di trasformare le Banche centrali in Autorità amministrative indipendenti dotandole di forte autonomia operativa.    Portato alle estreme conseguenze, l’approccio neoliberista delegittima lo Stato e, se così, inevitabilmente, porta alla delegittimazione dei corpi intermedi tra lo Stato e i cittadini-elettori. 

Se i corpi intermedi (tra cui sono compresi i livelli sub-centrali di governo, partiti, sindacati, ecc.) non servono, si crea il terreno fertile per l’affermazione del leaderismo e della personalizzazione della politica. È interessante capire in casi specifici se è il neoliberismo che produce il populismo o viceversa ma molti politologi sembrano concordare che neoliberismo, populismo e sovranismo sono nemici giurati della democrazia. Senza partiti strutturati, i candidati alle cariche pubbliche vengono scelti da oligarchie centralistiche che hanno facile gioco a imporre la propria volontà al di là della volontà degli elettori i quali, senza i corpi intermedi, contano poco o nulla. Gli stessi parlamentari vengono scelti dalle oligarchie di cui sopra e il ruolo delle Camere rappresentative viene continuamente eroso. E allora eccoti i discorsi farisaici, ipocriti sulla crisi della rappresentanza e la rappresentatività. Se questo si ripete ai livelli sub-centrali di governo ecco che prevalgono le tendenze centralizzatrici. Nel caso italiano, 8 anni per arrivare alla legge Calderoli e poi – anche per via della grande crisi finanziaria ed economica – arriva lo stop alla sua attuazione.     

Nei vari saggi ci sono analisi ma anche proposte scritte da docenti e ricercatori con una certa formazione anche economica che si occupano del degrado della democrazia italiana alla luce di quella che loro chiamano disintermediazione dei corpi intermedi.

La prima parte contiene i saggi di Francesco Bilancia, Paolo Costa e Filippo Pizzolato. Si analizza il rapporto tra democrazia e globalismo economico. Se, in un modello di economia chiusa, tale rapporto poteva apparire più conciliante e anche convergente, oggi per via della globalizzazione dei mercati la situazione è cambiata e suddetto rapporto è sottoposto a forti tensioni perché, in assenza di un vero governo mondiale o di una governance efficace, la globalizzazione non è bene regolamentata e la finanza rapace procede a briglie sciolte.

Il saggio di Costa riprende le analisi di Colin Crouch sulla post-democrazia ed evidenzia la crisi dei corpi intermedi come frutto delle pressioni della politica populista che un po’ li considera come strutture corporative pre-rivoluzione francese. È evidente invece che nella nostra costituzione regionalista essi conservano un ruolo non secondario e che una qualsiasi coalizione politica avrebbe maggiore possibilità di incidere e fare avanzare l’interesse generale se supportata da una coalizione sociale – come aveva proposto alcuni anni fa Maurizio Landini.    

PQM mi sembra un po’ debole la tesi di Pizzolato secondo cui la disintermediazione politica dei corpi intermedi non porta necessariamente alla scomparsa della partecipazione che oggi, nel nuovo contesto, si esplicherebbe in termini di un nuovo civismo più individualizzato e de-ideologizzato che si muoverebbe secondo la sussidiarietà non solo orizzontale ma anche verticale. Certo nella UE ci sono anche le consultazioni popolari organizzate saltuariamente ma tutti sanno la fine che fanno come del resto gli stessi pareri dei suoi due massimi organi consultivi a livello federale: il Comitato delle Regioni e quello delle parti sociali. Foglie di fico rispetto al macroscopico deficit democratico dell’Unione europea. 

La seconda parte i comprende contributi di Barbara Boschetti e Nicoletta Marzona che si occupano del paradigma della stabilità su cui erano costruiti i vecchi ordinamenti giuridici. Oggi, a fronte di società e sistemi economici molto più dinamici in fase di grande trasformazione, propongono un rovesciamento tra norma e prassi che pone non pochi problemi alla visione c.d. dell’orologio tipica della cultura giuridica romano-germanica.

Camilla Buzzacchi si occupa della responsabilità sociale dell’impresa e si chiede se si possa ravvisare per l’impresa socialmente responsabile un ruolo sussidiario secondo il precetto costituzionale della funzione sociale (art. 42 comma 2). Questa mi sembra una lettura della sussidiarietà orizzontale diversa se non opposta a quella che ne fa la letteratura internazionale sul federalismo secondo cui l’operatore pubblico non deve interferire con quanto il privato fa in maniera efficiente ed efficace- fermo restando che il privato di norma produce beni privati.

Passando agli altri attori delle relazioni industriali, Elena di Carpegna Brivio si occupa del sindacato dei lavoratori e lo vede come garante dell’equità intergenerazionale. Una tesi che a me sembra alquanto azzardata specialmente in un paese a bassa coesione sociale, dove non c’è una teoria della giustizia sociale largamente condivisa, dove la disoccupazione non solo giovanile è stata ed è tra le più alte dell’UE.

Analoga valutazione mi viene in mente per il saggio di Andrea Michieli il quale osserva un sistema di relazioni industriali squilibrato e vede nella contrattazione aziendale il suo principale rimedio. In realtà, è vero che i sindacati italiani privilegiano la contrattazione nazionale come strumento fondamentale per perseguire l’eguaglianza tra i lavoratori dipendenti ma bisogna anche tener conto della struttura del nostro sistema produttivo caratterizzando da circa 5 milioni di PMI un numero abnorme di lavoratori autonomi (di necessità) dove è difficile pensare di diffondere in maniera adeguata la contrattazione aziendale. Negli ultimi tempi, ho criticato il sindacato per non essersi impegnato sulla contrattazione di secondo livello, cioè, intermedia stimolando le Regioni ad elaborare piani di sviluppo regionale che era la loro missione al momento dell’attuazione di quelle a statuto ordinario. Nello stesso periodo veniva meno la programmazione economica nazionale e le Regioni divenivano stazioni di mediazione politica.

La terza parte comprende importanti saggi di Franco Bassanini, Anna Maria Poggi e Luciano Vandelli. Del primo mi sono occupato nella prima parte di questa recensione e, quindi, passo subito a quello della Poggi che si occupa prevalentemente del livello intermedio più importante e maggiormente responsabile dell’attuazione della sussidiarietà verticale. Anche qui si trascurano due fattori importanti: da un lato la struttura del livello locale: 100 città importanti, mille comuni di dimensione media e 7.000 comuni di dimensioni piccole; dall’altro lato, il fallimento delle RSO che, in oltre 40 anni,  non hanno mai cercato di svolgere la loro missione originaria di programmazione dello sviluppo e che hanno poco esercitato la sussidiarietà verticale anche per le resistenze dell’ineffabile partito dei sindaci che, quasi unanimemente, ha fantasticato di federalismo municipalista – inesistente anche nei paesi genuinamente federalisti. Ha ragione la Poggi a sostenere che la sussidiarietà è un concetto ambiguo ma mi lascia interdetto che “la sussidiarietà c.d. orizzontale” possa essere letta come “una sostituzione ‘strutturale’ di soggetti ‘privati’ a soggetti amministrativi (statali, regionali o locali in taluni settori nella cura di interessi generali)” ; la Poggi ha ragione a sostenere che la dimensione locale è la sede naturale di attuazione della sussidiarietà orizzontale ma stento a vedere questa ultima come presupposto teorico di quella verticale.  Come economista non vedo alcun riferimento alla teoria dei beni pubblici locali (C. Tiebout, 1956) anche se Lei scrive di cura di interessi generali. Qui entrano in gioco gli approcci diversi tra economisti e giuristi, alias, i discorsi dei giuristi e degli economisti non si incrociano. Invece sarebbe opportuno un maggiore scambio perché, secondo me, al di là delle distinzioni tra funzioni proprie, conferite, attribuite, delegate e quant’altro potrebbe essere utile analizzare innanzitutto la natura del bene pubblico (del servizio pubblico da produrre direttamente o da fornire da parte di privati) sotto l’aspetto, come dire, economico funzionale per poi farne discendere ripartizioni degli oneri di finanziamento (cost sharing agreements).

Ragionando in termini pratici, i 7 mila comuni polvere, vuoi per la dimensione che per la scarsità delle risorse, non possono svolgere da soli certe funzioni (ad es. di protezione dell’ambiente, non possono garantire certi diritti sociali ed economici e, pertanto, devono potere fare ricorso alla sussidiarietà verticale. Non ultimo, in un mondo globalizzato il rapporto tra i diversi livelli di governo è biunivoco: la sussidiarietà verticale è cogente per tutti; è connaturale ai processi di integrazione economica e politica che sono in atto nei diversi continenti; è coerente con le c.d. catene internazionali del valore.

Forse non ci si rende conto che ragionando in termini “sostituzione strutturale” e di affidamento di funzioni pubbliche a soggetti esterni al sistema delle autonomie – nel nostro Paese quasi sempre senza uno straccio di analisi costi e benefici – implicitamente si assume che i fallimenti dell’operatore pubblico sono sempre più gravi di quelli del mercato; si assume che il settore dei servizi privati funzioni sempre meglio quando sappiamo che esso è caratterizzato da diffusa inefficienza e bassa produttività. Pensare che affidare servizi pubblici locali di interesse generale (riscossione delle imposte, trasporti pubblici locali, rimozione dei rifiuti solidi urbani, assistenza a cittadini non autosufficienti, ecc.)  a soggetti esterni privati rispettando i criteri di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità e trasparenza, secondo me, è semplicemente illusorio. Per certi servizi è essenziale la costruzione di ambiti territoriali ottimali ma ora questi sembrano passati di moda.  Per non parlare delle Aree (rectius: città) metropolitane, delle Province e delle luci ed ombre che caratterizzano il c.d. terzo settore su cui rinvio al saggio di Giovanni Moro, Contro il non profit, Editori Laterza, Roma-Bari, 2014.

Il terzo e ultimo saggio della parte III è del compianto e molto stimato Luciano Vandelli scomparso recentemente. Questi evoca il modello Bruxelles sulla base dell’art. 11 del TFUE (rectius: 11 art. del Tit. X) che sono l’opposto della “partecipazione relegata in atti episodici ai confini dei processi decisionali” pure sbandierata dai populisti. Aggiungo io che la cultura e la pratica della disintermediazione politica ha contaminato anche il nostro centro-sinistra se la riforma costituzionale del governo aveva previsto persino l’abrogazione del CNEL ancora oggi la sede più alta della partecipazione delle forze sociali organizzate.

Anche dalla lettura dei diversi contributi risulta confermata che la disintermediazione dei corpi intermedi costituisce un duro attacco alla democrazia liberale.

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