Come salvare la democrazia politica con quella economica
Laura Pennacchi, Democrazia economica. Dalla pandemia a un nuovo umanesimo, Castelvecchi, febbraio 2021.
Nei primi due capitoli Laura Pennacchi – d’ora in poi LP – passa in rassegna la letteratura sulla democrazia in generale.
Nel primo, en passant, cita Blair che tra le altre malefatte riteneva la governance addirittura superiore al governo democratico per non parlare della terza via che si è poi rivelata meno di una minestra riscaldata. Imputa questo atteggiamento al neoliberismo imperante in Inghilterra durante e dopo la Thatcher e poi in Europa. Naturalmente concorda con gli altri economisti che vedono la bassa crescita europea come il risultato di uno scarso flusso di investimenti. Osserva che il rallentamento della crescita contribuisce all’aumento delle diseguaglianze e questo indebolisce la democrazia in quanto riduce la coesione sociale e l’accettazione del sistema.
Osserva che da questo punto di vista l’allenamento monetario va a finanziare gli investimenti in attività finanziarie, nei fondi, nelle operazioni di buyback, nelle operazioni di fusione e acquisizioni messe in atto da manager predoni. La finanziarizzazione dell’economia accentua l’instabilità del sistema come messo in evidenza da Keynes, Minsky, Stiglitz, Krugman e tanti altri economisti. Il cattivo funzionamento del sistema capitalistico porta alla stagnazione secolare con bassi investimenti, alta disoccupazione, bassa produttività, crescenti diseguaglianze. Ma non basta, l’assolutizzazione dell’homo oeconomicus operata dal neoliberismo – l’individuo miglior giudice di sé stesso, l’individuo razionale quello che massimizza il proprio interesse hic et nunc ubique et semper porta alla scissione tra etica ed economia, tra il singolo e le altre persone. Il neoliberismo assurto a stato di natura – secondo i suoi fautori.
L’accelerazione della globalizzazione e l’ulteriore apertura dei mercati intervenuta nella metà degli anni 90 accentuano enormemente il ruolo dei mercati stessi e la creazione delle catene globali del valore. LP cita il trilemma della globalizzazione di Dani Rodrik: l’impossibilità della coesistenza tra iperglobalizzazione (alias globalizzazione non governata), lo stato nazionale e la democrazia. Ma i neoliberisti al governo in Europa, in America e in altri paesi riescono a consolidare l’idea che there is no alternative (TINA): le cose stanno andando come devono andare. I mercati competitivi sono in grado di risolvere quasi tutti i problemi economici e il ruolo dello Stato deve essere ridotto al minimo perché portatore di inefficienze e distorsioni rispetto alle preferenze dei cittadini-consumatori secondo le leggi di natura.
Nel cap. 2 “Patologie della modernità e capitalismo come forma di vita” LP allarga il discorso. Prende le distanze da filosofie come il decostruzionismo di Derrida e dal pensiero di Foucault per recuperare un discorso neoumanistico e, in particolare, il discorso sull’alienazione di Rousseau, Marx, Fromm, Marcuse. Scompare il soggetto sul quale LP ha curato un altro importante libro. Scompare il futuro. Attraverso la pubblicità la gente comune è indotta a massimizzare i consumi presenti e tra i politici prevalgono quelli della veduta corta.
Quindi passa ad esaminare il trittico della rivoluzione francese di cui Axel Honneth – il successore di Habermas alla direzione Scuola di critica sociale di Francoforte – ha dichiarato il fallimento. LP riprende Nancy Fraser e Rahel Jaeggi “le quali sostengono che nessuna pratica economica è neutrale e, pertanto, scissa dalla normatività, e che il capitalismo non va visto come semplice sistema economico ma come ordine sociale istituzionalizzato”. Riprende le tesi della Jaeggi, quarta generazione della Scuola di Francoforte, sulle “Forme di vita e capitalismo” e le contraddizioni interne a quest’ultimo caratterizzato da qualcosa di intrinsecamente sbagliato nei limiti in cui produce una scissione netta tra etica ed economia che non trova precedenti nella storia.
Sulla libertà cita Hannah Arendt: “libertà è primariamente libertà di dialogare con gli altri “, è interazione soggettiva, richiede di stare con gli altri. Mi permetto di dissentire sull’avverbio primariamente. Va da sé che senza libertà non c’è democrazia ma, secondo me, specialmente guardando all’universo intero, al primo posto va messa la libertà dal bisogno. Se debbo pensare a alimentare me e la famiglia, a avere una casa, a vestirmi, ad avere un mezzo di trasporto per andare a lavorare lontano da casa allora non ho molto tempo per stare con gli altri e per occuparmi di politica.
Scrive Calamandrei che “La funzione dei diritti sociali è essenzialmente quella di garantire ad ognuno, a integrazione delle libertà politiche, quel minimo di “giustizia sociale”, ossia, di benessere economico, che appare indispensabile a liberare i non abbienti dalla schiavitù del bisogno e a metterli in condizioni di potersi valere anche di fatto di quelle libertà che di diritto sono proclamate come uguali per tutti”. Ovviamente Laura Pennacchi recupera questi bisogni “all’interno di un equilibrio tra bisogni individuali e collettività, motivazioni auto-interessate e motivazioni sociali, autoconsiderazione e cura degli altri, sfera privata e sfera pubblica, l’esplorazione del quale è alla base della spinta morale” (p. 48).
A p. 65 e segg. LP spiega le condizioni che fanno fiorire e deperire la democrazia: “se la democrazia, regime politico primariamente caratterizzato da governi aperti a tutti, non esalta l’insopprimibile valore degli esseri umani come soggetti capaci di discorso ragionato, argomentazione, dialogo, intercomunicatività, deperisce e muore”.
Ma tornando specificamente ai diritti sociali il problema non è solo quello di elencarli come fanno alcuni giuristi italiani ma quello di indurre l’operatore pubblico a trovare le risorse pubbliche per soddisfarli – come sostiene Calamandre. In altre parole, il problema della libertà individuale e il problema della giustizia sociale sono un problema solo, perché se non c’è libertà dal bisogno non ci può essere esercizio effettivo delle libertà politiche.
Nel Cap. 3 entra nel vivo del discorso sulla democrazia economica come istituzione indispensabile per un nuovo modello di sviluppo a fondamento neoumanistico. Questo è fondato sul lavoro, i bisogni sociali, lo sviluppo della domanda interna.
Sottolinea i limiti della proposta di Rawls sulla property owning democracy (76/77) dove già serpeggia l’idea di un modello autogestionario e/o stato cooperativo, alias, di un modello che vede i lavoratori nella scelta di cosa, come e per chi produrla. LP insiste a ragione sulla buona e piena occupazione. Anche Rawls e Freeman accennano a vite autodirette e se questo è vero siamo dentro il modello autogestionario dove i lavoratori sono ad un tempo proprietari e dipendenti; si alternano nei ruoli direttivi ed esecutivi. Il problema è che questo modello può funzionare meglio nelle PMI gestite da cooperative o da società di persone. Nelle grandi e specialmente nelle c.d. public company che sono sempre meno public e sempre più sotto il controllo dei manager predoni (l’aggettivo e mio), è probabilmente necessario percorrere vie intermedie che prevedono la rappresentanza come nella cogestione alla tedesca e si possono determinare anche problemi di rappresentatività. Si possono prevedere distribuzioni di azioni ai dipendenti e partecipazione di stakeholders.
La risposta generale mi sembra che stia nella democratizzazione della gestione delle imprese- come sostiene LP – e nel passaggio dai manager predoni a quelli statisti portatori di un’etica pubblica condivisa e di una conseguente teoria e pratica di giustizia sociale. E per le imprese è innanzitutto questione di controlli interni ed esterni, in sintesi, di controllo sociale.
LP vede nelle nuove tecnologie (innovazione) grosse istanze cooperative e la cosa non deve sorprendere se si pensa che senza cooperazione non si producono beni pubblici di sorta.
Per costruire il nuovo modello di sviluppo – afferma LP – “non bisogna lasciare le problematiche democratiche al di qua dei cancelli delle fabbriche “e, aggiungerei io, degli uffici pubblici e privati, delle start up, degli enti di ricerca, di innovazione e di formazione.
Se il lavoro deve diventare il primo obiettivo del nuovo modello di sviluppo allora bisogna affermare coerentemente che il diritto al lavoro viene prima del diritto di proprietà. Una considerazione che voglio fare al riguardo è che non basta scrivere nella costituzione che la Repubblica è fondata sul lavoro. Cito di nuovo Calamandrei che ha affermato che la Costituzione è un pezzo di carta che giace inerte per terra o dentro un cassetto se non trova le gambe per camminare. Più recentemente Wladimiro Zagrebelsky ha scritto un saggio sulla “solitudine” dell’art. 1 Cost che afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro e che meriterebbe maggiore attenzione. Ecco le gambe per camminare sono innanzitutto quelle dei lavoratori, degli imprenditori e dei loro sindacati che – possibilmente insieme – dovrebbero esercitare pressioni sui vari livelli di governo per adottare misure e investimenti mirati a perseguire la piena e buona occupazione e, quindi, uscire da posizioni difensive dell’esistente che, nella migliore delle ipotesi, salvaguardano alcuni posti di lavoro qui e li ma che non ci fanno uscire da una situazione di alta disoccupazione. Non solo, ma se come hanno sostenuto anche esponenti illuminati di Confindustria, se l’impresa è “una comunità di interessi e di destino”, allora si tratta di premere anche sulle organizzazioni datoriali per verificare la possibilità di fare passi avanti verso la democrazia economica – vedi in particolare Carlo Callieri. Viene da sé che per fare tutto questo, per fare avanzare la conversione ecologica, la digitalizzazione dell’economia e della società, per rimediare agli squilibri territoriali, per perseguire la buona e piena occupazione, in sintesi per promuovere lo sviluppo sostenuto e sostenibile, per passare ad un nuovo modello di sviluppo, bisogna avere piani a medio e lungo termine, bisogna riesumare la programmazione strategica e il metodo PPBS (planning, programming, budgeting system). Governi ai vari livelli e parti sociali devono muoversi in sintonia e promuovere le migliori sinergie. È illusorio e ingannevole pensare che problemi di tanta rilevanza e complessità possano essere affrontati e risolti creando alcune cabine di regia o coll’assunzione di alcune centinaia di esperti esterni – supposto che ci siano.
Il discorso sui sindacati merita un ulteriore piccolo approfondimento. Se lasciamo da parte l’esperienza dei consigli immediatamente dopo la II guerra mondiale e prendiamo in considerazione i comportamenti degli ultimi 70 anni e dividiamo questo lasso di tempo in due sottoperiodi, vediamo che nel primo periodo all’ingrosso è l’approccio conflittuale almeno nella percezione diffusa. Con il referendum sulla scala mobile 1985 e con il protocollo Ciampi-Giugni del luglio 1993 – rimasto inattuato nella parte più significativa – i comportamenti sembrano essere cambiati anche se gli esiti non sono soddisfacenti anche a causa delle divisioni all’interno dei sindacati dei lavoratori e tra di essi. Ma non c’è stato alcun passaggio netto ad un approccio cooperativo. Tenendo conto che l’auspicato nuovo modello di sviluppo chiama direttamente in causa non solo le organizzazioni datoriali ma anche le stesse forze politiche tra le quali prevale un becero approccio conflittuale, credo che introdurre in Italia strumenti sostanziali di democrazia economica sarà molto difficile se non impossibile. Per costruire la democrazia economica serve un forte spirito cooperativo che purtroppo in Italia manca.
Naturalmente queste difficoltà attuative nulla tolgono alla qualità dell’analisi e delle proposte che LP ha elaborato. Dobbiamo tutti augurarci che il suo libro ben scritto e accattivante diventi innanzitutto oggetto di dibattito pubblico e che coinvolga nella discussione non solo le parti sociali ma anche le forze politiche se vogliono avere una visione del futuro e rafforzare, attraverso la democrazia economica, la traballante democrazia politica.
Alcune indicazioni bibliografiche:
Laura Pennacchi, De Valoribus Disputandum Est. Sui valori dopo il neoliberismo, Mimesis Edizioni, 2018, mio post 31marzo2019;
Laura Pennacchi (a cura di), Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, 2015;
Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo, a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna con il coordinamento dell’Area delle politiche di sviluppo della CGIL, Ediesse, Roma, 2015;
Zagrebelsky G. (2013), Fondata sul lavoro. La solitudine dell’art. 1, Einaudi, Torino; in S-5; recensione sul blog130624;
Paolo Bagnoli, Piero Calamandrei. L’uomo del ponte, fuori/onda, novembre 2012;
https://fondazionenenni.it/wp-content/uploads/2015/12/15-Callieri-1.pdf
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