Perché il Paese non funziona.

Ci piace credere che abbiamo una sola pubblica amministrazione di cui tutti conoscono inefficienza e corruzione. In realtà la situazione è molto complessa e mi sforzerò di dare alcuni elementi importanti per capire meglio il problema. Negli anni ’70 del secolo scorso, dopo tanti rinvii, si è attuata la riforma regionale nel senso che si sono istituite le regioni a statuto ordinario (RSO) mentre quelle a statuto speciale esistevano già fin dal dopoguerra ed una di esse la Sicilia era stata costituita con decreto luogotenenziale del 15 maggio 1946 n. 455 prima del referendum del 3 giugno 1946 che approvò la forma di stato repubblicana e, più precisamente, uno Stato regionale. Quindi in teoria non una ma una ventina di PA per non parlare delle strutture amministrative delle Province e dei Comuni. Ma per le regioni non è neanche così perché se uno esamina la legge 16-05-1970 n. 281 provvedimenti finanziari per l’attuazione delle RSO si rende conto che lì si parla di tributi propri e di strumenti finanziari per finanziare l’attività regionale. In particolare l’art. 9 della legge citata fa riferimento al fondo di finanziamento dei programmi regionali di sviluppo da istituire presso il Ministero del bilancio e della programmazione economica. Quindi le RSO degli anni ‘70 non nascono per migliorare l’efficienza amministrativa ma per occuparsi soprattutto di programmazione economica. Ma quando nel 1977 sono completati i decreti delegati di attuazione della riforma regionale, l’attività di programmazione economica a livello nazionale è abbandonata e, in fatto, la politica economica e finanziaria, dopo la crisi del 1974-75, si concentra sui problemi della stabilizzazione dell’economia. Come ha scritto Giuliano Amato, le RSO – in particolare quelle del Mezzogiorno – diventano stazioni di mediazione politica e si occupano soprattutto di gestire alla meno peggio i fondi della sanità il cui programma è definito e finanziato a livello nazionale. Negli anni ’90 per merito della Lega Nord di Bossi il discorso del federalismo arriva all’ordine del giorno e si pone fine all’intervento straordinario per il Sud. Anche il centro-sinistra accoglie in linea generale l’idea della transizione ad un sistema maggiormente decentrato. Anche in considerazione delle pressioni del partito trasversale dei sindaci irresponsabili, eletti con una legge maggioritaria e fautori del c.d. federalismo municipalista, si abrogano tutti i controlli preventivi sugli enti locali (Comuni, Province e Regioni) ritenuti (a torto) causa principale dell’inefficienza amministrativa dei governi sub-centrali e delle continue crisi che le caratterizzavano. Si parla di anticipare il federalismo amministrativo ma in realtà con il senno del poi posso dire che la situazione sul terreno amministrativo non è migliorata. Si estende il sistema elettorale dei sindaci alle Province e alle Regioni. Si arriva all’approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione. Come noto la riforma riscrive l’art. 117 redistribuendo le competenze legislative tra Stato e regioni in modo più o meno soddisfacente e introducendo anche le competenze concorrenti che sono congeniali ad un sistema di stampo federale. Ora se facciamo il confronto tra la versione dell’art. 118 originario del 1948 con quello novellato nel 2001 vediamo che arriva un falsa rivoluzione che – secondo me – può essere meglio definita una vera involuzione che consolida le regioni nel loro non ruolo amministrativo.
Recita l’art. 118 originario “Spettano alla Regione le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente articolo, salvo quelle di interesse esclusivamente locale, che possono essere attribuite dalle leggi della Repubblica alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali. Lo Stato può con legge delegare alla Regione l’esercizio di altre funzioni amministrative. La Regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle Provincie, ai Comuni o ad altri enti locali, o valendosi dei loro uffici”. Nella versione novellata: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. Le RSO prima delegavano ora possono avvalersi della sussidiarietà.
Ma se devi intervenire in via straordinaria e per eccezione è chiaro che non crei una struttura amministrativa ordinaria e permanente a livello regionale. Per altro verso l’assegnazione delle funzioni amministrative ai Comuni costituisce l’ennesima concessione al partito dei sindaci irresponsabili perché sappiamo che tra gli ottomila comuni ci sono solo cento città e mille comuni di una certa consistenza; gli altri 6-6.900 non hanno strutture amministrative particolarmente efficienti – naturalmente con le dovute eccezioni. Ma non basta. Se a questo aggiungiamo che la riforma del Tit. V è rimasta inattuata perché da un lato prima ci sono voluti 8 anni per arrivare alla legge Calderoli n. 42 del 2009 e poi nel 2011-12 per via della crisi economica e finanziaria inopinatamente si è bloccato il processo di attuazione del federalismo. Per altro verso le due riforme costituzionali di Berlusconi 2005 e di Renzi 2016 hanno cercato di modificare i rapporti tra Stato e Regioni in senso opposto ma, come noto, le suddette riforme sono state bocciate da due referendum popolari. La situazione è ora di quelle caotiche e/o di governi che da oltre un quarto di secolo stanno in mezzo al guado: non sanno se andare verso un assetto genuinamente decentrato come proiezione interna dell’Unione europea o tornare indietro allo Stato centralizzato che in 140 anni non ha mai dato grandi prove di efficienza ed efficacia nella gestione della cosa pubblica.
In vista della riforma costituzionale voluta da Renzi, con la legge Del Rio 7-04-2014 n. 56 sono state abrogate le Province e sono state istituite le Città metropolitane. Dopo il referendum del 4 dicembre 2016 rivivono le Province che nel frattempo avevano trasferito gran parte del personale ma pochi addetti ai lavori sanno dove stanno e cosa fanno le Città metropolitane. Queste ultime non hanno una legittimazione popolare diretta – prevista solo per eccezione – e sono presiedute dal Sindaco della città capoluogo della Provincia. Al momento posso escludere che le Città metropolitane abbiano avuto alcun ruolo positivo o negativo sulla efficienza dei servizi pubblici locali.
Tirando le somme di questo noioso discorso, possiamo dire che sulla produttività e competitività del Paese nel suo insieme pesa l’inefficienza dell’apparato pubblico a tutti i livelli perché, da un lato, in gran parte si sono smantellati gli uffici centrali dall’altro anche dopo la istituzione delle RSO non è sensibilmente migliorata l’efficienza dei livelli di governo sub-centrali. Non è stata data loro una vera autonomia finanziaria per cui i cittadini-elettori non sono aiutati a cogliere il nesso tra spese ed entrate locali e, quindi, responsabilizzare i politici locali. Per altro verso, sia la trasformazione delle società municipalizzate in società miste accogliendo il discutibile principio comunitario della partnership pubblico e privato che l’utilizzo disinvolto dell’esternalizzazione (outsourcing senza uno straccio di analisi costi e benefici) hanno prodotto fenomeni pervasivi di corruzione che hanno screditato i politici di molti enti sub-centrali. Non senza menzionare il crescente numero dei consigli di enti locali sciolti perché infiltrati da organizzazioni di stampo mafioso. Anche la mera inefficienza organizzativa produce corruzione ma non voglio sostenere che tutti gli enti sub-centrali siano inefficienti e corrotti ma, di certo, in Italia l’inefficienza del settore pubblico pesa molto sul sistema privato anche esso non esente da pecche specialmente nell’ampio settore dei servizi alle famiglie e alle imprese.
Il tragico disastro di Genova costituisce l’ennesima riprova che non è sufficiente e risolutivo affidare la gestione di infrastrutture né la fornitura di altri servizi pubblici a società private se poi si lascia l’operatore pubblico sguarnito di risorse umane e finanziarie per esercitare controlli efficienti ed efficaci. La ricerca dell’efficienza in generale non è gratis.
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Le “nuove” illusioni fiscali.

Il governo giallo-verde di Di Maio e Salvini, stando agli annunci, proporrà a Ottobre una riedizione di quello che già c’è: un regime di condono permanente a suo tempo istituito da Giulio Tremonti. La pace fiscale rimodulerebbe il sistema dei ravvedimenti operosi, degli accertamenti con adesione, delle conciliazioni giudiziali, delle rottamazioni delle cartelle esattoriali sempre con grandi sconti su sanzioni e pene pecuniarie e, non ultimo, con saldi massimi per le rottamazioni. La prima osservazione è che detta scelta non innova su niente, percorre le solite vecchie strade; le scelte dell’attuale governo, sedicente del cambiamento, sono in perfetta continuità con quelle del passato; semmai sono tecnicamente peggiori. I nuovi arrivati, in preda a delirio di onnipotenza, non si rendono conto degli effetti devastanti che le loro scelte avranno sulla propensione ad adempiere ai doveri tributari da parte degli italiani ancora liberi di scegliere. La seconda osservazione che viene spontanea riguarda la tecnica di comunicazione per cui non si parla di condoni e amnistie ma di “pace fiscale”: ma c’è stata mai in questo paese una guerra seriamente combattuta nei confronti degli evasori? Non mi risulta e se quando qualche governo l’ha minacciata o ha orchestrato qualche scaramuccia, poi l’ha persa come dimostrano le statistiche pubbliche e private degli ultimi 50 anni: evasione stimata sempre attorno al 7-8% del PIL. Nella logica dell’occupazione dei posti di potere più rilevanti da parte dei vincitori delle elezioni (spoils system ) nei giorni scorsi è arrivata una grande novità: un Generale della Guardia di finanza è stato nominato direttore dell’Agenzia delle entrate. Qualcuno ingenuamente potrebbe pensare che i suddetti esponenti del governo vogliano fare sul serio la guerra agli evasori nostrani. Invece no. Si tratta dell’ennesimo inganno che i governi di questo Paese hanno sempre perpetrato a favore delle classi dominanti e dei rentiers. Se uno prende sul serio il programma del governo come annunciato fin qui: flat rate tax fasulla ora meglio rinominata come riforma dell’Irpef con soli tre scaglioni di reddito di cui due accorpano i precedenti quattro con aliquote medie effettive presumibilmente più basse e uno sopra i 75 mila euro con aliquota ferma al 43%, con eventuale tassazione del nucleo familiare con il sistema francese del quoziente familiare in materia di imposte dirette; ampliamento o quasi raddoppio dei regimi forfettari ai fini dell’imposta sul valore aggiunto; taglio e/o riduzione delle accise (imposte di fabbricazione) su alcuni prodotti in materia di imposte indirette; ma soprattutto, in materia di controlli fiscali : non abrogazione degli studi di settore ma loro trasformazione in indici sintetici di fedeltà fiscale, abrogazione del redditometro, dello spesometro, e di altri consimili strumenti di accertamento sintetico, allora non riesco a vedere come persino un generale posto a capo di uno sparuto esercito in pratica disarmato possa condurre sul serio una guerra all’agguerrita massa di evasori. A qualcuno che ha già fatto notare questa incongruenza un esponente di secondo piano del governo giallo-verde ha precisato che il Generale Antonino Maggiore farà la guerra soprattutto ai grandi evasori. Anche questo è un altro grande inganno perché i grandi evasori sono pochi e molto agguerriti e si avvalgono sistematicamente delle scappatoie che il contesto planetario e quello europeo di concorrenza fiscale offre, mentre in Italia abbiamo 4,3 milioni di piccole e medie imprese e 4,7 milioni di lavoratori autonomi che contribuiscono non poco ai 130 miliardi di evasione stimata.
Enzorus2020@gmail.com

Democrazia malata 2

Quello che segue è il seguito del mio precedente post sulla democrazia malata. Nel frattempo ho potuto assistere alla presentazione di alcuni studi di analisi del voto che legano la rinascita dei movimenti populisti agli effetti delle crisi economiche e, da ultimo, della crisi mondiale 2008-13. Di certo, non si può dire che il combinato disposto della accelerazione del processo di globalizzazione e la crisi mondiale siano irrilevanti. Infatti, mentre la prima ha ridotto le diseguaglianze tra paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, la seconda ha prodotto una più forte concentrazione della ricchezza: i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sempre più poveri; neanche la classe media è stata risparmiata dalla caduta della crescita e dell’occupazione. Ma questo è un fenomeno di fondo in corso da circa trenta anni. Come noto, la classe media dove c’era storicamente ha esercitato per lo più un ruolo di stabilizzazione del sistema anche nei paesi con sistemi elettorali maggioritari. Questi in teoria facilitano l’alternanza al governo e, in alcuni casi, destabilizzano la condotta delle politiche economiche, migratorie e quant’altro. Ma per fare un esempio emblematico, l’ascesa di Trump al potere negli USA non si spiega solo con la crisi mondiale dell’economia, dalla quale – grazie alle tempestive decisioni economiche e finanziarie di Obama – l’America è uscita per prima con una sola recessione. Le cause di fondo dell’ascesa dei movimenti populisti e sovranisti sono molteplici e hanno a che fare, in primo luogo, con la incapacità dei governi di affrontare in maniera efficiente ed efficace i problemi della gente per via della qualità delle politiche economiche e sociali adottate.
Giovani e anziani non hanno più fiducia nel sistema che nega loro quella che era l’aspirazione comune di tutte le famiglie: un futuro migliore per le nuove generazioni. In prospettiva, anche l’impatto delle nuove tecnologie che sostituiscono lavoro con robot cambia lo scenario a medio-lungo termine per cui un lavoratore cinquantenne che perde il lavoro ha maggiori difficoltà a trovarne uno nuovo. Tutti parlano delle tre elle (long life learning), di formazione permanente ma in fatto, alcuni governi fanno poco per contrastare la riduzione dei lavori stabili per cui le imprese non sono interessate a investire per l’arricchimento delle competenze dei loro lavoratori se le prospettive di crescita delle stesse sono caratterizzate da alta incertezza e se lo Stato che ha sposato la ideologia neoliberista deve spendere sempre meno e, di conseguenza, taglia i fondi per la formazione, per la scuola e l’università. Analogamente negli USA, vedi Edoardo Campanella che cita il Rapporto economico del Presidente 2015 dove si afferma che i fondi per la formazione fuori o nei posti di lavoro sono diminuiti sistematicamente dal 1996 al 2008.
Gli USA sono il paese con la più lunga esperienza di Presidenti populisti ma le loro vicende (a partire da quella di Jefferson) non sono sempre legate alle conseguenze di crisi economiche. Non c’è dubbio che la crisi economica abbia contribuito a determinare un certo cambiamento nelle preferenze politiche dei cittadini ed elettori ma, secondo me, le cause della rinascita dei movimenti populisti, sovranisti e autoritari in molte democrazie del mondo vanno cercate innanzitutto nelle disfunzioni del meccanismo democratico e nella insoddisfazione diffusa che ne discende. Per la gente comune, ignara dei problemi politici più complessi, le forme di governo rilevano per la loro capacità di risolvere i suoi problemi. Non importa se essi sono risolti dal dittatore onnisciente o populista purché siano risolti. Non è consapevole dei difficili problemi dell’aggregazione delle preferenze eterogenee per cui, spesso, vengono interpretati a modo loro dagli uomini politici.
Su questi temi è illuminante il libro di Yascha Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale. Feltrinelli, Serie Bianca, 2018. Un libro interessante, ricco di informazioni e spunti di riflessioni riguardanti i principali paesi del mondo che sono investiti dal fenomeno non nuovo ma che trova nuove fonti di alimento nella globalizzazione e nella finanziarizzazione dell’economia. Anche l’Italia è un caso di scuola se un partito populista come il M5S nel giro di una legislatura è riuscito ad arrivare al governo sia pure non da solo. Secondo Mounk che conosce bene l’Italia per esserci vissuto a lungo, “il sistema politico italiano è al tracollo perché combattere il populismo corrotto che ha prevalso in Italia per i venti anni della seconda Repubblica con un populismo che a parole si proclama meno corrotto gli darà solo il colpo di grazia”. La sequenza pericolosa che intravvede è la disgregazione della democrazia liberale che dà luogo in via intermedia alla democrazia illiberale (modello Polonia), al liberalismo antidemocratico della struttura sovranazionale dell’Unione europea e, infine, alla dittatura di Putin in Russia. Naturalmente si tratta di casi emblematici e/o di modelli a cui Mounk aggiunge il Canada come modello di democrazia liberale che ha saputo coniugare la immigrazione e, quindi, la democrazia multietnica con i diritti individuali.
Nella sua lunga analisi cita tante altre esperienze concrete dove il combinato disposto del populismo e dell’approccio neoliberista alla gestione degli affari pubblici ha portato alla instaurazione di regimi autoritari e/o di dittature più o meno soft. Non solo, in tutto il mondo gli esperimenti democratici più fragili sono stati repressi e le democrazie più fragili sono degenerate in dittature ma dopo l’avvento di Trump negli Usa e l’ascesa dei partiti populisti e sovranisti nell’Europa occidentale sta disgregando i presupposti fondamentali della democrazia liberale in questi paesi.
Mounk precisa che intende per democrazia liberale un sistema che: a) rispetta la libertà di parola; b) la separazione dei poteri; c) tutela i diritti individuali. Sono principi fondamentali su cui concordo ma che oggi non bastano più perché come lui stesso dimostra subito dopo ci sono democrazie senza diritti (cap. 1) e sistemi con diritti individuali ma senza democrazia (cap. 2). Vedi al riguardo quanto sostiene Axel Honneth, ora direttore della Scuola di Francoforte, che imputa il fallimento del trittico della Rivoluzione francese al fatto che nel corso del XIX secolo i partiti liberali dominanti la scena politica hanno inteso la libertà e le sue diverse dimensioni come fatto individuale e non come diritto sociale di pertinenza non solo del singolo individuo ma soprattutto delle classi sociali più deboli. PQM sarebbe opportuno che chiunque parla o scrive di diritti esplicitasse una loro articolata tassonomia.
Una spiegazione a parte merita la classificazione dell’Unione europea come liberalismo antidemocratico. Non è una novità. Che nelle istituzioni europee ci sia un deficit democratico è riconosciuto dagli osservatori più avveduti. Origina dall’idea di procedere con l’integrazione economica stabilendo prima un mercato comune e poi quello unico. Per altro verso il crollo del sistema dei cambi fissi ma aggiustabili (Bretton Woods) impose gradualmente l’attuazione del sistema monetario europeo e dopo la moneta unica – ovviamente perché un mercato unico chiede una moneta unica. Origina dal compromesso tra alcuni Paesi membri che avrebbero voluto una struttura schiettamente federale e quanti hanno accolto la posizione storica della Francia a favore dell’Europa delle patrie. E da ultimo dalla riluttanza dei governi dei Paesi membri a cedere ulteriore sovranità al centro perché in preda a rigurgiti nazionalistici. Si è quindi creata la Banca Centrale Europea elencata come istituzione (vedi art. 13 del TUE) ma che in realtà è una autorità amministrativa indipendente. Non è l’unica e, per giunta, Mounk classifica la Commissione europea come la più potente AAI. La combinazione di una serie di autorità amministrative indipendenti che svuotano il Parlamento e la Commissione del loro potere legislativo e regolamentare, che restano subordinati al via libera e all’approvazione definitiva del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Se poi si considera l’inestricabile reticolo di Trattati intergovernativi che disciplinano l’attività di organi appositamente previsti per cercare di risolvere problemi fuori dalla portata dei singoli paesi membri emerge un sistema di governance senza legittimazione popolare diretta ad un tempo farraginoso, lento, inefficiente, bizantino ed incomprensibile per la gente comune che lo percepisce come una imposizione dall’alto. Tutto questo e anche per come è stata gestita la grande crisi del 2008-13 (doppia recessione, riduzione del reddito e dell’occupazione, aumento delle diseguaglianze, mancata convergenza delle regioni periferiche, problemi dell’immigrazione, ecc.) ha creato forti elementi di disaffezione quanto non di ostilità nei confronti del progetto europeo su cui speculano i movimenti populisti e sovranisti ormai presenti in tutti i paesi membri compresi quelli scandinavi che avevano una tradizione consolidata di democrazia liberale.
La democrazia si sta deconsolidando è il titolo del cap. 3 a cui seguono paragrafi sui “cittadini che sono disamorati della democrazia”, che sono “sempre più aperti alle alternative autoritarie” per cui non si scandalizzano dei leader che non rispettano le norme della democrazia. Ancora più preoccupanti i dati che cita nel paragrafo “i giovani non ci salveranno”: “in tutto il mondo una persona su dieci ritiene che la democrazia sia un modo cattivo molto cattivo di guidare un paese”; in Polonia 1/6; tra i millennials USA quasi ¼”.
Tutto questo significa che l’attaccamento ai valori democratici di lungo termine si è indebolito tra la gente comune mentre i nuovi mass media hanno creato nuovi spazi per gli outsider della politica e/o politici antisistema che, ogni giorno, dispensano bugie e odio a man bassa. Gli standard di vita della gente comune si sono abbassati e soprattutto hanno perso la fiducia in un futuro migliore per se stessi e per i loro figli. In alcuni paesi le migrazioni – ampiamente sopravvalutate nelle dimensioni numeriche – stanno creando una transizione difficile da una società monoetnica a quella multietnica che viene abilmente sfruttata dai populisti e sovranisti. Da qui la rinascita delle spinte nazionaliste. Guardando ai rimedi, Mounk cita l’esperienza fondamentale dei leader integrazionisti negli USA – paese con lunga esperienza multietnica – i quali non ripudiavano i valori costituzionali e valorizzavano l’amore dei bianchi per essi. Al contrario, la sinistra in alcuni paesi europei ha abbandonato il patriottismo inclusivo lasciando spazio alla destra che lo occupa a scopi esclusivi, divisivi e xenofobi. In questi termini Mounk recupera l’ideale del nazionalismo inclusivo che a prima vista mi aveva lasciato interdetto. Afferma che il nazionalismo è animale mezzo selvatico e mezzo addomesticato. Bisogna addomesticarlo del tutto al meglio possibile e cita di nuovo il modello Canada.
Mounk dedica il cap. 8 al risanamento dell’economia. Cita alcuni dati significativi sulla crescita dell’economia USA: nel ultimi 30 anni, il PIL pro-capite è cresciuto del 59%; il patrimonio netto del 90%; i profitti aziendali del 283%; dal 1986 al 2012 solo l’1% della crescita totale della ricchezza è andata al 90% delle famiglie mentre il 42% è andato allo 0,1% delle famiglie più ricche. Potrei aggiungere altri dati di Atkinson, Piketty e Franzini & alios per l’Italia che dimostrano come la distribuzione fatta dal mercato abbia funzionato al contrario di come ci si aspetterebbe. Ma l’aspetto più impressionante di questa vicenda – ed io concordo con Mounk – è che a determinare questi risultati hanno largamente contribuito le scelte economiche e fiscali dei governi di centro-destra e centro-sinistra che si sono alternate al governo negli ultimi trenta anni. Si tratta di tendenze di fondo in parte fuori dal controllo dei governi nazionali afferma Mounk. Ma questa affermazione merita qualche precisazione. Ci sono vincoli esterni di carattere esterno che molti governi hanno recepito come leggi naturali mentre sono il frutto di scelte neoliberiste che ripongono una grande fiducia nella teoria dei mercati efficienti e che i governi non hanno voluto o saputo contrastare. Da questa constatazione, Mounk fa discendere un rimedio ovvio: se sono le politiche fiscali che hanno ridotto le tasse ai più ricchi è ovvio che la risposta sarebbe quella di aumentarle a chi ha maggiore capacità contributiva. Ma emblematicamente vediamo che la risposta che viene dal nostro governo giallo-verde di populisti e sovranisti: la flat tax e il reddito di cittadinanza. La prima si pone in perfetta continuità con alcune scelte scellerate dei governi precedenti: tassare di più i consumi e meno le persone; la seconda che, in teoria, si muoverebbe nella giusta direzione sarà ridimenzionata drasticamente dai vincoli di bilancio europei e non basterà a compensare neanche in parte gli effetti sperequativi della prima. Si tratta di problemi complessi che vengono presentati in maniera eccessivamente semplificata e per la cui soluzione vengono prospettate soluzioni semplici ma illusorie. Non di rado, gli stessi politici e la gente comune non riescono a squarciare il velo delle illusioni finanziarie che i primi producono.
Più in generale, è chiaro che se non si riesce ad affrontare sul serio e superare il regime di concorrenza fiscale a livello planetario ed europeo, gli Stati nazionali continueranno a incontrare forti limiti nel tassare i redditi e i patrimoni più alti. E da qui anche il limite di quanti sostengono che per rivitalizzare la democrazia liberale bisogna rivitalizzare il Welfare state. Non ci si rende conto che il regime di concorrenza fiscale è stato introdotto proprio con l’obiettivo di “affamare la bestia” – tipico slogan neoliberista – e abbattere lo Stato sociale. Ciò posto è chiaro che anche la proposta di Mounk sulla riforma radicale del welfare con il superamento del legame tra benefici e i contributi legati al lavoro soffre dello stesso limite. Occorrerebbe quindi abbandonare il sistema contributivo e tornare al sistema redistributivo classico finanziato attraverso imposte generali personali e progressive. Dato che cresce il numero delle persone che vivono con la ricchezza ereditata o accumulata grazie al malfunzionamento o alla cattiva regolazione del mercato e stante che il lavoro diventa sempre più discontinuo e mal pagato la proposta di nuove regole redistributive hanno un grosso fondamento logico ed etico ma non mi sembra che il dibattito politico in Italia e in Europa si stia muovendo in questa direzione. Sintomatica la freddezza e la disattenzione con cui è stata trattata la proposta di Bill Gates di tassare i robot.
A conclusione del capitolo viene ineluttabilmente in evidenza il legame tra risanamento economico e riforma del welfare. Il primo significa spingere l’economia verso la frontiera della produzione con il massimo impiego di tutte le risorse disponibili (capitale e lavoro) in uno scenario di economia sostenibile nel medio-lungo termine, risolvendo il problema della stagnazione ormai pluridecennale, alias, investendo intensivamente per migliorare la produttività del sistema produttivo, dei servizi pubblici e privati, risolvendo il problema della concorrenza fiscale a livello mondiale. E qui gli affari si complicano enormemente perché se è difficile tecnicamente la prima parte del lavoro, ancora più difficile è la seconda parte per via delle difficoltà politiche a quel livello.

Axel Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, Campi del sapere, Feltrinelli, 2016

https://www.project-syndicate.org/commentary/lifelong-learning-cognitive-constraints-by-edoardo-campanella-2018-07
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