Gli eurobond come strumento per evitare la disgregazione dell’Unione europea.

In questa delicata fase si sta discutendo in diversi ambienti su come aumentare le risorse a disposizione dell’UE e, in particolare, la sua capacità fiscale intesa in termini di risorse proprie. Mi sembra opportuno fare alcune considerazioni preliminari prima di entrare nel merito di alcuni di questi problemi. Ormai da circa 25 anni siamo in regime di concorrenza fiscale al ribasso e senza regole a livello mondiale ed europeo. Questo regime ha “costretto” alcuni paesi europei ad abbandonare il processo di armonizzazione fiscale senza la quale è difficile pensare ad un sistema di tributi propri da intestare al governo – non alla governance – europeo. Altri paesi governati da neoliberisti hanno richiesto con forza tale sistema perché consentiva ed ha consentito loro di praticare la concorrenza fiscale attirando investimenti dall’estero e da altri Paesi membri (PM) della stessa Unione.

Al riguardo è necessario chiarire che l’art. 311 del TFUE – secondo me volutamente – usa il termine generico “risorse proprie”. Ricordo che di norma i governi si finanziano con imposte generali, imposte speciali, tasse, tariffe, prezzi pubblici, ricavi di vendita di pezzi di patrimonio pubblico, indebitamento. E forse dimentico qualche voce. Ma torno brevemente alla storia dell’armonizzazione fiscale nella UE negli ultimi tre decenni.

Basta ricordare il Rapporto Ruding del 1992 sull’armonizzazione delle aliquote delle imposte sulle imprese all’indomani del Trattato di Maastricht e, 20 (dicesi venti) anni dopo, la proposta della Commissione di una direttiva su una base imponibile consolidata comune (CCCTB) per l’evidente motivo che non basta armonizzare le aliquote poi bisogna mettersi d’accordo sulla definizione del reddito realizzato a cui applicare le aliquote. Ora sono passati altri 8 anni e il tema non è neanche in discussione. Secondo gli addetti ai lavori prevale lo scetticismo sulla possibilità di realizzare detta armonizzazione perché fa comodo ai governi neoliberisti e alle società di capitali di muoversi liberamente tra i vari PM anche per ridurre il loro carico fiscale.  

Sulle risorse proprie ci sono i lavori di un Gruppo di esperti di alto livello che ha prodotto  Rapporto Monti istituito nel 20014 e composto da membri nominati dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione. Il rapporto finale è stato pubblicato nel dicembre 2016 e presentato al Parlamento europeo nel gennaio successivo. Il Rapporto  è stato anche oggetto di analisi ed audizioni nelle nostre commissioni parlamentari. A otto anni dalla proposta di Direttiva e a più di tre anni dal Rapporto Monti siamo in una situazione in cui non si riesce ad approvare il quadro finanziario 2021-27 all’interno del quale non c’è accordo su come reintegrare i fondi che vengono meno per l’uscita della Gran Bretagna. Voglio ricordare che nel 2013 il Premier Cameron influì pesantemente sull’approvazione del Quadro finanziario che viene a scadenza quest’anno. Eravamo ancora sotto gli effetti negativi della seconda recessione europea, la Cancelliera Merkel e il Premier Cameron si misero d’accordo per ridurre di 60 miliardi la proposta della Commissione.

Adesso devo introdurre delle considerazioni per dimostrare che alla fin fine anche per le dimensioni risibili del bilancio comunitario questo, comunque alimentato, non ha alcuna seria rilevanza né per soddisfare i bisogni pubblici ordinari né – tanto meno – quelli straordinari che profilano all’orizzonte. Quello che desidero sottolineare ai miei lettori e agli amici federalisti è che siamo passati, per effetto della sopravvenuta e perdurante egemonia neoliberista, da una dominance della politica fiscale di stampo keynesiano ad una dominance monetarista che peraltro ha portato alla trasformazione di molte  banche centrali come la nostra BCE in autorità amministrative indipendenti. Ma con la piena libertà dei movimenti di capitali, con il multilateralismo non coordinato dei cambi flessibili (determinati presuntivamente dai mercati)  siamo passati ad una dominance della finanza rapace di New York ed associati. Le vicende della crisi 2008 dimostrano che neanche le banche centrali riescono a controllare la situazione nell’economia e nella finanza globalizzate. 

Queste premesse mi portano a dire che di certo il problema di dotare la Commissione di risorse proprie più consistenti è comunque sul tavolo ed è urgente anche perché entro l’anno bisogna approvare il Quadro finanziario poliennale 2021-2027 ma, a mio giudizio, non è prioritario se non correttamente inteso. In altre parole, il problema non è solo quello di dotare la Commissione di qualche tributo minore proprio (come una web tax, la carbon tax, Tobin Tax, ecc.) bensì quello di dotarla del potere di indebitamento, alias, di emettere titoli del debito pubblico europeo, alias, eurobond con finalità più ampie di quelle attualmente previste per il MES. Sappiamo che è stata respinta la proposta di avere all’interno della Commissione un vero e proprio ministro delle finanze e non se n’è fatto niente dell’altra proposta riduttiva di un Fondo monetario europeo.

Siamo in una situazione di doppia emergenza globale, sanitaria ed economica, si tratta di riuscire a mobilitare diverse migliaia di miliardi di euro. Vedi ad esempio il piano di tre mila miliardi euro lanciato da Confindustria di intesa con le altre associazioni datoriali europee per finanziare un vasto programma di infrastrutture europee. Scartati i soggetti emittenti di cui sopra, bisogna realisticamente prendere atto che l’unico strumento utilizzabile che abbiamo è il Meccanismo europeo di stabilità MES. Ho discusso questa questione con alcuni miei amici e colleghi economisti che propongono di non firmare la riforma del MES. Con tutta la stima che ho nei loro confronti io penso che si sbagliano. In emergenza io uso qualsiasi strumento ho a disposizione forzando anche le regole della condizionalità peraltro già attenuate rispetto a 6-7 anni fa. Il MES ora può intervenire in via preventiva per evitare e/o ridurre il rischio di default di un paese membro. Non sono un giurista professionale ma mi chiedo e chiedo ai colleghi giuristi emettere eurobond – come può fare attualmente il MES – non è comunque agire in via preventiva a sostegno di alcuni PM a rischio? Che differenza fa se si tratta di un gruppo limitato di PM invece che di uno solo? Agire a sostegno di un gruppo di PM invece che di uno solo non legittima maggiormente l’intervento del MES? E che dire se lo strumento nel caso odierno è a disposizione e a beneficio di tutti per via delle economie esterne che si creano uscendo dalla crisi minimizzando i costi?    Le residue regole di condizionalità possono essere sospese come la regola dell’unanimità in materia fiscale se c’è la volontà politica di farlo, se per ipotesi, invece che l’unanimità, fosse adottata in fatto una larga maggioranza qualificata.  E sappiamo che è stato fatto per le regole del Patto di stabilità e crescita altrettanto iugulatorie e contraddittorie. E’ vero che nelle regole del Patto di stabilità c’è una esplicita clausola di salvaguardia e si è agito in base ad essa ma anche nello statuto della BCE non c’erano esplicitamente menzionate alcune operazioni  di politica monetaria come le LTRO , le OMT poi definite operazioni non convenzionali ma che sono state adottate. La BCE e il MES sono istituzioni europee l’una prevista dal Trattato di Lisbona art. 13 l’altro da un Trattato intergovernativo ma sono strumenti che sono chiamati a perseguire obiettivi di stabilità e crescita.   Si tratta di utilizzare quello che c’è nell’interesse generale e, allo stesso tempo, di proporre la riforma dei Trattati.  Ho già scritto che rinviare la soluzione di questi problemi dopo la Conferenza sul futuro dell’UE rischia di tradursi in una immane perdita di tempo. Anche i Trattati vanno modificati perché con 27 Paesi membri (d’ora in poi PM) c’è sempre qualcuno che non è d’accordo e ci costringe a mandare l’Unione nell’irrilevanza.

Come noto, la settimana scorsa i leader di nove PM hanno lanciato un appello per proporre l’emissione degli eurobond. In un articolo sul Financial Times Wolfgang Munchau sostiene che in Germania la maggioranza delle forze politiche – socialdemocratici compresi – non è d’accordo e quindi  non crede in un ripensamento in tempi brevi ma lui personalmente ritiene che se i nove PM volessero sul serio gli eurobond dovrebbero comunque emetterli creando un gruppo d’avanguardia all’interno dell’eurozona. Non ritiene che Macron possa arrivare a tanto compromettendo il suo rapporto speciale con la Germania ma pensa che, con o senza la Francia, se i suddetti PM, in un modo o nell’altro, riuscissero ad emettere detti bond difficilmente la BCE potrebbe rifiutarsi di sostenerli ove necessario. Sarebbe un modo come l’altro per adottare lo schema della geometria variabile di cui si discute da diversi decenni. I volenterosi, quelli che se la sentono di andare avanti lo fanno dando la dimostrazione che si possono adottare strumenti più incisivi proprio per salvare l’euro e lo storico ed irrinunciabile processo di integrazione che altri PM stanno mettendo a rischio. Non ultimo,  Munchau, tenuto conto che negli ultimi dieci anni gli investimenti sono calati più o meno in molti PM, concorda che gli eurobond dovrebbero finanziare un vasto programma di investimenti per cercare salvaguardare al meglio i livelli occupazionali e lo sviluppo sostenibile. Se uno pensa che solo negli Stati Uniti si prevede un aumento di 47 milioni di disoccupati, e che nella stessa Germania si prevede una caduta del PIL di cinque punti come per l’Italia, il silenzio  su questi problemi e il rifiuto di assumere misure straordinarie per prepararsi ad affrontarli da parte di alcuni PM sono veramente da irresponsabili.

Quindi sarebbe un errore chiamare i proposti eurobond coronaBond o healthBond. Prima o poi e con tempi diversi dalla Pandemia singoli Paesi usciranno da soli anche perché ne sono stati colpiti in tempi diversi ma per uscire dalla prevista recessione dell’economia mondiale serve non solo la “cooperazione rafforzata” ma una cooperazione rafforzata del tipo di quella che nell’Ultima Guerra mondiale le potenze alleate riuscirono a mettere insieme contro i Paesi del Patto d’acciaio. Se questo è vero, non porta da nessuna parte l’ipotesi “faremo da soli” né, sul terreno strettamente economico, il problema può essere ridotto ad una questione di maggiore liquidità. Questa in parte c’è ma è solo una condizione necessaria e non sufficiente. Servono a livello mondiale massicci interventi diretti dell’operatore pubblico con programmi megalattici di infrastrutture pubbliche. Spesso viene citato il New Deal che il Presidente F. D. Roosevelt mise in atto negli Stati durante la Grande Depressione. Nessuno però ricorda che per uscire da essa ci vollero all’incirca 5-6 anni.  Certo oggi abbiamo strumenti diversi e possiamo fare tesoro di maggiori esperienze nella gestione dei cicli economici e forse i tempi potrebbero essere più brevi, ma appare sempre più chiaro che  il problema non è solo tecnico e/o di sola liquidità ma  schiettamente di assenza di volontà politica.

A parte i paesi della Lega anseatica, io non posso credere che la Germania che pacificamente ha conquistato un ruolo di primo piano in Europa voglia arroccarsi su una posizione che porterebbe a favorire le idee dei sovranisti e populisti di varia denominazione anche dentro casa sua. Deve capire che la politica economica e finanziaria non può essere regolamentata in maniera casistica e in fatto gestita da norme che alcuni esperti autorevoli non ritengono adeguate neanche per le situazioni normali. Figuriamoci per situazioni drammaticamente critiche come quella attuale. Non posso credere che possa continuare ad affidare il compito dell’implementazione di dette regole ai mercati.

@enzorus2020

La grande balla del Sud che vive alle spalle del Nord.

Finalmente una operazione verità sulla politica meridionalista dei governi degli ultimi 20 anni per non andare oltre. L’operazione non è nuova se uno pensa alle analisi della Svimez che annualmente pubblica un ponderoso Rapporto sull’economia del Mezzogiorno e due riviste (una economica ed una giuridica) su tematiche e ricerche più specialistiche. L’operazione non è nuova se uno pensa ai Conti pubblici territoriali che attirano l’attenzione solo degli addetti ai lavori e che vengono sistematicamente ignorati da ministri e parlamentari in un quadro di deterioramento dei conti pubblici da quando siamo passati dalla Relazione generale sulla situazione economica del paese e dal Dpef al generico e superficiale Documento di economia e finanza e al Programma nazionale di riforme – sempre promesse e per lo più non realizzate. Negli ultimi 25 anni è passata la narrazione secondo cui c’era una questione settentrionale che doveva avere la precedenza e che il Sud viveva alle spalle del Nord con la spesa assistenzialista.

Nel suo libro “La grande balla”, la nave di Teseo, 2020,  Roberto Napoletano, utilizzando i dati della Svimez e dei Conti Pubblici Territoriali, della Ragioneria generale dello Stato, dell’Istat, smentisce questa tesi e con interventi continui sul “Quotidiano del Sud – L’altravocedell’Italia” sta portando avanti una battaglia meridionalista ad oltranza che ha già avuto un suo sbocco parlamentare con le audizioni davanti alla Commissione finanze della Camera dei deputati presieduta da Carla Ruocco e da Antonio Misiani. 

Napoletano scrive di 61 miliardi all’anno non erogati alle regioni meridionali negli ultimi dieci anni che avrebbero dovuto andare a coprire i fabbisogni di asili nido, scuole, mense, centri estivi che però non vengono erogati grazie alla mancata attuazione dei fabbisogni e dei costi standard. Parla del deficit infrastrutturale del Mezzogiorno, dell’assenza di treni ad alta velocità tra Salerno e Reggio Calabria e tra Napoli e Bari per non parlare delle ferrovie siciliane. Scrive della mancata attuazione del fondo perequativo di cui all’art. 119 Cost. e della distribuzione regionale della spesa pubblica che non tiene conto della spesa pensionistica e degli interessi pagati sul debito pubblico che avvantaggia le regioni del centro Nord e che, per giunta, non vengono conteggiati nel calcolo del c.d. residuo fiscale. Tenendo conto del parametro demografico al Mezzogiorno spetterebbe il 34% dei nuovi investimenti mentre in fatto ne arrivano molto meno.

Cita i conti pubblici territoriali del 2017 che contengono una serie storica che documenta la sperequazione nella distribuzione della spesa pubblica regionale che tiene conto dei dati di cassa.  Critica il capitalismo relazionale che prevale in Italia dopo la liquidazione di quello statale dell’IRI e di quello delle grandi famiglie. Parla di un “privato”, secondo i neoliberisti, sempre migliore e più efficiente del “pubblico” mentre, ad esempio, i fatti della gestione della rete autostradale in concessione dimostrano esattamente il contrario.   Detto capitalismo predica le regole del mercato ma nei fatti applica le pratiche estrattive della rendita (rent-seeking). Analisi che converge con quella di Luca Ricolfi nel suo ultimo libro sulla Società signorile di massa.

Denuncia un grave problema di classe dirigente locale sia al Nord che al Sud che spiega non solo con la finanziarizzazione dell’economia ma anche con la scomparsa dei partiti strutturati di una volta. Per cui oggi abbiamo una classe politica al Nord predona dei fondi pubblici ma mancante di strategie industriali che ci hanno ridotti a subfornitori della Germania e della Francia. Simmetricamente al Sud vede un’avvilente evaporazione  della classe dirigente meridionale che assiste inerte e rassegnata al declino ineluttabile di quasi tutte le regioni meridionali incapaci di progettazione, incapaci di utilizzare i fondi comunitari e/o di farsi sentire in maniera coordinata all’interno della Conferenza Stato e autonomia locali. 

Questa constatazione lo porta a proporre l’abrogazione delle regioni o il loro ridimensionamento continua. Personalmente non condivido questa ipotesi: in primo luogo, perché 140 anni di Stato centralizzato non hanno dato ottima prova di sé: c’è stata sempre e c’è ancora una questione meridionale e le classi dirigenti locali dovrebbero essere i protagonisti del suo rilancio;  in secondo luogo, perché la costituzione europea, sia pure allo Stato embrionale, è e sarà sempre più una forma di governo decentralizzato e, quindi, l’ipotesi formulata da Napoletano sarebbe in contrasto con l’auspicale pieno sviluppo in senso federale dell’Unione europea che vuole essere una Europa delle regioni;  in terzo luogo, se la crisi, come sostiene Napoletano, è anche crisi dei partiti il problema sta non solo nella scarsa qualità della classe dirigente locale ma in altri fattori tra i quali anche la legge per la elezione diretta del presidente della regione. Detta legge favorisce gli outsiders e i demagoghi; ha ridimensionato il ruolo delle assemblee legislative; consegna importanti regioni nelle mani di un solo uomo come se si trattasse di un piccolo comune. Si invece ad una più attenta redistribuzione delle competenze e al rilancio del ruolo delle regioni in materia di programmazione dello sviluppo se si vuole coprire il vuoto di progettazione e l’incapacità di spendere specialmente nelle regioni meridionali.

 Sul primo versante, l’odierna crisi sanitaria richiama la natura globale del bene salute pubblica.  La sanità elencata tra le materie a competenza concorrente, a mio parere, non è in contrasto con l’art. 32 della Costituzione e con gli artt. 6 e 168 del Trattato di Lisbona che la elenca come materia di competenza concorrente speciale. Il problema sta nell’ultima frase del comma 3 dell’art. 117 Cost. che recita: “Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei princìpi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato” che sembra assegnare il grosso della iniziativa legislativa alle regioni. In realtà, tale interpretazione è frutto di un malinteso perché è chiaro che se si condivide la tutela piena si condivide anche l’iniziativa legislativa che l’attua e che, in ogni caso, vale il principio di sussidiarietà dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, come prevede il protocollo n. 25 allegato al Trattato di Lisbona che chiarisce a modo suo la competenza concorrente speciale del più alto livello dell’Unione europea. In altre parole, persino i Paesi membri e le regioni in via sussidiaria agirebbero nei limiti in cui l’Unione non ha agito o ha cessato di agire in materia di salute pubblica. Poteri che in fatto l’Unione non ha esercitato neanche nei limiti di azioni di sostegno, completamento e coordinamento delle politiche sanitarie dei PM di cui all’art. 6 citato.  E come avrebbe potuto e come potrebbe mai farlo con un bilancio attorno all’1% del PIL dei PM e con assegnazioni risibili di risorse al piano sanità. Rinvio al mio post: http://enzorusso.blog/2020/03/04/la-salute-come-bene-pubblico-globale-ed-europeo/

Napoletano critica le regioni che avrebbero ostacolato l’attuazione della quota riservata di investimenti al SUD.          A me sembra che le Regioni a statuto ordinario non hanno mai impedito la destinazione del 40% dei nuovi investimenti al Sud prima perché negli anni del Centro-sinistra le RSO ancora non esistevano ma c’era un’attività di programmazione e lo Stato aveva a disposizione il sistema delle imprese pubbliche e di quelle a partecipazione statale. Quando lentamente nel 1976 si completa l’armamentario degli strumenti a disposizione delle RSO non c’è più la programmazione del governo centrale per via della crisi del Centro-sinistra, del crollo di Bretton Woods (Agosto 1971), del primo shock petrolifero 1973, della crisi mondiale dell’industria dell’acciaio e della cantieristica che porta da un lato alla cancellazione del V centro siderurgico di Gioia Tauro, e a provvedimenti di riconversione e/o ristrutturazione di molti settori industriali. Nel 1976 a fronte dell’accelerazione del processo inflazionistico dovuta al conflitto distributivo non solo interno ma anche internazionale, la priorità diventa la stabilizzazione dei prezzi con buona pace della programmazione della crescita anche delle regioni meridionali.  Nel 1978 veniva istituito il sistema sanitario nazionale e i trasferimenti e/o il gettito di tributi erariali devoluto alle Regioni viene a costituire il 75-80% delle entrate dei loro bilanci. Come ha scritto Giuliano Amato le regioni diventano stazioni di mediazione politica. Se aggiungiamo l’acutizzarsi della strategia terroristica di quelli anni – con il 1977 definito come l’anno della P38 e con il rapimento e assassinio del Presidente Moro nel 1978, e che il terrorismo metteva in discussione la sopravvivenza del sistema democratico il quadro è più o meno completo. Nel frattempo a livello europeo vinceva il neoliberismo e la fede nelle capacità taumaturgiche del mercato a fronte dei fallimenti dello stato. Gli attentati terroristici continuano e l’inflazione arriva a superare il 20 %, l’Italia esce ripetutamente dal Sistema monetario europeo. Negli anni 70 si susseguono tre recessioni nel 1971, 1975 e 1977 e tuttavia il tasso medio di crescita si aggira attorno al 3,7%; poi arriva la lunga recessione dei primi tre anni 80; nel secondo semestre 1983 l’Italia riesce ad agganciare il ciclo internazionale, la nave va ma la crescita annua del decennio scende al 2,5%.

Dieci anni dopo siamo punto e accapo, nell’Estate 1992 la lira esce dal sistema monetario europeo e il governo Amato è costretto a fare una manovra da 90 mila miliardi per stabilizzare il cambio e l’economia. Nel 1996 il governo Prodi deve fare un’altra manovra per entrare nell’euro.   Si continua a parlare di programmazione negoziale proponendo patti territoriali e contratti d’area ma detti istituti non vengono attuati bene come non viene attuata la seconda parte dei protocolli sulla politica dei redditi del 1992 e 1993.   In quest’ultimo anno, si abroga l’Agensud che aveva sostituito la Cassa del Mezzogiorno – dipinta come il vaso di Pandora di tutti i mali – e declinano gli investimenti pubblici e privati anche nel Mezzogiorno. A fronte della crescita del debito pubblico la soluzione accettata come naturale è quella delle privatizzazioni anche perché nel frattempo tutta la sinistra europea fa propri i paradigmi neoliberisti. Nel 1994 vince il centro-destra e Bossi ottiene l’abrogazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Il governo Dini si impegna soprattutto nella riforma delle pensioni mentre il successivo governo Prodi riesce a farci superare l’esame di ingresso nell’Unione economica e monetaria. Con riguardo al Mezzogiorno si opera l’inserimento della legislazione sull’intervento straordinario nelle procedure ordinarie del bilancio dello Stato – operazione che occupa ben quattro anni. Ricordare quello che è successo negli anni 90 è essenziale per capire quello che succederà anche nei primi due decenni del XXI secolo. Negli anni 90 si riformano i sistemi elettorali, per merito dell’On. Bossi leader della Lega Nord, inizia un contrastato processo di riforma dello Stato nella direzione di un assetto federale – ancora non compiuto. Le leggi Bassanini propongono l’anticipazione del federalismo passando per il federalismo amministrativo, ossia, decentramento, delegificazione, semplificazione delle procedure, formazione del personale, telelavoro, riforma della Presidenza del Consiglio dei ministri, Autorità amministrative indipendenti, spoils system, ecc.. Inizia un lento e travagliato processo di risanamento dei conti pubblici che a fronte delle ripetute crisi congiunturali anche di origine esterna, all’inizio e alla fine del decennio, contribuisce a dare un’impronta strutturale alla bassa crescita dell’economia italiana – 1,5% tasso medio annuo del decennio – che si ragguaglia ad un misero 0,23 negli anni 2000 per diventare negativo in questo secondo decennio- ormai un evento ineluttabile anche per via delle conseguenze della crisi del coronavirus.

La mancata attuazione del federalismo lascia anche le Regioni in mezzo al guado e abbarbicate alla gestione della funzione sanitaria, senza vera autonomia finanziaria, senza risorse per gestire al meglio la formazione, le politiche attive del lavoro, senza consapevolezza che una più generale recupero della competitività del sistema Italia passa anche attraverso il rilancio dell’economia meridionale, la ricerca e l’innovazione, una nuova politica industriale, la digitalizzazione e la conversione ecologica dell’economia, in sintesi, lo sviluppo sostenibile.   Oggi l’Italia deve affrontare le sfide poste dal cambiamento tecnologico e da quello demografico – ora nel bel mezzo di una pandemia e di una recessione economica. Si richiede un piano organico di interventi dal lato della domanda e dell’offerta, alias, si richiede una pianificazione strategica quella che una volta chiamavamo PPBS (planning, programming, budgeting system) di cui pochi parlano oggi perché prevale la veduta corta dei politici. Non si pensa né alla pianificazione né alla programmazione di medio termine perché come vediamo ogni anno a fatica si riesce a varare con voto di fiducia su un   maxiemendamento presentato all’ultimo momento la legge di bilancio e le proiezioni triennali del DEF e del PNR restano scritte nella sabbia.

La rapina dei fondi che dovrebbero andare al Sud e che con il criterio della spesa storica vengono dati al Nord è resa operativa per i ritardi nell’attuazione del federalismo. Voglio ricordare che il problema era stato affrontato nella legge delega n. 133/1999 che prevedeva un periodo transitorio di soli tre anni per arrivare ai fabbisogni e costi standard.  Prevedeva anche nuovi sistemi perequativi lasciando fuori da essi il finanziamento della sanità che essendo un bene pubblico nazionale doveva avere una logica diversa. Fu emanato il d. lgs. n. 56/2000 ma anche questo decreto non venne attuato perché i Presidenti delle regioni preferirono negoziare patti della salute annuali. Poi arrivò nel 2001 la riforma del Tit. V.  Ma ci sono voluti altri 8 anni per arrivare alla legge n.42/2009, nel bel mezzo della doppia recessione 2009-2012. Il progetto di riforma avviato da questa legge era incentrato sul coordinamento della finanza pubblica e sul passaggio dalla spesa storica ai fabbisogni determinati secondo i costi standard ma dieci anni dopo siamo ancora ad una Commissione che sta studiando il problema. Le regioni hanno le loro colpe ma la colpa principale, a mio giudizio, resta con i governi centrali e le maggioranze che si sono succedute nel tempo. Inoltre vedo un collegamento con le esperienze di spending review sempre affidate a Commissioni di esperti esterni e non ai dirigenti delle pubbliche amministrazioni. Se si fosse solta la spending review sul serio attraverso un’attività ordinaria e sistematica non solo a livello centrale ma anche sub-centrale e se avessero funzionato sul serio le migliaia di nuclei di valutazione della efficacia delle varie politiche pubbliche avremmo avuto tutti i dati per costruire fabbisogni e costi standard, e livelli essenziali delle prestazioni. Invece no. C’è sì un grosso problema di distribuzione delle risorse – come sottolinea instancabilmente Napoletano – ma c’è anche un problema di capacità di spesa, di valutazione dell’efficienza, economicità e efficacia di detta spesa. Come del resto c’è anche un problema di accertamento delle entrate tributarie in maniera equa ed efficiente. C’è in sintesi un grosso problema di efficienza della pubblica amministrazione a tutti i livelli di governo. Napoletano loda ripetutamente questo governo per avere avviato l’operazione verità sulla questione meridionale e fa bene a farlo. Critica le classi politiche locali del Nord e del Sud ma a fronte della crisi sanitaria e della conseguente e imminente recessione economica di cui Napoletano non si occupa perché aveva chiuso il libro prima, purtroppo, reputo basse le probabilità che questo governo possa trovare l’accordo per la revisione attenta dell’art. 117 Cost. e l’attuazione prioritaria del successivo art. 119 sui meccanismi perequativi necessari e fondamentali nell’attuazione del federalismo.  Un paese non può restare in mezzo al guado per 25 anni.

@enzorus2020

UNA COINCIDENZA INVOLONTARIA DI Livio Zanotti

La pandemia Covid19 ha allineato (senza in null’altro avvicinarli) le politiche sanitarie dei presidenti di Messico e Brasile, i due massimi giganti industriali latinoamericani e maggiori partners commerciali dell’Italia nella regione. Fieri avversari in tutto e per tutto, di fronte alla sfida mortale del coronavirus lo scettico populista di sinistra Andrés Manuel Lopez Obregon e l’ultra religioso evangelico Jair Bolsonaro, estremista di destra, hanno compiuto analoghe valutazioni riduzioniste dei pericoli sanitari che hanno di fronte. Privilegiano le preoccupazioni per i rispettivi sistemi produttivi e conti pubblici, che attraversano gravi difficoltà, rispetto a quelle per la salute dei loro cittadini, in non minor pericolo. Entrambi resistono a dichiarare la quarantena nazionale decisa invece da altri paesi per contenere i contagi, a cominciare dall’Argentina, che immediatamente li segue per abitanti e prodotto interno lordo (PIL).

La spiegazione di questa sorprendente coincidenza cosi come delle decisioni in senso contrario o di quelle intermedie di altri governi si ricava dal contesto generale dell’America Latina, dolorosamente marcato dalle ineguaglianze tra paese e paese, città e campagne, classi sociali e individui. Nella relativa fragilità dei suoi diversificati ma sempre insufficienti livelli di sviluppo, dei sistemi istituzionali, nella scarsa integrazione culturale e sociale dei suoi quasi 700 milioni di abitanti. Come del resto, al netto delle differenze, in altre zone del mondo, non escluse le più tecnologicamente avanzate. Se la maggioranza dei lavoratori dell’Ilva di Taranto preferiscono il rischio del cancro alla certezza della disoccupazione, non può stupire un’analoga tendenza in zone in cui l’economia informale, cioè il lavoro nero, costituisce il 30/40 per cento del totale. Era esattamente così anche nel celebrato Giappone del boom economico di fine secolo scorso.

Diversi, tuttavia, politiche sociali e temperamenti dei due capi di stato. Pur manifestando entrambi tendenze autoritarie, che del resto non mancano certo di precedenti nella storia dei loro paesi, Lopez Obrador giustifica il proprio azzardo nello sperare che il Covid19 non invada il Messico con la medesima virulenza con cui lo ha fatto nella lontana Europa e nei confinanti Stati Uniti, proteggendo in qualche misura i cittadini maggiormente esposti. E lo fa con provvedimenti insufficienti ma coerenti. Bolsonaro esibisce un ottimismo messianico insieme a un’indifferenza per la sorte altrui e il mondo del lavoro subordinato specialmente, che gli provoca critiche di suoi ministri e generali. Ai quali egli ribatte con accuse di tradimento e personalismo. Salvo poi dover rinnegare le affermazioni più incaute (“Si qualcuno morirà… Mi dispiace… Mia madre ha 92 anni, ci potrebbe lasciare…”) e -costretto dal suo stesso partito- fare marcia indietro sull’idea di sospendere dal lavoro senza salario decine di migliaia di operai.

I governatori di due stati-chiave come San Paolo e Rio de Janeiro hanno proclamato la massima emergenza. Devono far fronte a centinaia di infettati conclamati e alle prime decine di morti. Ma sanno che la realtà è infinitamente più grave. Le città capoluogo d’entrambi gli stati sono intersecate da molte decine di favelas che alloggiano precariamente milioni di persone d’ogni età e sono prive di servizi igienici e sanitari affidabili. Non è eccezionale che nelle case manchi anche l’acqua corrente. Potrebbe verificarsi una catastrofe umanitaria senza rimedio. Il socialdemocratico Joao Doria, da Rio, il socialcristiano Wilson Witzel da San Paolo, e altri 27 governatori, alcuni suoi alleati politici, sollecitano Bolsonaro a concordare urgentemente misure adeguate. Lui, preoccupato d’ogni eventuale concorrente, risponde attraverso la CNN che stanno solo “pensando con eccesso di anticipo a prepararsi la loro campagna elettorale”.

Il suo ministro dell’Economia ha intanto ridotto a zero le stime di crescita per l’anno in corso. Ma autorevoli istituzioni private e i mercati finanziari annunciano invece una forte recessione. La Fondazione Getulio Vargas (FGV) afferma che la maggiore economia del subcontinente rischia di retrocedere del 4,4 per cento nel 2020, per scendere ancora nei successivi 3 anni. In anticipo su una vertenza che con ogni probabilità avrà una portata globale, viene avvertito in Brasile e pubblicamente discusso l’insorgere di una esasperata competizione tra salari e profitti. Con una disoccupazione all’11,2 per cento e l’aggravamento della congiuntura determinato dalla pandemia, molte imprese stanno riducendo produzione, orario di lavoro e personale. Compagnie aeree, automobilistiche (Wolkswagen, Mercedes, Ford, GM), petrolchimiche a cominciare dalla stessa Petrobras, sollecitano aiuti dello stato.

Non soltanto, ma certamente in America Latina le legislazioni vigenti non appaiono in grado di soddisfare e neppure contenere le necessità create dalla pandemia. Tanto meno con la necessaria urgenza. I governi legiferano dunque per decreto. Non mancano di giustificazioni. Ma sebbene sotto stress e comunque evitando in generale psicosi cospirative, l’opinione pubblica non tace preoccupazioni e perfino allarmi per l’emarginazione di fatto delle normali procedure democratiche, già insoddisfacenti. Il liberalismo politico, l’economia di mercato e le istituzioni democratiche, che con maggiore o minore sensibilità sociale o anche semplicemente umanitaria hanno alimentato e sostenuto l’egemonia culturale dell’Occidente dal secondo dopo-guerra a oggi, visti dall’estremità latinoamericana appaiono disconnessi e in qualche punto a rischio di vacillare.

Livio Zanotti

Uno specchio deformante riflette l’America latina di Livio Zanotti

Come negli specchi deformanti dei vecchi luna-park, ma senza quella perduta allegria, l’America Latina si riflette nella lattiginosa opacità del Corona Virus e stenta a riconoscersi. Ma alla paura di se stessa, dei suoi conflitti, delle carenze e fragilità, si sforza di sovrapporre l’energica volontà dei paesi emergenti, decisi a non lasciarsi travolgere dallo tsunami del Covid19. Argentina, Colombia e Perù hanno chiuso le rispettive frontiere terrestri, aeree, marittime e fluviali, ristretto severamente i movimenti interni. L’Argentina è stata la prima a reagire, altri paesi si apprestano a seguirla in queste ore. Non senza polemiche interne e gravi richiami se non vere e proprie censure all’imprevidenza di tanti governi e all’incredulità di tanti cittadini, non solo nel subcontinente.

In Messico, stretto tra i provvedimenti degli Stati Uniti, tardivi ma di forte impatto sui paesi limitrofi, e un Centroamerica che è forse la zona a maggiore rischio nell’intero continente, il presidente Lopez Obrador appare più preoccupato di mantenere in piedi la capacità produttiva del paese in questa oscillante congiuntura, che di circoscrivere la pandemia del Corona Virus. Anche in Cile, che finora ne stato soltanto sfiorato, la maggior parte della popolazione tende a credere che l’allarme lanciato adesso dal governo sia essenzialmente un espediente per impedire le proteste di piazza che da 5 mesi scuotono il paese. Pur criticando il tempo perduto dal presidente Sebastian Piñera, la stessa opposizione conviene nondimeno di rinviare il referendum costituzionale del prossimo 26 aprile. E anche i manifestanti cominciano la ritirata, lentamente e a malincuore. Solo in Brasile il presidente Bolsonaro festeggia con decine di invitati il suo compleanno.

La pandemia sembra smuovere, in cambio, il tormentato conflitto politico venezuelano, mantenuto in trincea dagli estremismi contrapposti. Da lungo tempo l’emergenza sanitaria causata dal tracollo economico e dalla conseguente penuria di farmaci, strumentazione e personale medico, assedia il paese caraibico. Il suo improvviso e ulteriore (e non si sa quanto drammatico) aggravamento provocato dal Covid19 ha scosso anche il governo di Caracas, che per farvi fronte sollecita un prestito di mille500 milioni di dollari al Fondo Monetario Internazionale (FMI). Un credito limitato, che comunque implica un rapporto politico con la comunità internazionale. E internamente accredita le voci di una ripresa di dialogo tra governo e opposizione, sebbene non ci sia stato ancora alcun incontro. Si, invece, una pre-intesa per rinviare le elezioni previste per quest’anno e svelenire il clima politico.

La stampa sudamericana, dalla rivista brasiliana Veja al quotidiano argentino Pagina12, al Espectador di Bogotà, pubblica documenti di autorevoli organizzazioni internazionali che sotto forma di ipotesi e/o di previsioni da tempo avvertono praticamente tutti i governi del mondo e con puntuale insistenza interloquiscono con le competenti commissioni delle Nazioni Unite sui crescenti rischi di pandemie. Il Global Preparedness Monitoring Board (GPMB) aveva annunciato un “rischio biologico mondiale catastrofico” che potrebbe infine comportare una perdita generalizzata di fiducia nelle istituzioni. A preannunciarlo, secondo gli esperti, sarebbe stato il notevole moltiplicarsi dell’intensità e della frequenza di episodi epidemici tra il 2011 e il 2018, per un totale di 1483 (Sars/Mers, Ebola, Zika, febbre gialla) in ben 172 paesi.

Sebbene diluiti nel tempo, ma con specifici riferimenti alle influenze e febbri di natura virale, pronostici analoghi sono stati anticipati anche dal Creating Global Health Risk Framework for Future e raccolti dall’Accademia Nazionale di Medicina degli Stati Uniti. Indagando nelle strutture biologiche dei ceppi virali sembra sia infatti possibile determinare la forza evolutiva di ciascuno di essi e dunque la loro capacità di mutazione e di adattamento prima che raggiungano un potenziale pandemico. Un risultato che alcuni dei ceppi studiati potrebbero già aver maturato, divenendo pertanto rischi presenti e attuali. “Un mondo a rischio”, è -per l’appunto- il titolo del volume di 48 pagine diffuso l’anno scorso dal GPMB.

Quello delle previsioni è tuttavia un punto non tanto controverso quanto di valore relativo. Nel senso che si tratta di studi scientifici seri, realizzati da specialisti più che accreditati. Ma pur sempre di carattere probabilistico, basato cioè su calcoli statistici proiettati in una visione ipotetica. Un lavoro assimilabile a quello degli stati maggiori militari di tutto il mondo, i quali ipotizzano continuamente possibilità reali di guerra e ne sviluppano diversi esiti per tentare di risolverli nel modo più vantaggioso. Anch’essi sulla ineludibile base del rapporto costi-ricavi, sia umani sia materiali. E’ poi il potere politico a valutare e decidere cosa fare e cosa non fare. Nelle culture oggi dominanti, anche in quelle meno mercantiliste e più sensibili invece ai valori dell’essere umano in quanto tale, la preoccupazione per la crescita materiale dell’economia prevale spesso su quella diretta alla difesa primaria delle popolazioni, del loro stato di salute.

Livio Zanotti

Il coronavirus in America Latina. Un dramma e un diversivo per l’opinione pubblica. Di Livio Zanotti

Il Coronavirus, fatalmente, è arrivato anche in America Latina. E fatalmente è stato subito metabolizzato dalla politica. Per negarne la nocività, come ha fatto in Brasile il presidente Jair Bolsonaro (che ora ha 2 infettati nel suo stesso staff); per usarlo da paravento come in Colombia o prendendo tempo nella speranza del miracolo. Con il governo argentino che ha già decretato l’emergenza nazionale e misure radicali. E il Messico che s’appresta a farlo. I casi accertati e dichiarati sono finora nell’ordine delle poche centinaia, su una popolazione di quasi 700 milioni di abitanti.

Le autorità sanitarie prevedono la fase acuta della pandemia tra 30/90 giorni. Quelle politiche già hanno varato limitazioni dei voli aerei con Europa, Stati Uniti e Asia, sospeso gli spettacoli di massa dal calcio ai concerti, alle ricorrenze pubbliche, mobilitando tutti i mezzi di comunicazione di massa per avvertire le popolazioni sui rischi di contagio e i modi per evitarlo o almeno ridurlo al minimo.. Ma in quasi tutti i paesi l’emergenza sanitaria viene usata anche come strumento di distrazione di massa dai governi in difficoltà o di denunce politiche da parte delle opposizioni che pretendono smascherarne la strumentalizzazione.

In Cile il governo ha tenuto uno stato di pre-allarme, di fatto senza predisporre un’emergenza sanitaria. Molte decine di migliaia di manifestanti sono dunque tornati in piazza per celebrare il trentesimo anniversario della sconfitta di Pinochet e il ritorno della democrazia, ignorando il coronavirus. In pratica la loro protesta prosegue quasi ininterrotta dal 18 ottobre scorso. E di nuovo si è scontrata con le dure cariche della polizia che continua a sparare salve di lacrimogeni e di pallini di plastica metallizzati, sebbene pubblicamente condannati dalla commissione per la difesa dei diritti umani delle Nazioni Unite.

Nelle settimane scorse l’uso di questa fucileria mirata ad altezza del volto, ha lesionato gravemente gli occhi e in molti casi reso ciechi oltre centocinquanta manifestanti. Senza peraltro riuscire a smorzare la protesta. C’è una parte del paese, difficile da misurare ma di certo molto rilevante, e prevalente tra gli studenti e i giovani in generale, convinta di dover mantenere la pressione di piazza sul presidente Sebastian Piñera e su tutti i partiti senza eccezioni (che -per dare un’idea- negli ultimi 6 mesi hanno perduto complessivamente quasi 20mila iscritti) al fine di evitare che vengano meno agli impegni assunti . E perfino il corona-virus viene visto come un possibile pretesto.

Il prossimo 26 aprile, 14 milioni di cileni voteranno infatti per un referendum costituzionale che Piñera ha accettato per necessità ma anche per convinzione. Al contrario di altri settori della destra nazionale, egli non considera perduta la partita. Doveva contenere la sollevazione accesa cinque mesi addietro dalla sua decisione di aumentare il costo dei trasporti pubblici e rapidamente divenuta una contestazione generale delle istituzioni vigenti, accusate di essere anti-democratiche.

Il voto deciderà non solo sulla abolizione della Costituzione voluta da Pinochet e in vigore dal 1980; bensì -e non è un dettaglio minore, poiché probabilmente cambierà i rapporti di forza parlamentari attualmente favorevoli alla destra-, anche se a redigere l’eventuale nuovo testo dei diritti fondamentali sarà l’attuale Parlamento integrato per metà da nuovi eletti, oppure da un’Assemblea Costituente totalmente rinnovata. Sarà la prima volta nella sua storia che il popolo cileno interverrà direttamente nella formulazione della sua Magna Carta.

Con le manifestazioni di protesta se la deve vedere anche il presidente della Colombia, Ivan Duque, che in questi giorni è stato messo ancor più nei guai dal sospetto di aver comprato voti decisivi per la sua elezione, nel giugno 2018, attraverso il noto narcotrafficante José Hernàndez, indagato per omicidio dalla giustizia ed egli stesso assassinato l’anno scorso in Brasile. Il soprannome del narco era Ñeñe, un soprannome compiacente, trasformato immediatamente dal sarcasmo popolare in Ñeñe-virus, ad indicare la pericolosità che rappresenta adesso per il Presidente e il suo partito, il Centro Democratico. I giornali pubblicano una gran quantità di foto in cui Hernandez è abbracciato sia con Duque, sia con il suo massimo sostenitore, l’ex presidente Alvaro Uribe, e una loro stretta collaboratrice, Maria Claudia Daza, che appena esploso lo scandalo ha lasciato la Colombia. Mentre Uribe va sotto inchiesta della magistratura.

In Venezuela Nicolas Maduro spera che il coronavirus gli eviti le scadenze elettorali di quest’anno e costringa le opposizioni a frenare la protesta contro il governo. Qualche suo ministro dice persino che potrebbe uscirne rafforzato, poiché lo stato ed essenzialmente le forze armate risultano indispensabili nel caso di crisi sanitaria. Non infondato, all’opposto, il timore che nel caso in cui la piaga virale invada anche il paese caraibico, purtroppo probabile malgrado il suo parziale isolamento, potrebbe determinare una situazione di ingovernabilità totale.

Con produzione e prezzi petroliferi in discesa, l’economia si regge oggi acrobaticamente sui trampoli dei sussidi pubblici da una parte e della dollarizzazione del mercato libero dall’altra. E’ penoso immaginare come lo scossone della pandemia, che già assedia gran parte del mondo, potrebbe mandare d’un colpo gambe all’aria non solo il già vacillante sistema sanitario bensì la vita quotidiana del Venezuela. Se dovesse determinarsi questo scenario, gli effetti potrebbero rapidamente contaminerebbero gli equilibri politici del subcontinente.

Livio Zanotti

La salute come bene pubblico globale ed europeo.

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Continuano le baruffe chiozzotte tra maggioranza di governo e opposizione sulla gestione della crisi coronavirus da parte delle Regioni e del governo centrale. È sempre più evidente (e non solo da oggi) che la salute è bene pubblico globale in un mondo fortemente interdipendente, globalizzato. Non è che l’Unione europea non abbia competenze in materia, il problema è che esse si limitano a allo svolgimento di “azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri. E nei settori in cui tali azioni si possono svolgere “la tutela miglioramento della salute umana” è alla lettera a) dell’art. 6 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. È di tutta evidenza che in molti casi sostenere e completare l’azione degli stati membri richiede adeguati finanziamenti – come vedremo più avanti.

Con riguardo alle previsioni della Costituzione italiana, soccorre l’art. 117 comma 3 della Costituzione che prescrive una competenza concorrente tra governo centrali e governi regionali. Bisogna ricordare che, in fase costituente, i nostri illuminati costituenti fecero una scelta “sbagliata” ad attribuire alle regioni competenze in materia sanitaria perché non avevano a disposizione una teoria consolidata dei beni pubblici che arriverà nel 1954 con Samuelson  e con Tiebout nel 1956. Fu un errore confermato anche alla riforma del Titolo V nel 2001.  La mia tesi personale è sempre stata che bisogna togliere questa competenza alle Regioni la cui missione originaria era quella della programmazione economica. Non casualmente l’unico presidente di Regione che ha osato esprimersi negli stessi termini è stato Chiamparino presidente della Regione Piemonte nell’ultimo anno del suo mandato e vedi il caso è stato assistente universitario di scienza delle finanze. Sarebbe auspicabile che la Conferenza sul futuro dell’Europa si occupasse di questa importante e vitale questione.

Ecco, se si accoglie l’idea che la salute è un bene pubblico globale – come in fatto lo è – il discorso ovviamente non può limitarsi all’Unione europea, esso va esteso a livello mondiale. A fronte del diffondersi delle epidemie in diversi paesi, anche se ancora non siamo tecnicamente in una pandemia, può essere utile capire di che cosa stiamo parlando e quale siano le strutture sovranazionali preposte a circoscrivere il problema e, possibilmente, risolverlo in tempi ragionevoli. Anche a questo livello non siamo all’anno zero. Non a caso abbiamo dal 1948 l’organizzazione mondiale della sanità con sede Ginevra. Senonché questa organizzazione si limita a promuovere la cooperazione internazionale specialmente nella lotta alle malattie infettive e nell’affrontare le emergenze sanitarie. Quindi il suo compito specifico è quello di emettere raccomandazioni, favorire la definizione di convenzioni e altri accordi tra i paesi associati (193), assistere i paesi membri anche nella prevenzione.

Non è vero che l’Unione europea non fa niente. infatti a seguito della diffusione del virus della Sars nel 2003 l’UE ha promosso il programma europeo salute 2014-2020 che ha lo scopo di completare, supportare e valorizzare le politiche dei paesi membri ed il PRO.M.I.S alias, il programma mattone internazionale della salute a partire dal 2015. Come in altre missioni che assume, il problema è che non ci mette risorse sufficienti. Per detto programma la spesa settennale prevista ammonta a 449 milioni di euro. Le solite patatine con le quali alcuni bevono l’aperitivo. È vero che in molti paesi membri i sistemi sanitari sono molto sviluppati ma se uno fa il confronto con i 45 miliardi di dollari che ha speso per la sanità nel mondo, in primo luogo in Africa, la Fondazione Bill e Melinda Gates ogni commento è superfluo. Ancora a livello globale si occupano di sanità il G7, il G20  e i BRICS il tutto inserito nel quadro del programma SDGs (Sustainable Development Goals System) 2030 delle Nazioni Unite.

Ora se l’OMS si limita in via principale a fare guidance o assistenza tecnico-scientifica, è chiaro che nell’ambito della governance dell’ONU le agenzie specializzate ed in particolare la Banca Mondiale dovrebbe assumere un ruolo di primo piano proprio perché è lo strumento principale per finanziare programmi di sviluppo equo e sostenibile in una fase storica in cui l’economia mondiale va incontro alla grande trasformazione della conversione ecologica e a quella della digitalizzazione anche se in Africa e in altri paesi in via di sviluppo il problema fondamentale resta quello delle infrastrutture, degli acquedotti, del trattamento dei rifiuti, dei sistemi fognari, della disponibilità di acqua potabile e delle condizioni igieniche nelle bidonville, nei campi profughi, ecc..

Ora è chiaro che molte delle organizzazioni menzionate sopra si limitano a enunciare e raccomandare obiettivi largamente condivisibili che poi non trovano finanziamenti adeguati e, quindi, le enunciazioni rimangono allo stato di pii desideri. Si tratta di problemi estremamente complessi perché la salute pubblica in molti paesi dipende dalla malnutrizione, dall’ambiente degradato, dalle condizioni igieniche dei posti in cui si vive e si lavora, dalle infrastrutture fisiche e, come noto, lo sviluppo equo e sostenibile è un obiettivo ancora lontano anche nei paesi più avanzati.1

Ci sono problemi immani di coordinamento tra le organizzazioni internazionali e i paesi in via di sviluppo, tra questi e quelli sviluppati e molti paesi sono governati da dittature più o meno feroci che non ammettono ingerenze nei loro affari interni. Ma la politica italiana si trastulla in una insulsa polemica sulla divisione delle competenze in materia senza rendersi conto che un assetto di competenze concorrenti é la premessa necessaria anche se non sufficiente per la cooperazione e il coordinamento.

1 Per chi volesse approfondire la tematica dei beni pubblici europei troverà approfondimenti nel volume di Astrid, Il finanziamento dell’Europa. Il bilancio dell’Unione e i beni pubblici europei, a cura di Maria Teresa Salvemini e Franco Bassanini, Passigli Editori, 2010.