E’ un vero ossimoro l’alleanza tra i sovranisti?

Da alcune settimana viene propalata l’idea che un’alleanza tra gli emergenti partiti populisti e sovranisti nella Unione europea (UE) sia un ossimoro perché per definizione i sovranisti pensano agli affari propri; sarebbero nazionalisti, isolazionisti e, quindi, non ci sarebbe molto da temere dalla rinascita di detti movimenti. Un governo sovranista pensa sempre a proteggere i propri interessi e per questo motivo non si alleerà mai con altri governi sovranisti. In altre parole si esclude che i governi sovranisti possano avere interessi comuni e si addita a riprova il fatto che tra i Paesi dell’eurozona nessun Paese del Gruppo di Visegrad o della rinnovata Lega Anseatica scandinava ha speso una parola a favore del governo italiano populista e sovranista che contesta alla radice le regole europee. Molti trascurano che la posizione assolutamente isolata dell’Italia nella UE possa discendere non dalla scarsa propensione dei sovranisti ad allearsi tra di loro – peraltro smentita dal fatto che già ci sono due Gruppi organizzati) – ma dalla totale incapacità diplomatica di questo governo populista e sovranista a trovare alleati in Europa neanche tra gli altri consimili governi.
A chi sostiene la tesi ottimista dell’ossimoro vorrei contrapporre due fatti storici. 1) le interdipendenze economiche su cui si basa l’approccio internazionalista e il multilateralismo lavorano anche a favore dei sovranisti, dei regimi illiberali e delle dittature vere e proprie. Scrivo di regimi illiberali per non parlare di democrazie illiberali – termine che secondo alcuni costituirebbe anch’esso un ossimoro. Il populismo sovranista degli anni ’20 e 30 in Italia e degli anni ’30 in Germania non ha impedito che Italia, Germania e Giappone si alleassero nel Patto d’acciaio o Asse. 2) Si stima che circa due terzi degli Stati membri delle Nazioni Unite siano regimi illiberali e in parte non trascurabile vere e proprie dittature. Questi impediscono alla massima organizzazione mondiale di lavorare per prevenire le guerre, di svolgere in maniera efficace il mantenimento della pace e, meno che mai, di promuovere la democrazia e il rispetto dei diritti umani.
PQM non vorrei che l’ondata di ottimismo – secondo me alimentata ad arte – ci portasse a sottovalutare i rischi seri e gravi che corre l’Unione europea a causa della rinascita dei movimenti populisti e sovranisti che insieme al neoliberismo minacciano la salute della democrazia liberale.
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Salvini e i giudici non eletti

Nei telegiornali di ieri sera grandi sparate demagogiche di Salvini contro i giudici non eletti per via della conferma della sentenza che prevede il sequestro dei conti correnti della Lega per l’appropriazione indebita di fondi pubblici (c.d. rimborsi elettorali) a suo tempo perpetrata da Umberto Bossi e dal suo tesoriere Francesco Belsito.

Salvini reagisce dicendo che i giudici non sono eletti da nessuno come, a suo tempo, faceva Berlusconi nella c.d. II Repubblica e come se l’elezione ad una carica pubblica dovesse autorizzare a commettere reati più o meno gravi. Il Vice-presidente del Consiglio ha dato un’altra prova della sua incompetenza e mancanza di cultura costituzionale. Non capisce o fa finta di non capire la logica della separazione dei poteri su cui si fonda lo Stato di diritto. Giudici e funzionari dello stato sono scelti per concorso pubblico per garantire competenza e imparzialità. Vedi art. 97 e 106 Cost.. Peraltro quest’ultimo prevede l’elezione dei giudici solo come eccezione ma forse Salvini non lo sa.

Ora se anche tutti i giudici fossero eletti sarebbe più alto il rischio di scegliere persone incompetenti e faziose perché anche per i giudici tenderebbero a prevalere le regole del c.d. mercato politico specialmente in un contesto sociale deteriorato dove non esistono i partiti strutturati di una volta che avevano tra i loro obiettivi principali quello di scegliere le persone più preparate per svolgere le funzioni pubbliche nelle assemblee rappresentative. Molti non si rendono conto che giudici e funzionari pubblici stanno sullo stesso livello funzionale: i primi applicano la legge per eccezione in seguito a ricorso; i funzionari pubblici l’applicano giorno per giorno e se incompetenti rischiano di compromettere i diritti e gli interessi legittimi dei cittadini.

Oggi in politica prevalgono i partiti personali o espressione di gruppi oligarchici che non garantiscono in alcun modo i cittadini elettori e il loro diritto ad avere un governo di competenti – come teorizzato da alcuni filosofi della politica. Prevale quindi la categoria dell’amico/nemico per cui i c.d. leader preferiscono scegliere i candidati al parlamento sulla base della fedeltà che non della competenza. L’utilizzo disinvolto e oltre misura dello spoils system in Italia ha peggiorato considerevolmente la situazione della pubblica amministrazione a tutti i livelli centrali e periferici, nel Parlamento nazionale, nei Consigli regionali, comunali, ecc..

Essere eletto in Parlamento richiederebbe grande esperienza in materia gestione e controllo delle politiche pubbliche correnti, alto senso di responsabilità, rispetto della Costituzione, conoscenza della giurisprudenza costituzionale in materia di conflitti di attribuzione, etica pubblica condivisa, ecc.. Qualità che sarebbero vieppiù necessarie a chi oltre ad essere eletto si trova a svolgere la funzione di Ministro degli Interni e Vice-presidente del Consiglio dei ministri.
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Perché il Presidente della Repubblica ha revocato l’incarico al prof. Conte?

Il Presidente della Repubblica ha agito così perché doveva salvaguardare le sue prerogative (il ruolo di garanzia) e i risparmi degli italiani. Il secondo obiettivo è stato confermato dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ieri 29 maggio nelle sue Considerazioni finali alla relazione della Banca d’Italia. C’è del vero e del falso nell’affermazione del Presidente della Repubblica. C’è del vero perché una eventuale improbabile uscita dall’Italia provocherebbe danni a tutti non solo alle famiglie più ricche che magari investono solo in attività finanziarie che alimentano la classe dei possessori di rendite (rentiers) ma anche agli italiani che non riescono a risparmiare alcunché vuoi perché sono disoccupati, inattivi o perché guadagnano redditi talmente bassi che non consentono loro di risparmiare o di curarsi. Per questi ultimi la crisi ridurrebbe le risorse che potrebbero essere spese per creare nuovi posti di lavoro.
L’argomento è che la fuga di capitali nazionali e le vendite di titoli pubblici da parte di investitori esteri provocherebbe – come sta provocando in questi giorni – un aumento dello spread e/o differenziale dei rendimenti sui BTP rispetto al bund tedesco in prospettiva con forte aumento del costo del servizio del debito pubblico. La scelta del Presidente Mattarella sarebbe stata motivata da scritti del prof. Savona circa una eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica. In tale ipotesi, l’Italia resterebbe senza lo scudo europeo del meccanismo salva Stati. Il paese rischierebbe di rimettere in moto la spirale inflazionistica con aumenti dei prezzi, tentativi di recuperi salariali e svalutazioni competitive che caratterizzarono la situazione italiana degli anni settanta dopo il crollo (1971) del sistema di cambi fissi definito a Bretton Woods (New Hampshire) nel 1944. L’abbandono di detto sistema per iniziativa USA ci portò ad un aspro conflitto distributivo non solo interno ma anche internazionale vedi i due shock petroliferi del 1973 e 1979 e l’aumento dei prezzi di altre importanti materie prime. Lo ripeto fuori dall’euro, la nuova lira potrebbe contare solo sull’assistenza del FMI e sappiamo come questa organizzazione si comportò nel 1963-64 e nel 1974. Nella seconda crisi avevano usufruito di tutte le forme di assistenza del FMI e della Commissione europea e fummo costretti a chiedere un prestito di due miliardi di dollari alla Germania che a garanzia chiese l’equivalente in oro. In un contesto – ora come allora- in cui la stessa classe dirigente italiana e i grandi risparmiatori italiani non hanno fiducia nel futuro del Paese. In un contesto ancora diverso rispetto a quello degli anni ’70 perché oggi c’è l’intreccio diabolico (diabolic loop) tra un sistema bancario debole, burocratizzato con 350-400 miliardi di titoli del debito pubblico nei loro portafogli e con centinaia di miliardi di sofferenze. Con riguardo a questo aspetto Il governatore della Banca d’Italia Visco ci ha ricordato che le banche italiane hanno ridotto i titoli dello stato e le sofferenze ma la media di queste ultime è tuttora doppia rispetto a quella degli altri paesi europei. Anche le perdite dei titoli bancari in questi giorni di forte tensione in borsa sono doppie rispetto a quelle dell’indice generale. E sappiamo che i famigerati mercati sono animati anche da speculatori che stanno in agguato e aggrediscono con speculazioni al ribasso o al rialzo quelli che con elementi di debolezza nei loro sistemi economici finanziari si affacciano nei mercati. Giustamente nei giorni scorsi il Presidente di Confindustria ha sottolineato che una economia forte ha bisogno di una politica forte e viceversa. L’Italia ha un debito pubblico molto alto (il terzo a livello mondiale) ed un terzo di esso è nelle mani di investitori esteri. Si possono biasimare quanto si vuole gli speculatori (i raider) ma è chiaro che nel momento in cui gli investitori esteri cominciano a dubitare della credibilità del governo di un paese e della sua capacità di onorare il debito cominciano a vendere i titoli che avevano acquistato precedentemente e mettono in moto un meccanismo perverso secondo cui, prima o poi, il governo avrà difficoltà a piazzare nuovi titoli nel mercato secondario o sarà costretto a pagare interessi alti ed insostenibili. E il solo rinnovo dei titoli esistenti comporta operazioni di rinnovo per circa 400 miliardi euro all’anno.
La sola vendita affrettata dei titoli da parte degli investitori esteri comporta una svalutazione del valore nominale degli stessi e ridurrebbe anche il valore delle attività finanziarie delle banche e la necessità di ricapitalizzarle in condizioni molto difficili, in casi gravi, con interventi diretti da parte dell’operatore pubblico.
Non c’è dubbio che rispetto alla crisi italiana degli anni 2011-12 e a quella greca degli anni successivi, l’Eurozona oggi sia più dotata di regole e strumenti di assistenza per fronteggiare la crisi come il Fondo salva Stati e il meccanismo di risoluzione ma è chiaro che ciò richiede la cooperazione più fattiva tra le autorità comunitarie e quelle dei paesi interessati dalla crisi. È chiaro che se questi progettano più o meno surrettiziamente l’uscita dal sistema della moneta unica e se il paese che lo pensa è la terza economia dell’Unione verrebbe meno la necessaria fiducia per una cooperazione costruttiva a difesa degli interessi comuni. È vero che l’economia italiana è troppo grande e fortemente interdipendente con quella tedesca, francese ecc. e che gli altri partner non hanno alcun serio motivo per spingerla al fallimento o ad uscire dalla moneta unica ma se lo chiedesse sul serio lo stesso governo italiano, prima o poi, gli altri paesi sarebbero costretti a prenderne atto come è avvenuto con l’Inghilterra che non esce dall’eurozona perché non ne faceva parte ma dall’Unione e dal mercato unico e ora cerca disperatamente accordi c.d. di libero scambio.
Per concludere questa breve analisi, è vero che nel Contratto di governo stipulato da Di Maio e Salvini non c’è scritto in nessun modo che la maggioranza di governo avrebbe chiesto l’uscita dal sistema della moneta unica ma ha scritto – secondo me erroneamente – che vuole ridiscutere i Trattati dell’Unione (p. 17) e che vogliono “salvaguardare la sovranità alimentare” (p. 9) – non quella monetaria. Che poi improvvidamente abbiano insistito per fare nominare Paolo Savona ministro dell’economia e delle finanze, secondo me, si è trattato di decisione inopportuna e frutto di inesperienza o di un disegno non proprio oscuro di Salvini. Se questo è vero, è chiaro che ha sbagliato anche il Presidente della Repubblica facendo il processo ad intenzioni non manifeste e, comunque, non scritte nel contratto.
Per quanto mi riguarda la riforma dei Trattati è strettamente necessaria per superare il deficit democratico della governance politica ed economica dell’Unione ma Di Maio e Salvini forse non sanno che, in questa congiuntura politica, non è questione all’ordine del giorno. Non la chiedono i grandi partiti europei e, paradossalmente, neanche il Parlamento europeo che avrebbe tutto da guadagnare. Per la verità il PE ha analizzato parzialmente la problematica in tre Rapporti ma poi li chiusi nei cassetti. Vedremo nelle prossime elezione europee se la questione verrà dibattuta come merita. Tutti i documenti degli organi esecutivi mirati a rafforzare la governance economica, a completare l’Unione bancaria e dei mercati dei capitali, a rafforzare gli strumenti di stabilizzazione non solo finanziaria ma anche macro-economica, a riformare il Patto di stabilità e crescita 2011 partono dalla premessa – da me non condivisa – che i Trattati non si modificano anche perché se si condizionasse il perseguimento di detti obiettivi alla riforma dei Trattati tutto si sposterebbe in avanti almeno di cinque anni. E tutti sanno che ci sono problemi che vanno risolti prima possibile.

Viene prima il programma di governo o il Presidente del Consiglio dei ministri?

Anche i sapientoni che intervengono in tutti i talk show sostengono che prima del governo bisogna conoscere il nome del Presidente del Consiglio (d’ora in poi: Pdcdm). A prima vista, l’affermazione sembra ragionevole ma bisogna essere consapevoli che essa è coerente con il modello autoritario in Italia fortemente voluto da Berlusconi e dal Partito democratico di Veltroni e Renzi: un leader, un programma e una maggioranza parlamentare bloccata. In Italia tale schema può funzionare con un sistema elettorale maggioritario coatto o forzato che assicura la vittoria ad un partito o ad una coalizione. Non funziona con il proporzionale che i partiti governativi e quelli di centro-destra hanno voluto e studiato per impedire una eventuale vittoria del M5S. Ma quando dai risultati elettorali non viene fuori un partito nettamente vincitore né una coalizione con un programma preventivamente concordato, bisogna formare una coalizione e questa si forma più stabilmente attorno ad un programma di governo condiviso e negoziato.
Che cosa significa questo? Semplicemente che il Pdcdm non decide da solo ma promuove e coordina l’attività dei ministri per l’attuazione del programma. Non è il primo decisore né quello di ultima istanza perché gli obiettivi sono già fissati nel programma. Se questo è vero, non è detto che i capi di partito che hanno avuto i maggiori consensi debbano diventare Presidente del Consiglio. Questo potrebbe o dovrebbe essere un facilitatore o una personalità con la maggiore attitudine a coordinare l’attività dei ministri appartenenti o scelti dai diversi partiti che formano la coalizione e accettati anche dal Presidente della Repubblica. Se – come affermano politologi di fama – siamo nella fase storica della mancanza di fiducia non solo da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni ma anche tra i politici stessi, è essenziale che il programma sia condiviso e sottoscritto in un documento e/o contratto. Ma resta sempre il dilemma tra organo monocratico e quello collegiale – questione discussa già nell’Assemblea costituente che alla fine ha approvato l’art. 95 che disciplina la posizione sia del Presidente del Consiglio che quella dei ministri. Dice il comma 1 di detto articolo che “il Pdcdm dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Se è accolto il paragone, mi sembra che qui dirigere significa svolgere una funzione analoga a quella del direttore d’orchestra il quale anche lui, di norma, segue lo stesso spartito, salvo sfumature diverse.
Il comma 2 dell’art. 95 esplicita che: “i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Comma non immune di qualche ambiguità ma che prevede gradi diversi di responsabilità, secondo me, privilegiando opportunamente quella del Consiglio.
40 anni dopo arriva la legge n.400/1988 che precisa e dettaglia le competenze della Presidenza, del Consiglio e dei singoli ministri ma che, in buona sostanza, conferma le linee guida dell’art. 95 Cost: in nessun caso dice: decide. Quello che specifica è che il Pdcdm: “indirizza ai ministri le direttive politiche e amministrative “ma queste in un governo di coalizione non possono essere diverse da quelle che discendono dal programma concordato. Ovviamente ci saranno margini di discrezionalità più o meno ristretti a seconda che l’accordo di governo sia articolato in modo più o meno preciso. PQM l’idea che il Pdcdm decide di sua iniziativa, motu proprio, è fuori dalle previsioni dell’art. 95 Cost e della legge n. 400/1988.
Vale la pena di ribadire che in una Repubblica parlamentare come la nostra, in un contesto realmente democratico e di governo di coalizione, il coordinamento si attua meglio attorno ad un programma concordato – come fanno da decenni i tedeschi. Se invece l’accordo fosse imposto surrettiziamente dal leader “unto dal Signore” saremmo sulla via di un sistema presidenziale e comunque autoritario. Non casualmente il sistema maggioritario che ha caratterizzato la c.d. II Repubblica da alcuni analisti è stato definito maggioritario coatto e imposto su una società pluralista con preferenze molto differenziate che inevitabilmente richiedono un costante e paziente lavoro di mediazione per poterle aggregare.

Note sulla proposta preliminare di contratto di governo del M5S ai partiti.

Oggetto delle note seguenti è il primo rapporto della Commissione di esperti indipendenti nominata da Di Maio per verificare convergenze e divergenze tra i programmi dei partiti come “aggiustati” dopo i risultati elettorali.

Si tratta di una procedura in parte analoga e in parte diversa da quella adottata nell’Aprile 2013 dal Presidente Napolitano quando nominò non uno ma due gruppi di lavoro dopo che era fallito il suo tentativo di mettere d’accordo i partiti. Il precedente del 2013 è diverso perché i due gruppi di lavoro: uno per le riforme istituzionali e l’altro per le questioni economiche furono nominati direttamente dal Presidente della Repubblica.

Nelle intenzioni dichiarate da Di Majo un eventuale accordo sul programma dovrebbe portare non ad una alleanza politica ma ad un Contratto di governo alla tedesca, alias, ad un impegno solenne sul programma da portare avanti da parte del governo. Secondo me, il metodo proposto dal leader del M5S è da apprezzare se esclude sul serio l’ipotesi “prendere o lasciare” ed è comunque pienamente compatibile con le norme e le prassi parlamentari di formazione del governo dopo le elezioni.

Quanto ai programmi dei partiti bisogna tener conto che essi non sono leggi dello Stato né tantomeno norme programmatiche di natura costituzionale anche se si pone comunque un problema di compatibilità tra le azioni governative e i principi generali consacrati nella Costituzione. Sono proposte agli elettori negli ultimi tempi elaborate da ristretti gruppi di partito, non di rado, senza passare neanche per una conferenza programmatica come si usava fare quando i partiti avevano strutture collegiali più solide e più partecipate.

Una prima osservazione su detti programmi riguarda le divergenze che riguardano non solo la formulazione degli obiettivi ma soprattutto l’indicazione degli strumenti scelti per perseguire gli obiettivi.

Al di là delle parole e delle enfasi nei comizi elettorali a me sembra di notare che c‘è una forte convergenza sugli obiettivi che dà ragione al teorema dell’elettore mediano secondo cui i programmi convergono al centro. In diversi casi dove si riscontrano quantificazioni dei benefici la differenza sta appunto nella quantificazione degli stessi.

Nel primo rapporto degli esperti, è buona la premessa sulla necessità di continuare a lavorare all’interno delle istituzioni europee ma come obiettivo non basta fermarsi a quello della riforma del Regolamento di Dublino sull’emigrazione perché, per molti aspetti, tutte le politiche economiche, finanziarie e legislative sono influenzate dai vincoli europei.

Ciò detto passiamo ad analizzare le priorità dell’Italia come rilevate dalla Commissione nominata da Di Maio.

Sulle prime tre priorità: un futuro per i giovani e le famiglie, lotta alla povertà e alla disoccupazione; riduzione degli squilibri territoriali non è detto chiaramente che il primo e fondamentale obiettivo-strumento deve essere quello della piena e/o massima occupazione di tutta la forza lavoro -giovani e meno giovani- e la piena utilizzazione di tutti gli impianti produttivi di cui dispone il Paese. Solo così si rendono maggiormente fattibili la lotta alla povertà e il sostegno degli occupati con redditi insufficienti.

Deve essere chiaro inoltre che al di là dei pii desideri circa un’Europa sicura e solidale è fondamentale capire che gli obiettivi della massima occupazione e del contrasto alla povertà assoluta e relativa difficilmente potranno essere perseguiti senza una riforma dell’eurozona, del vigente Patto di Stabilità e Crescita (riformato nel 2011) e soprattutto senza un ampio programma di investimenti pubblici e privati. Non bastano gli incentivi di industria 4.0.

In questi termini allo stato mi appare debole la parte economica delle priorità ma il giudizio va sospeso atteso che più avanti per scrivere il vero programma di governo si prevedono dieci gruppi di lavoro.

Ancora generica e vaga è la quarta priorità rubricata come sicurezza e giustizia per tutti.  Detta così potrebbe intendersi giustizia per tutti i criminali e per tutte le persone oneste. Inopinatamente qui non si parla di giustizia sociale che viene appena evocata nel paragrafo dedicato alla nona priorità.

Di nuovo apprezzabile la quinta priorità: difendere e rafforzare il sistema sanitario nazionale.

Sesta priorità: proteggere le imprese e incoraggiare l’innovazione. Discorso incerto e confuso mi sembra anche quello sulla politica industriale soprattutto per le piccole e medie imprese. Si pensa di riesumare la legge 180 del 2011 pomposamente rubricata come Statuto delle imprese e che è rimasta sostanzialmente inapplicata anche se si è nominato un garante presso il ministero dello sviluppo economico, anche se nel frattempo si è svuotato lo Statuto dei lavoratori. Come previsto dall’art. 18 della legge citata il governo ogni anno dovrebbe presentare una legge che semplifichi gli adempimenti delle PMI, riducendone i costi. La finalità ultima mi sembra di capire è quella di sostenere il processo di internalizzazione di molte PMI che sono grandissima parte del nostro sistema produttivo ma poi sfugge ai tre partiti di mano il discorso affermando letteralmente che “si tratta in concreto di promuovere la digitalizzazione e di abolire le imposte sui negozi sfitti e sui fabbricati destinati alla produzione di beni e servizi di commercianti, artigiani e PMI”.  Viene da chiedersi: se questi negozi sfitti non sono di proprietà diretta degli artigiani, commercianti e piccoli imprenditori non si favorisce in questo modo la rendita fondiaria piuttosto che l’attività di impresa?

Inoltre, poco a che fare con le PMI ha il proposto piano di formazione istruzione universitaria con la nascita di nuove figure professionali richieste dalla quarta rivoluzione industriale. Non servono tutti dottori e ingegneri. Semmai servono veri esperti diplomati da istituti tecnici superiori e, a livello universitario, la diffusione di nuovi politecnici al posto di laureati in scienze della comunicazione. Negli ultimi anni, infatti, si registra un calo degli iscritti negli istituti tecnici e professionali soprattutto perché anche i loro diplomati non trovano lavoro per via della stagnazione secolare e della pesante depressione che ha conosciuto l’economia italiana nell’ultimo decennio.

Vaghe ed incerte le osservazioni sul sistema bancario: si parla di trattamenti fiscali  differenziati per le banche commerciali da un lato e quelle d’affari dall’altro quando qui si tratterebbe di mettere in discussione la riforma degli anni 90 – sostenuta dall’affermazione che le banche erano imprese come le altre e che dovevano fare profitti dimenticando la natura pubblicistica delle funzione svolta dalle stesse secondo le previsioni dell’art. 47 Cost. ; non si dice niente sulla netta contrarietà o resistenza dell’Associazione Bancaria Italiana al bail in e alle altre proposte della vigilanza comunitaria sulla riduzione delle sofferenze del nostro sistema bancario, dell’intreccio vizioso delle banche che detengono centinaia di miliardi di titoli del debito pubblico del loro paese per cui una crisi del debito sovrano provocherebbe veri e propri disastri per le banche e, a sua volta, una crisi di queste ultime metterebbe a rischio la sostenibilità del debito sovrano del governo che ha emesso i titoli.

Frasi altosonanti ma di dubbio significato sulla settima priorità ossia sul rapporto tra fisco e contribuenti sempre da rinnovare ricalibrando la pressione tributaria; trasformando radicalmente l’Agenzia delle Entrate; prevedendo l’immancabile semplificazione del sistema tributario; la digitalizzazione delle procedure con un parco di contribuenti con alto deficit digitale; prevedendo un giudice tributario autonomo e indipendente come qualsiasi altro ordine giudiziario. Non ultimo, scrivendo frasi sconclusionate sull’inversione dell’onere della prova come se non ci fosse una grave asimmetria informativa tra quello che fa e produce il contribuente e quello che sanno gli Uffici finanziari sulle attività di ogni singolo contribuente. Non ultimo, la frase secondo cui il ricorso ordinario al giudice continua ad assumere che ci sia in piedi un enorme contenzioso ed ignora che esistono già molte vie alternative al ricorso: ravvedimenti operosi incentivati; adesioni alle proposte degli uffici, conciliazioni giudiziali, rottamazioni, volontary disclosures e altri condoni.

Apprezzabile il discorso fatto circa la ottava priorità: ricostruire il Paese investendo nelle infrastrutture.

Ancora apprezzabile sono i discorsi sullo sviluppo sostenibile, l’economia circolare anche se non è chiaramente menzionato il rischio sismico e il problema della messa in sicurezza degli edifici pubblici nonché delle abitazioni e delle fabbriche, di cui alla nona priorità: proteggere dai rischi e salvaguardare l’ambiente.

La decima priorità riguarda lo storico problema dell’efficienza della pubblica amministrazione, della riduzione degli sprechi, della qualità della sua dirigenza – peggiorata dopo l’utilizzo disinvolto dello spoils system – della spending review che non può essere seriamente fatta senza una rigorosa e sistematica valutazione di tutte le politiche pubbliche. Un silenzio assordante sulla questione del federalismo benché la questione sia di fondamentale rilevanza. Infatti, secondo me, non si può fare una riforma seria della PA se non si decide se vogliamo portare avanti il processo di decentralizzazione oppure ritornare ad un sistema centralizzato peraltro incompatibile con l’impostazione dei Trattati europei che hanno inevitabilmente previsto una Europa delle regioni e poi una Europa delle macro-regioni.

Non si dice niente sulle c.d. riforme strutturali che riguardano l’ampio settore sei servizi privati come ci viene continuamente raccomandato dalle autorità europee.

Nella parte IV del documento 3 gli esperti chiariscono che per arrivare ad un documento di programma occorre un lavoro più approfondito di dieci diversi gruppi di lavoro ed un accordo di leale cooperazione ed uno stretto coordinamento in sede europea. Affermano che servono verifiche sull’attuazione del programma ottimisticamente collocate a metà legislatura e, in caso di dissenso su questioni fondamentali, si prevede addirittura un Comitato di conciliazione nominato dalle parti e, quindi, inopinatamente, fuori dalle aule parlamentari.

Resta fondamentale capire che senza leale cooperazione non si producono beni pubblici e non si fanno gli interessi della collettività e che al di là del merito comparato dei diversi programmi occorre operare degli opportuni bilanciamenti.

Non ultimo, a scanso di equivoci, ritengo opportuno precisare che le critiche e osservazioni da me prospettate non riguardano il lavoro svolto dalle persone che sotto la guida del Prof. G. Della Cananea hanno fatto questa prima analisi delle convergenze e divergenze nei programmi dei M5S, del PD e della Lega ma direttamente i detti programmi.