Possibile rinascimento di Roma

Francesco Delzio, Liberare Roma. Come ricostruire il “Sogno” della Città Eterna, Rubbettino, 2021.

Dal 2008 al 2016 il PIL di Roma ha avuto una contrazione del 15% rispetto al 9% a livello nazionale. Secondo l’Istat che considera un periodo più lungo (15 anni) il PIL della Capitale si è ridotto del 7,4 rispetto all’anno iniziale 2002. Il calo, in prima approssimazione, è dovuto alla flessione della produzione industriale e alla bassa produttività di un settore terziario tradizionale. Delzio parla di 12 anni di coma. A me sembra chiaro che il declino di Roma si inserisce in quello dell’Italia ed in particolare del suo Meridione.

Quello che impressiona di più è il divario tra il tenore di vita delle periferie e quello dei residenti del Centro storico, i Parioli e il Salario. Il c.d. social divide è uguale alle differenze nell’indice di sviluppo umano elaborato da una Commissione ONU per misurare il divario tra i Paesi ricchi e quelli di in via di sviluppo.

Nella graduatoria elaborata dalla Cresme, su 273 grandi agglomerati urbani europei Roma si classifica al 168mo posto. Al riguardo Delzio ci ricorda che le città globali tendono ad essere isole di crescita accelerata e che l’80% del PIL mondiale si produce nelle aree urbane.

Roma viene definita città vecchia, stanca, non innovativa. Mancano sedi di partecipazione. Eppure ci sono 15 Municipi, la rinata Provincia, la Città metropolitana. Sembra totalmente fallito il processo di decentramento. L’amministrazione capitolina aspetta una digitalizzazione funzionante. La Capitale, con le sue principali aziende municipali conta 50 mila dipendenti di cui ben 7 mila assistono familiari disabili ex legge n. 104/1992 che prevede tre giorni di permesso retribuito al mese. Delzio precisa che la percentuale di Roma “non é lontanamente confrontabile con quella che si registra in altre grandi città italiane” (p.27).

A Roma esiste una “emergenza giovani” un tema – afferma Delzio – che nessuno sembra voler denunciare, figuriamoci affrontare” (p.37). Nella fascia giovanile 15-24 anni la disoccupazione si colloca al 35%. I NEET sono molto numerosi: circa 130 mila nella classe tra 18 e 35 anni che non studiano, non lavorano non fanno formazione. Nell’ultimo decennio il loro numero è aumentato del 57% che si confronta con un incremento a livello nazionale del 20,3%.

Roma registra bassa occupazione di giovani laureati. Il cliché di Roma arretrata – secondo Delzio – è in parte smentito dalla presenza di molte start up che la colloca al 2° posto dopo Milano ma ho letto altrove che la mediana di dette imprese evidenzia un solo componente. La spesa pro-capite per investimenti si ragguaglia a 167 euro che si confronta con i 1.500 di Firenze e ii 1.600 euro di Milano.

L’AMA presenta un deficit di gestione molto alto perché non riesce a riscuotere molte delle sue bollette però aumenta le tariffe della Tari del 4% scaricandole su chi paga alla stessa stregua di quanto fanno le imprese del mercato libero dell’energia con gli oneri di sistema che sono le imposte ambientali non pagate per le forniture di gas ed energia elettrica.

Il vantaggio comparato di Roma resta il turismo con la voglia di visitare la Città eterna che interessa ogni anno decine di milioni di persone ma il turismo, da solo, non basta. Vedi Attilio Celant e Giorgio Alleva i quali sostengono che, per un motivo o per un altro, l’attentato alle due Torri (2001) la crisi finanziaria ed economica (2008-09) da venti anni il turismo mondiale è in crisi. Da ultimo è intervenuta la Pandemia. Se questa non ha assestato un colpo finale, è chiaro che i prossimi anni post Covid-19 non si prospettano del tutto favorevoli.     

Nel capitoletto della II parte La chance globale: la Capitale delle Bellezza” Delzio   sintetizza: “Roma non si definisce, non si programma, non si proietta. Non costruisce futuro ma si fa raccontare solo per il suo glorioso passato” – remoto aggiungo io. Roma è l’emblema della rendita immobiliare e di posizione. A p. 43 scrive di “simpatico parassitismo dei romani”.

Riprendo dalla quarta di copertina, Roma è prigioniera: a) della cattiva politica e della pessima amministrazione; b) dello stesso ruolo di Capitale senza lo status e i finanziamenti delle altre capitali europee; c) dell’inerzia della sua classe dirigente politica, sociale e culturale; d) di un sistema di rendite unico a livello globale che stordisce e rassicura i romani, ne raffredda gli animal spirits e blocca gli ascensori sociali. Tutto vero. Quale la proposta di Delzio manager di vertice in grandi aziende? La Carica dei 100 manager. È quello che ho sempre sostenuto anche se io mi riferivo e mi riferisco soprattutto al ceto politico. Serve una squadra che crei sinergie, una squadra capace di superare la resistenza di una burocrazia auto-referenziale che – come sostiene Delzio – si rifugia nel puro “gestionismo” e senso civico smarrito (p.19). Ma come si fa a creare squadre se non si modifica la legge per l’elezione diretta del sindaco che consegna tutti i poteri in mano del primo cittadino, se questi sceglie di sua iniziativa i componenti della giunta e se il Consiglio comunale non conta niente o quasi perché anche i suoi componenti sono nominati e se dovessero votare contro il Sindaco questi ha il potere di mandarli tutti a casa. Premetto che detta legge non è appropriata per la guida di grandi città. Può andare bene per comuni di piccola e media grandezza e ne abbiamo circa 7 mila. Ricordo il caso del Sindaco Marino costretto alle dimissioni dopo che il capo del Partito democratico romano Orfini aveva portato i consiglieri comunali PD da un notaio a firmare un atto che li impegnava, se necessario, a votare contro il sindaco in carica.  Delzio non si occupa della legge elettorale e confronta Roma per lo più con Milano. Ma i contesti sono del tutto diversi. Milano si confronta bene con altre città europee. Roma uscirebbe meglio dal confronto con alcune città del Medio Oriente e del Nord Africa.  Ben venga quindi la squadra dei 100 manager ma da sola non basta serve anche la modifica della legge elettorale che di certo ha assicurato stabilità ma non governabilità. Serve l’impegno e l’iniziativa politica della società civile, degli intellettuali, dei sindacati, della cittadinanza attiva, ecc.

Visto che ho citato Marino, non mi sembra inopportuno riprendere la sua osservazione secondo cui “tra gli aspiranti sindaco di Roma serve determinazione e l’umiltà di discutere con i cittadini i progetti che si vogliono portare avanti”. Di progetti per Roma l’ex sindaco ne individua cinque: trasporti locali, trattamento dei rifiuti, cultura, sicurezza e archeologia. L’indicazione di Marino è importante anche perché su Roma non mancano studi ed analisi interessanti di varia fonte.  Ma non ho visto né il Comune né la Regione organizzare un dibattito pubblico su di essi.  

Sui trasporti Marino denuncia lo squilibrio nella distribuzione del fondo nazionale trasporti che passa attraverso le Regioni. Nel 2014 la Regione Lazio ha destinato a Roma 140 milioni mentre la Regione Lombardia ha dato a Milano il doppio. Roma ha un territorio di 1.280 kmq., Milano 703. Certo nel Lazio la struttura del potere è cambiata. Non è più il Sindaco di Roma che comanda anche alla Regione ma giustamente l’opposto. Ma detta distribuzione dei fondi appare poco giustificata non solo in rapporto alla superficie. Chiunque conosce le due città  sa che i trasporti pubblici locali funzionano meglio a Milano.    

Nel momento in cui sembra prendere quota l’attività dei “partiti” e degli schieramenti politici per trovare un candidato la lettura del libro di Francesco Delzio è obbligata. Un libro pieno di dati interessanti e con osservazioni intelligenti che può aiutare il lettore a scegliere meglio tra i prossimi candidati a Sindaco di Roma.   

Alcune indicazioni bibliografiche:

Camilli A. Relazione del Presidente di Unindustria per il quadriennio 2020-2024, 30 settembre 2020;

Attilio Celant e Giorgio Allleva, “Turismo e sviluppo”, nel volume organizzato e promosso dal Master in Economia e Management del Turismo della Facoltà di economia, Sapienza Università di Roma: L’Italia. Il declino economico e la forza del turismo, Fattori di vulnerabilità e potenziale competitivo di un settore strategico, a cura di Attilio Celant e Maria Antonella Ferri, Marchesi, 2009;

Cresme, Roma 2040: per una nuova civitas, giugno 2019;

De Masi D., Roma 2030. Il destino della Capitale nel prossimo futuro, Einaudi, 2019;

 Federmanager, Università la Sapienza, Le prospettive di Roma Capitale alla luce delle tendenze in atto, gennaio 2020;

Lelo K., Monni S., Tomassi F., Le mappe della disuguaglianza, Donzelli, 2019;

Unindustria, The European House Ambrosetti, Roma futura 2030-2050: Masterplan, luglio 2018.

Il discorso programmatico del Presidente Draghi.

Il Primo pensiero di Draghi va all’unità nazionale per combattere, con ogni mezzo, la pandemia e salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Quindi esprime solidarietà a tutti quelli che soffrono o piangono qualche familiare a causa della pandemia.

Precisa che il Governo avvierà subito le riforme attese mentre affronta le emergenze non ci saranno i tradizionali due tempi: prima risolviamo i problemi più urgenti e poi le riforme.

Ringrazia il Presidente Mattarella per la fiducia che gli ha dimostrato affidandogli il compito di guidare il governo e il suo predecessore Conte che ha dovuto affrontare una situazione senza precedenti. Spiega perché il suo governo – secondo le indicazioni del Presidente della Repubblica – è diverso da quello precedente e non ha e non vuole avere alcuna coloritura politica particolare. Per via della emergenza sanitaria, sociale ed economica, questo è il governo del Paese. Questo è lo spirito repubblicano che lo caratterizza.

Draghi tiene a precisare che non è d’accordo con quanti sostengono che questo governo segue il fallimento della politica. Passaggio del discorso naturale, giustificato. Nel momento in cui il condominio brucia, nei momenti difficili del Paese, viene prima l’interesse comune dei cittadini tutti consapevoli della responsabilità a cui vengono chiamati. Non ti metti a discutere delle ragioni per cui era venuta meno la maggioranza di centro-sinistra e se non ce ne era un’altra pronta di centro-destra dopo che il Presidente della Repubblica aveva escluso la possibilità di andare alle elezioni anticipate – ammesso e non concesso che queste potessero dare luogo ad una maggioranza coesa in grado di continuare un dialogo costruttivo con le istituzioni europee. Il dovere della leale collaborazione, senza rinunciare alle proprie identità, è fondato sull’amore per il nostro Paese.  

Segue logicamente il passaggio sulla irreversibilità della moneta comune – una risposta dovuta a Matteo Salvini che, il giorno prima, aveva sostenuto l’opposto – dell’ancoraggio al processo di integrazione europea che deve portare ad un bilancio comune che, oltre all’indebitamento comune, abbia anche le necessarie risorse proprie. Afferma che gli Stati nazionali e/o i paesi membri dell’Unione restano riferimento importante per i cittadini ma ribadisce che il nostro Paese resta fermamente ancorato alla scelta atlantica, all’UE e all’ONU in coerenza con le scelte ormai storiche che risalgono alla fine della seconda guerra mondiale quando gli Stati Uniti non solo furono decisivi nella sconfitta delle potenze dell’Asse e, generosamente con il Piano Marshall, poi contribuirono al finanziamento della ricostruzione dell’economia europea e non solo.

Un discorso di respiro storico e di alto profilo morale. In questi ultimi termini, si è posto una domanda che, non di rado, mi pongo anche io nel mio piccolo. Si chiede se la nostra generazione ha fatto quello che i nostri genitori e nonni hanno fatto per noi – ovviamente al di là dei lutti e dei danni economici che sta producendo la pandemia. La mia personale risposta, per quello che vale, è: non abbiamo fatto abbastanza.

Draghi passa ad elencare gli obiettivi strategici da perseguire: “la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G”. Si tratta di obiettivi che implicano tempi di attuazione di medio e lungo termine.  Consapevole dei tempi diversi del suo governo, Draghi afferma che, anche per i governi brevi, conta la qualità delle decisioni che vengono assunte.

È strategica la seguente frase del suo discorso: “Selezioneremo progetti e iniziative coerenti con gli obiettivi strategici del Programma, prestando grande attenzione alla loro fattibilità nell’arco dei sei anni del programma. Assicureremo inoltre che l’impulso occupazionale del Programma sia sufficientemente elevato in ciascuno dei sei anni, compreso il 2021”.

Finalmente si comincia a parlare di progetti da selezionare e valutare da parte di tecnici in grado di determinare la bontà di essi utilizzando l’analisi costi-benefici degli investimenti, l’impatto economico e ambientale degli stessi.

Finalmente si parla di impulso occupazionale del PNRR dopo aver declinato i problemi del basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro dei giovani e in particolare delle donne specialmente nel Mezzogiorno (18 punti rispetto alla media europea di 10).   Come sa bene Draghi nel 2014 la Commissione ha calcolato il tasso di disoccupazione strutturale per i paesi membri. Per l’Italia, le stime dalla Commissione sono molto vicine al dato della disoccupazione rilevata, con un parametro strutturale al 10,9 nell’anno considerato a fronte di un dato pre-crisi del 7,8 nel 2006. Meno drammatiche, ma sempre molto preoccupanti, le stime OCSE, che per il 2014 vedono la disoccupazione strutturale pari al 9,9 in Italia.  Per i dati relativi ad altri paesi europei vedi il Rapporto CER 2014. Stime analoghe dell’Ufficio studi della BCE la collocavano attorno all’11%.  Gli ultimi dati provvisori dell’Istat danno la disoccupazione al 9% e quella giovanile al 29,7% – cifre che sembrano destinate ad aumentare. I dati correnti quindi coincidono più o meno con quelli strutturali. Ora pensare che l’impulso occupazionale del PNRR di 210 miliardi suddiviso in sei anni e, quindi, pari a 35 miliardi all’anno, possa affrontare seriamente il problema della disoccupazione strutturale, francamente, a me sembra illusorio e ingannevole. Credo che Draghi ne sia consapevole.  

PQM, meno ancora, condivido l’ottimismo e le illusioni che molti politici stanno creando attorno all’idea che con il PNRR si possa non solo affrontare l’emergenza ma addirittura si possa avviare la rinascita dell’economia italiana e, addirittura, di quella europea. Il confronto con gli Stati Uniti mi porta a dire che, pur apprezzando la svolta storica voluta dalla Cancelliera Merkel, le risorse prese a prestito sono del tutto inadeguate per un’economia delle dimensioni europee e con divari molto più accentuati tra regioni centrali e quelle periferiche. Sommando le spese già sostenute dall’amministrazione Trump (circa 3 mila miliardi di dollari) e ora quelle programmate dal Presidente Biden (oltre 2 mila miliardi) arriviamo a 5 mila miliardi di dollari pari a 4.116 miliardi di euro. I 750 miliardi dell’Unione sono pari a poco più del 18% di quanto, in maggior parte, già speso e ora programmato dal governo americano con una aggravante che i fondi europei arrivano con grande ritardo. Devo dire che per valutare attentamente l’adeguatezza delle risorse stanziate bisognerebbe avere fatto delle stime attendibili circa i fabbisogni e gli investimenti necessari per soddisfarli – non ultimo per cominciare a ridurre i divari territoriali. Questo richiederebbe una seria attività di programmazione economica non solo a livello italiano ma anche europeo. Purtroppo al momento non abbiamo disponibili dette stime nonostante che siano spesso evocate.

Correttamente il PNRR è solo una tappa a medio termine di una strategia a più lungo periodo se si vuole ragionare sul serio sulla conversione ecologica, lo sviluppo sostenibile, la digitalizzazione dell’economia e della società, uscire dalla stagnazione in cui si trascina l’Italia ormai da più di un quarto di secolo.  Al riguardo non mi convince del tutto Draghi quando afferma che “Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione. In base a tale visione strategica, il Programma nazionale di Ripresa e Resilienza indicherà obiettivi per il prossimo decennio e più a lungo termine, con una tappa intermedia per l’anno finale del Next Generation EU, il 2026. Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni.  Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l’Unione Europea intende arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti”. Probabilmente la prima proposizione è un amo lanciato ai neoliberisti nostrani che teorizzano comunque un ruolo ridotto dello Stato ma se i problemi sono quelli elencati sopra negli obiettivi strategici, e difficile pensare che, in un paese con 5 milioni di piccole e medie imprese e con i settori dei servizi privati e pubblici per lo più inefficienti,  il ruolo dello Stato possa essere ristretto alla regolamentazione e all’incentivazione delle attività private con esclusione degli interventi diretti.

 Benissimo ma se prendiamo il discorso della scuola, della formazione permanente e del basso attività delle donne emerge un problema che non solo nei discorsi dei politici di destra viene sottaciuto. Se vogliamo assicurare alle donne parità di accesso al mercato del lavoro e parità salariale supposto che le imprese e lo Stato imprenditore riescano a creare i necessari nuovi posti lavoro, occorre pensare alla scuola primaria e secondaria a tempo pieno e coordinare gli orari di lavoro con quelli delle scuole per cui i genitori prima accompagnano i figli a scuola e poi vanno a lavoro. Quando finiscono di lavorare tornano a riprendere i figli minori dalla scuola.  Come da tempo avviene nel Paesi membri del centro e nord Europa.

L’ultima mia osservazione è di apprezzamento per il coinvolgimento delle parti sociali e delle regioni già avviato nelle consultazioni preliminari. Nella replica al Senato Draghi ha detto chiaramente che “il loro coinvolgimento è non solo importante ma essenziale. Certe cose non si fanno se non sono decise insieme alle Regioni”. Tenuto conto che gran parte dei progetti sono di loro competenza e tutti ricadranno sui loro territori è chiaro che in generale la co-decisione è d’obbligo. Si tratterà di vedere se i progetti propri delle regioni e degli enti locali saranno preliminarmente valutati sul piano tecnico-economico a livello nazionale e come la prenderebbero le Regioni e gli EELL se alcuni dei loro progetti fossero bocciati.

              @enzorus2020

Draghi riuscirà a salvare l’Italia dal caos politico?

Secondo alcuni commentatori, i politici italiani che hanno fatto fallire l’incarico esplorativo del Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico che ha dovuto riportare al Presidente della Repubblica la constatazione dell’impossibilità di ricostituire una maggioranza allargata al governo giallo-rosa di Conte, hanno commesso il suicidio della politica italiana. A fronte del quale il Presidente Mattarella ha dovuto fare ricorso ad un incarico a Mario Draghi tecnico di alto profilo come indubbiamente dimostra anche il suo recente mandato di Presidente della Banca Centrale europea. Ieri ho fatto a caldo un commento su tale nomina su Facebook e l’amico Lino Rizzi ha commentato a sua volta il degrado della politica italiana dove gli elettori innanzitutto non mostrano una grande propensione alla partecipazione, non sanno scegliere bene i candidati né tanto meno i programmi che questi ultimi propongono. In sintesi gli elettori per lo più  non sanno per cosa e per chi votano. E’ un problema che riguarda anche altri Paesi non solo l’Italia. Chi volesse approfondire meglio questi problemi potrebbe trovare utili le mie recensioni del libro di Mounk post del 10 agosto 2018 e quella del libro di Brennan del 21 settembre 2018 sempre su questo blog.  

In Italia, non ci sono più i partiti di una volta che avevano il compito di elaborare i programmi e selezionare attentamente i rappresentanti che dovevano fare eleggere nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni, nel Parlamento. I partiti storici sono stati sostituiti con oligarchie centralistiche dominate da sedicenti leader per lo più senza alcuna visione del futuro. In nome della stabilità che non sempre è associata alla governabilità che è la capacità di affrontare e risolvere nell’interesse generale i problemi del Paese. In nome della stabilità si manipolano i sistemi elettorali in modo da assicurarla – Mounk parla di “dittatura elettorale”. L’esempio preclaro di questo approccio è stata la legge per l’elezione diretta dei sindaci del 1993 poi estesa ai Presidenti delle Province e delle Regioni.

Da allora, spesso e volentieri, da destra e da sinistra da politici e da esperti sono state avanzate proposte di estendere tale legge alla elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri con l’idea di introdurre in Italia forme di Presidenzialismo, semi-presidenzialismo alla francese e comunque strumenti di rafforzamento del ruolo del governo rispetto al Parlamento. Proprio ieri 2 febbraio, il Sole 24 Ore ha pubblicato i risultati di un sondaggio commentato da Roberto D’Alimonte noto esperto di sistemi elettorali. Quello per la elezione diretta del sindaco piace al 73% degli intervistati e il nostro esperto spiega il perché con una “risposta – a suo dire – semplicissima: in un tempo senza ideologie e con i partiti morti o moribondi gli elettori tendono a fidarsi solo dei leader. Li vogliono scegliere direttamente”.  Illusi gli italiani! ma dove li trovano questi leader affidabili? Magari ciò è probabile nei piccoli Comuni dove tutti si conoscono ma quando passi ai livelli di governo intermedi e superiori come fanno a capire le capacità amministrative e le qualità politiche dei rappresentanti e, soprattutto, quando i sistemi elettorali consentono alle oligarchie centralistiche di presentare liste bloccate di candidati sconosciuti alla maggior parte degli elettori? Ma più in generale non vedo dove gli elettori ingenui possano trovare leader affidabili nella quantità necessaria se a giudizio di analisti, politologi, economisti e giuristi la classe politica italiana è prevalentemente di scarsa qualità se non proprio di bassa lega.

Negli anni scorsi ho trovato il tempo per partecipare a tre manifestazioni al Campidoglio per protestare contro il degrado della Capitale. Al netto dei turisti presenti sulla piazza ci siamo ritrovati in 50-70 persone. Anche questa è la prova che i cittadini romani non hanno una grande voglia di partecipare. In forza di quella legge il Sindaco nomina come assessori amici o presunti esperti di suo gradimento e persone che non hanno avuto rapporti diretti o indiretti con gli elettori. E che dire dei Municipi (prima circoscrizioni) che non hanno alcuno strumento per incidere sulla gestione della città? Il Consiglio comunale non conta niente perché se non approva le decisioni del Sindaco può essere sciolto e trattandosi anche qui di nominati non hanno nessun interesse a farsi mandare a casa. Le riunioni del consiglio comunale di Roma non vengono trasmesse da nessuno né da Radio Radicale né da altre stazioni locali.  

Ed è il Comune la sede di partecipazione più vicina al cittadino. Figuriamoci al livello nazionale dove il Governo ha espropriato il Parlamento del potere legislativo e sulle leggi di bilancio, su altri importanti provvedimenti di politica economica ricorre al maxiemendamento e al voto di fiducia non consentendo ai parlamentari di approfondire il dibattito e, peggio ancora, in alcuni casi, costringendoli a votare senza avere avuto il tempo di conoscere e studiare particolari importanti delle leggi in esame. Non di rado emendamenti dell’opposizione e della stessa maggioranza vengono respinti per blocchi omogenei o presunti tali e perché ciò avviene? Perché c’è un eccesso di produzione legislativa perché non essendoci fiducia e leale collaborazione neanche tra i poteri dello Stato tutti vogliono leggi che disciplinino ogni caso previsto e prevedibile.

In Italia nella Carta costituzionale c’è il criticato bicameralismo perfetto. In fatto, viene praticato anche il monocameralismo imperfetto perché, in non pochi casi, a norma dei regolamenti parlamentari, una legge già approvata dalla Camera dei deputati non può essere modificata dal Senato e viceversa. Il governo Conte2 non senza fondamento è stato accusato di avere abusato lo strumento amministrativo del decreto del presidente del Consiglio dei ministri mettendo il Parlamento davanti al fatto compiuto. Vedi sul punto le circostanziate critiche del prof. Cassese in sedi diverse. Se questo è il modo di funzionare del nostro sistema politico, a tutti i livelli di base e di vertice, è chiaro che cala la voglia di partecipare e cresce nella gente comune il desiderio di affidarsi all’uomo della Provvidenza, ai leader populisti che le promette di risolvere tutto e in fretta.

Tornando a Draghi, abituato a discutere e decidere in ambienti riservati e/o a comunicare le decisioni in audizioni parlamentari a carattere meramente informativo, lo stato penoso del nostro Parlamento dove non di rado il dibattito è polarizzato, potrebbe aiutarlo ma, in democrazia, molti atti del governo sono leggi formali che, in un modo o nell’altro, devono essere approvati dal Parlamento e lì alcuni nodi potrebbero arrivare al pettine.     

La vignetta di Giannelli sul Corriere della sera di oggi rende l’idea: Draghi, seduto davanti a Mattarella che gli affida l’incarico, dice: si ricordi Presidente: sono Draghi, non Mandrake! E infatti ha accettato con riserva secondo prassi.