Nella linea di costruzione del consenso attorno alle riforme, governo e sindacati confederali maggiormente rappresentativi (CGIL, CISL e UIL) hanno firmato il 18 gennaio scorso un accordo quadro sulle linee di intervento per ammodernare la pubblica amministrazione (PA). Premetto che sono e resto favorevole alla concertazione ma se essa finisce con il confondere le responsabilità, i ruoli e rallentare fortemente il processo decisionale, allora è alto il rischio che essa si traduca in una cogestione impropria che riduce l’autonomia della dirigenza e paradossalmente ne aumenta la deresponsabilizzazione che è già molto elevata. Commento alcuni punti che, a mio giudizio, avallano queste preoccupazioni. Riorganizzazione. Lascia perplessi il punto dell’accordo secondo cui “le iniziative di riorganizzazione debbano essere attuate in relazione ai rinnovi contrattuali…”. Se uno pensa ai ritardi con cui essi avvengono vuoi per l’inerzia del governo vuoi per i comportamenti conflittuali di alcuni sindacati, non mi pare che si tratti di una scelta particolarmente brillante. È alto il rischio che la ricerca di assetti organizzativi più efficienti venga inclusa tra la materia del contendere. È naturale la propensione dei sindacati a volere contrattualizzare tutto mentre lo studio e l’analisi dell’organizzazione del lavoro dovrebbe essere continua, frutto della cooperazione ordinaria e sistematica laddove è possibile. Pertanto sorprende la logica dell’intervento straordinario come se ci fosse una macchina PA da ricostruire ab imis e, quindi, fosse necessaria una nuova macchina. In alcuni casi sarà pure così ma nell’insieme non mi sembra se penso alle riforme Bassanini, alle agenzie (comunque malfunzionanti) del ministero dell’economia e delle finanze, ecc.. In alcuni casi, serve una manutenzione ordinaria e continua, in altri una straordinaria. In ogni caso, non sembra saggio il collegamento con la tempistica dei contratti che, non di rado, subiscono ritardi e rinvii. Precariato. Il documento ne prevede nientemeno la scomparsa. Da un estremo all’altro. Dalla totale rigidità all’estrema flessibilità e di nuovo alla rigidità. Nell’economia dei servizi servono anche lavori molto flessibili per cui o si gioca con il significato delle parole oppure si esprimono pii desideri. In molti casi, precarietà e temporaneità si intrecciano. I contratti formazione dovevano servire a formare e meglio selezionare il personale da assumere a tempo indeterminato nel settore privato. Se le imprese lo utilizzano come strumento per ridurre il costo del lavoro, è una questione di abuso del diritto. Nel settore pubblico, peraltro, intervengono inevitabilmente rallentamenti e blocchi delle procedure concorsuali e delle prese di servizio. Non di rado, è inevitabile che si assuma personale e tempo determinato (precario) per coprire i vuoti di organico. Dire che dovrà scomparire del tutto suona utopistico. Misurazione della qualità. È positivo l’intento di coinvolgere gli utenti ma si dovranno superare difficoltà enormi, ostacoli pratici e resistenze culturali. Se uno pensa alla scarsa trasparenza sui dati sui controlli fiscali, sul dispiegamento sul territorio delle forze di polizia e a scendere al livello comunale come sono utilizzati giornalmente vigili urbani e gli operatori ecologici della capitale, ci si rende conto della difficoltà cui si va incontro. Le intenzioni sono buone ma si dice che di buone intenzioni sono lastricate le strade dell’inferno La questione dei fannulloni. Da 6-7 mesi a questa parte Pietro Ichino porta avanti un dibattito c.d. sui fannulloni che ha attirato l’attenzione di molti proprio per la crudezza dell’approccio che sembra colpevolizzare i singoli appartenenti alle pubbliche amministrazioni. È chiaro invece che se qualcuno riesce a sfangarla senza lavorare certo non è commendevole ma bisogna guardare attentamente non solo alle responsabilità del singolo ma anche a quelle di chi dovrebbe organizzare il suo lavoro, ai politici, ai dirigenti e non ultimi ai sindacalisti. “La ragione di tanti nullafacenti – afferma Michele Salvati sul Corriere della Sera del 29.01.2007 – sta infatti nella catena di comando del settore pubblico. Sta nell’incapacità o nella scarsa volontà dei politici e dei dirigenti pubblici di assicurarsi che gli uffici siano ben organizzati e rispondenti alle esigenze degli utenti e fare in modo che gli impiegati lavorino con la stessa solerzia dei loro colleghi nel settore privato. Sta anche nel ruolo che il sindacato ha finito per assumere nel settore pubblico, immischiandosi in problemi di gestione che in qualsiasi organizzazione ben funzionante dovrebbe essere prerogativa della dirigenza”. L’analisi di Salvati coglie i punti centrali della questione, individua correttamente i soggetti responsabili ma, a mio giudizio, abbisogna di alcune precisazioni per andare al cuore del problema e avere una bussola per capire se il recente accordo abbia centrato o meno i problemi da affrontare e risolvere. Comincio con i politici e/o legislatori formalmente titolari della sovranità popolare. In Italia prevale un clima di illegalità ed anche il legislatore ci mette del suo producendo un’alluvione di leggi che i più forti riescono a violare restando impuniti e che i deboli subiscono a volte innocenti. Da decenni prevale una prassi secondo cui “si governa amministrando e si amministra legiferando”. Ne emerge in generale un eccesso di legislazione che, non di rado, nega il diritto e la legalità. Per inciso noto che questa parola nel documento è menzionata una sola volta e che a distanza di qualche mese tutti si sono dimenticati dell’allarmante rapporto dell’Autorità anti-corruzione che denuncia le infiltrazioni di stampo mafioso all’interno delle pubbliche amministrazioni. Non è solo la legge finanziaria con un articolo unico da 1365 commi il problema. Non è vero che i nostri parlamentari non lavorano. Lavorano molto di più di quelli inglesi. Il Parlamento italiano produce ogni anno un numero di leggi pari a 5-6 quelle prodotte (15-20) dal parlamento inglese. Il parlamento italiano tuttavia in molti casi è costretto ad approvare leggi come quella finanziaria esaminate superficialmente nonostante le estenuanti riunioni fiume e quelle notturne. La conseguenza è che il Parlamento non ha più il tempo di controllare l’attuazione delle leggi che esso stesso sottoscrive. A sua volta il governo che ha espropriato quasi del tutto la funzione del parlamento è sovraccarico di lavoro legislativo ed esso stesso non riesce a controllare l’esecuzione delle leggi da parte delle amministrazioni da esso dipendenti. Svolge male il lavoro del Parlamento e poco o punto quello proprio. Se le leggi sono in realtà atti amministrativi, ne emerge una totale deresponsabilizzazione dei dirigenti pubblici i quali non decidono più niente e cercano continuamente di spostare in alto le responsabilità. Salta la separazione tra politica e amministrazione. Vengono meno le possibilità di valutare attentamente l’efficienza e l’efficacia dell’azione amministrativa che a un tempo politica. Se ogni singola importante decisione è prevista dalla legge, se questa è fatta anche male, se le cose non funzionano la colpa è di chi ha voluto e approvato la legge non di chi l’ha applicata male o per niente o ancora non ha fatto del suo meglio per applicarla bene. In queste condizioni, assume il valore di pio desiderio anche la concordata intenzione di sottoporre a riesame il problema delle esternalizzazioni per lo più operate senza alcuna dimostrazione dei costi e dei benefici. La colpa dei sindacato non è solo quella di immischiarsi nei problemi di gestione come dice Salvati. Se i sindacati devono occuparsi delle condizioni di lavoro dei dipendenti è inevitabile occuparsi anche di gestione e organizzazione del lavoro. La colpa più diretta del sindacato è quella di non avere mai accettato una riforma della struttura del salario che mettesse nel giusto equilibrio la parte fissa e quella variabile nella quale ultima si può adeguatamente tenere conto del merito e dello sforzo individuale. Naturalmente anche con salari incentivanti il problema non è risolto. La produttività dipende dalle qualifiche, dalla dotazione di risorse materiali e immateriali di cui il lavoratore potrà disporre e dall’organizzazione del lavoro. Anche una persona molto dotata e molto qualificata, inserita in una struttura complessivamente inefficiente e sgangherata, non potrà fare molto. Inevitabilmente renderà di meno. Dell’organizzazione del lavoro nella grande fabbrica fordista si occupava in primo luogo il sindacato interno. Oggi in un’economia terziarizzata lo spazio per l’intervento del sindacato è minimo o nullo sia nel settore privato che in quello pubblico. In via compensativa il sindacato fa sentire la sua voce esercitando “male” il suo potere in materia salariale. Nel settore pubblico ciò avviene in maniera più perversa perché il sindacato ha contribuito a determinare una situazione per cui ai dirigenti, ai capi-ufficio non è dato di influire in alcun modo sulla paga dei dipendenti. La quota incentivata del salario per le qualifiche medio basse è troppo bassa per costituire un vero incentivo allo sforzo individuale.