I temi toccati da Franco Gallo nel suo libro: Le ragioni del fisco. Etica e giustizia nella tassazione, il Mulino, 2007,  sono tanti. Io farò alcune considerazioni su alcuni di essi: la progressività, la capacità contributiva, i fondamenti etici, i limiti ai diritti di proprietà che evocano questioni fondamentali tra diritti individuali e democrazia in generale e di quella italiana in particolare.

1. – Noi economisti sappiamo che  con una distribuzione egualitaria del reddito (reale) basterebbe una imposta in somma fissa per finanziare le funzioni essenziali dello Stato, come erano viste secoli e secoli fa. Con una distribuzione non fortemente sperequata potrebbe essere ragionevole anche una imposta proporzionale corretta con trasferimenti veramente progressivi. Al limite, anche dei prelievi notevolmente regressivi potrebbero essere sostanzialmente corretti con trasferimenti fortemente progressivi. Imposte fisse e proporzionali non bastano a fornire i grossi gettiti che ora sono necessari nelle economie più sviluppate. Quindi, la progressività va cercata nell’attività complessiva di prelievo e spesa e c’è qualche economista che, forzando la lettera della norma, legge il comma 2 dell’art. 53 Cost. in questi termini. È un fatto storico che la teoria dell’imposta progressiva nasce a metà dell’800 quando  lo stato sociale doveva ancora nascere e quindi si trattava di finanziare fondamentalmente la spesa pubblica necessaria allo svolgimento delle funzioni fondamentali dello Stato.

Vista nella prospettiva storica, la progressività oggi va cercata nel sistema e nel principio di uguaglianza intesa come ragionevolezza e se riflettiamo bene a quello che ci dice uno dei massimi filosofi dell’economia del novecento, John Rawls, capiamo meglio che cosa significhi coniugare ragionevolezza e progressività.  Rawls non è egualitarista, ma molto vicino a tale linea. In termini pratici dice che non serve tagliare i redditi più alti. Però non è contro  la progressività. La cerca nei benefici della spesa pubblica, nei trasferimenti alle famiglie. Prescrive che tutte le manovre di politica economica e finanziaria (e, quindi, anche fiscale) devono innanzitutto beneficiare i meno favoriti dal mercato o dalla sorte.

In una prospettiva filosofica, bisogna riflettere sui fondamenti etici dell’imposta progressiva. Bisogna chiedersi che cos’è la ragione etica, come può una norma morale dimostrarsi “ragionevole”.

2. – Per rispondere a queste domande vorrei fare alcune considerazioni, prendendo lo spunto dal discorso di Papa Benedetto XVI preparato per partecipare all’inaugurazione dell’a.a. di Sapienza Università di Roma dove ha toccato proprio questi temi. Si è chiesto il Pontefice:

“Che cosa è la ragione? Come può un’affermazione – soprattutto una norma morale – dimostrarsi “ragionevole”? A questo punto –  ha scritto il Papa – «vorrei per il momento solo brevemente rilevare che John Rawls, pur negando a dottrine religiose comprensive (dubbia traduzione dall’inglese “comprehensive”) il carattere della ragione “pubblica”, vede tuttavia nella loro ragione “non pubblica” almeno una ragione che non potrebbe, nel nome di una razionalità secolaristicamente indurita, essere semplicemente disconosciuta a coloro che la sostengono» . Continua il Papa: «Egli (Rawls) vede un criterio di questa ragionevolezza, fra l’altro, nel fatto che simili dottrine derivano da una tradizione responsabile e motivata, in cui nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina”.

Ritorniamo alla domanda di partenza. Posto che il Papa parla come rappresentante di “una ragione etica” (p.3 del suo discorso), va detto anche che  Benedetto XVI è, comunque, un Papa dialogante, un filosofo. Ciò appare evidente quando egli passa  poi ad analizzare il ruolo dell’Università. È molto bella la ricostruzione sintetica che Egli fa della storia dell’Università nel Medioevo con le quattro Facoltà: Medicina, Giurisprudenza, Filosofia e Teologia. Particolarmente rilevante in questa sede il passaggio sulla facoltà di giurisprudenza che gli fa dire: “Si tratta del dare giusta forma alla libertà umana che è sempre libertà nella comunione reciproca: il diritto è il presupposto della libertà, non il suo antagonista. Ma qui emerge subito la domanda: come s’individuano i criteri di giustizia che rendono possibile una libertà vissuta insieme e servono all’essere buono dell’uomo?

A questo punto – continua il Papa – s’impone un salto nel presente: è la questione del come possa essere trovata una normativa giuridica che costituisca un ordinamento della libertà, della dignità umana e dei diritti dell’uomo. E’ la questione che ci occupa oggi nei processi democratici di formazione dell’opinione e che al contempo ci angustia come questione per il futuro dell’umanità. Jurgen Habermas esprime – sempre a parere del Papa – un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che “la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti”.

Qui il Papa tocca i problemi fondamentali della democrazia, intesa quale meccanismo (certamente) imperfetto che deve trovare un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti e perseguire il bene comune. Ma come si può raggiungere quest’ultimo se gli interessi sono, appunto, contrapposti e se la democrazia implica “la partecipazione politica egualitaria di tutti cittadini”? Un esempio può essere utile a chiarire la difficoltà del problema. Se ci sono molti poveri e pochi ricchi e se i primi attraverso le procedure democratiche volessero espropriare in tutto o in parte i ricchi, se i diritti di proprietà dei ricchi sono intangibili, delle due l’una:  o riduci la povertà o riduci la democrazia non consentendo ai poveri di far valere il loro potere di maggioranza[1]. Il Papa non affronta questi difficili temi che devono o dovrebbero essere affrontati dai politici e dagli economisti. Il Papa torna al concetto di “ragionevolezza”[2] e segue al riguardo più esplicitamente il pensiero di Habermas.

“Riguardo a questa “forma ragionevole” – continua la citazione del Papa – egli (Habermas) annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma deve caratterizzarsi come un “processo di argomentazione sensibile alla verità” (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). E’ detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico “processo di argomentazione” sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi, però, sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme.

La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla

sensibilità per gli interessi. Benedetto XVI trova “significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico”.

Sono passaggi fondamentali che vanno chiariti bene. Siamo nel cuore della moderna

teoria della democrazia. Se  la responsabilità del governo diventa  quella – a suo tempo teorizzata da James Madison uno dei padri costituenti americani  –  di “proteggere la minoranza degli opulenti dalla maggioranza”, ci si può chiedere che cosa può significare in concreto la sensibilità per la verità. Significa che non possiamo toccare i diritti di proprietà? Che non possiamo procedere a politiche ridistributive che riducano la povertà? No. Significa che dobbiamo seguire un criterio di ragionevolezza. Mi pare che anche Franco Gallo, come filosofo del diritto, segua questa strada quando teorizza il primato della legge , dell’interesse generale sui diritti e gli interessi particolari. Ovviamente, nello Stato di diritto, la legge è “ragionevole” perché, se non lo fosse, prima o poi sarebbe dichiarata incostituzionale.

Gli economisti hanno diverse opzioni davanti e, non a caso, il Papa cita anche Rawls. Vedi il suo noto principio di differenza, secondo cui le disuguaglianze economiche sono ammesse nei limiti in cui tornano a vantaggio di tutti ed in particolare dei cittadini meno favoriti[3].

Ma seguiamo ancora direttamente il pensiero di Benedetto XVI. Per il Papa “diventa inevitabile la domanda di Pilato: che cos’è la verità? E come la si riconosce? Se per questo si rimanda alla “ragione pubblica”, come fa Rawls, segue necessariamente ancora la domanda: che cosa è ragionevole? Come una ragione si dimostra ragione vera? In ogni caso, si rende in base a ciò evidente che, nella ricerca del diritto della libertà, della verità e della giusta convivenza devono essere ascoltate istanze diverse rispetto a partiti e gruppi d’interesse, senza con ciò voler minimamente contestare la loro importanza”.

Ho detto sopra al riguardo che in casi normali (di iniqua distribuzione delle risorse), se si vuole una giusta convivenza, bisogna fare un opportuno bilanciamento  tra riduzione della povertà e riduzione della democrazia. È in sostanza quello che propone Rawls quando afferma che le azioni del governo, le manovre di politica economica, la politica allocativa e ridistributiva devono essere tali da apportare i maggiori benefici a  coloro che stanno peggio. Ma fin dove spingersi senza annullare i fondamentali diritti proprietari? Come sembra ritenere Gallo, non oltre la ragionevolezza.

3. – Ciò detto sui rapporti tra la legge e i diritti di proprietà, vengo a questioni più specifiche che toccano il lavoro degli economisti e dei giuristi, entrambi esperti di legislazione nella prospettiva di storia dell’analisi economica (anche del diritto).

Per un giurista e per un economista la capacità contributiva – l’ability to pay di Adam Smith – è un punto di riferimento ineludibile. Ma Smith e gli altri economisti classici vissero  in una fase storica in cui lo Stato sociale doveva ancora nascere.

Per noi economisti, comunque, il concetto di capacità contributiva presenta delle difficoltà. Per noi vuole valutare il reddito reale, ossia il valore che ognuno di noi attribuisce a una certa grandezza monetaria. Come sappiamo, ci sono quelli che ammettono i confronti interpersonali di utilità e altri che non li ammettono. Nell’implementazione del concetto di capacità contributiva ci si imbatte in questa difficoltà. Numerari diversi possono avere lo stesso valore o produrre lo stesso benessere. Per fare giustizia tributaria e simmetricamente per valutare i benefici della spesa pubblica dobbiamo adottare un comune metro di misura.  Non essendo disponibili misurazioni precise, si ricorre anche qui al criterio della ragionevolezza. Quando la terra era l’unico cespite tassabile, il problema era molto più facile anche se c’era pure allora il problema della tassazione delle terre lasciate incolte e, da qui la proposta di alcuni economisti classici, di tassare il valore patrimoniale delle terre incolte. Saltando un secolo per brevità e venendo agli anni 1960, l’idea era quella di una base imponibile onnicomprensiva che abbracciasse tutti i tipi di redditi. Ricordo a me stesso che noi abbiamo sei diverse categorie (art. 6 del TUIR). A fronte dei nuovi elevati fabbisogni di gettito, la base onnicomprensiva – in auge negli anni ’60 – aveva non solo il merito di toccare tutti i cittadini abbienti, ma anche quello di consentire aliquote più basse rispetto a quelle elevatissime formalmente adottate e vigenti in diversi Paesi.

Negli anni ’70 per via della stagflation salta questo modello di imposta perché la forte lievitazione dei valori monetari fa scattare aliquote marginali sempre   più alte e si corre ai ripari abbassandole o riconoscendo il c.d. fiscal drag.

Negli anni ’80 e ’90 trionfa il neoliberismo e l’attacco alla progressività si fa viepiù duro usando e “abusando” dell’argomento efficienza, ossia, della tesi secondo cui alte aliquote marginali incentivano  la riduzione dello sforzo di lavoro e della propensione al risparmio[4].

Nel 1986 negli States viene adottata una riforma tributaria di grande respiro strategico. Non è solo di Reagan. È una riforma bipartisan che arrivava dopo decine di anni di analisi approfondite e che, sul piano legislativo, è stata messa a punto dalla potente commissione parlamentare Ways and Means. Ha abbattuto le aliquote e introdotto la cedolarizzazione e numerose clausole anti-elusive. Sappiamo ora che: a)  gli americani più ricchi finirono con il pagare di più; b) non ebbe gli effetti di stimolo di crescita dell’economia che di norma vengono correlati alla riduzione delle aliquote marginali; c) il bilancio del governo federale accumulò grossi deficit.

Nel 1993 Clinton non cambia la struttura portante dell’imposta personale, ma introduce una quarta aliquota del 39%  che ne accentua la progressività.  Gli anni di Clinton conoscono una crescita economica sostenuta. I ricchi pagano ancora maggiori imposte e il bilancio del governo federale accumula surplus crescenti. Per due anni se ne discute l’impiego. Poi  arriva Bush junior e se ne libera subito.

Non è vero, quindi, che il discorso sulla progressività è in ribasso negli USA e in altri paesi occidentali. È vero che dagli Stati Uniti viene periodicamente avanzata la proposta della flat rate tax che peraltro non significa abbandono totale della progressività[5]. Fin qui forme di flat rate tax sono state attuate nelle economie in transizione dell’Est europeo, dove prima non c’erano imposte dirette e personali.

Nel caso italiano siamo davanti ad un bivio. I dati dell’ultimo Libro Verde del MEF dimostrano come, da un lato, nella fascia dei redditi medio bassi ci siano aliquote marginali effettive veramente drammatiche, dall’altro, le parti sociali e l’opinione pubblica si attardano a chiedere continui ritocchi delle detrazioni che poi portano ad ulteriore accentuazione delle aliquote marginali effettive per le fasce medio basse di reddito.

L’alternativa seria, a mio parere, sarebbe invece quella  di cogliere e valorizzare la tendenza inarrestabile alla cedolarizzazione accompagnandola, come negli USA, con clausole anti-elusive molto rigorose oppure di introdurre il quoziente familiare con opportuni correttivi, alias, un mix dei due sistemi.

Gallo, pur non rinunciando alla progressività, del resto costituzionalmente prevista, sembra basarsi sostanzialmente su questo terreno: la progressività per lui è realizzabile anche attraverso un mix di strumenti fondati sia sulla spesa che sulle entrate, avendo come obiettivo quello, indicato da Rawls, di trattare meglio gli “svantaggiati” e, perciò, la fascia più bassa dei contribuenti.

4. – La progressività è difendibile e sostenibile ma nel nostro paese c’è una difficoltà che attiene al rapporto tra giustizia sociale e giustizia fiscale. Se ragioniamo di giustizia fiscale in senso ampio è chiaro che il nesso con la giustizia sociale è quanto mai stretto. Qui abbiamo un problema molto serio. In Italia non c’è solo un grosso problema di concentrazione del reddito e della ricchezza. C’è, innanzitutto, un clima di illegalità diffusa che ammorba l’aria. C’è una legislazione alluvionale, sussultoria, contraddittoria, irrazionale. È mio parere che, qualora tale legislazione a singoli pezzi o a blocchi fosse sottoposta al giudizio di ragionevolezza, difficilmente essa la supererebbe se il giudice delle leggi non si desse carico del principio dell’expediency.   Non ci sono valori largamente condivisi. A volte si producono anche leggi buone. Ma c’è un problema generale di implementazione della legge che, non di rado, rimane senza copertura amministrativa. In molte istanze, c’è denegata giustizia anche per la esasperante lentezza dei processi. Per tornare al nostro specifico. Basta considerare i 100 miliardi di evasione fiscale gli 80 miliardi di corruzione nella PA come stimati ufficialmente dal MEF e dall’apposita Autorità anti-corruzione[6] per rendersi conto della difficoltà di migliorare il grado di adempimento delle leggi fiscali se, allo stesso tempo, non si procede alla rieducazione degli italiani alla legalità[7].

Da economista realista concordo con l’opinione di Masciandaro, il quale spiega la situazione con il fatto che viviamo in un Paese con un basso livello di domanda di legalità. Possiamo discutere a lungo di progressività e di giustizia tributaria collegandola funzionalmente con l’obiettivo di giustizia sociale, ma se gli italiani non imparano a rispettare la legge in generale abbiamo poche speranze che essi  rispettino anche quelle tributarie solo perché queste sono strumenti di potenziamento dello stato sociale.

In un simile contesto può sembrare ingenuo appellarsi alla ragione etica e a quella pubblica, ma non vedo cosa di diverso si possa fare al di fuori dell’accettazione di una situazione di fatto per molti versi inaccettabile. In questo senso, come studioso Franco Gallo sfida la saggezza convenzionale. Non accetta il compromesso sul piano morale. Rimane profondamente attaccato ad un modello ideale di imposta personale e progressiva. Ne ha approfondito i fondamenti etici e la sua potenzialità a contribuire alla giustizia fiscale e sociale.  Come giudice costituzionale Franco Gallo applica giornalmente il criterio della ragionevolezza. Come studioso non si adatta al mondo così com’é. Lo vuole adattare al suo modello di imposta, al suo ideale di giustizia fiscale e di welfare state. Come dice G.B.  Shaw: “L’uomo ragionevole adatta se stesso al mondo. L’uomo irragionevole adatta il mondo a se stesso. Ogni progresso dipende dall’uomo irragionevole”. E siccome Franco Gallo è stato anche un grande avvocato, sa difendere bene la sua tesi. Onestamente la tesi ha fondamenti seri e da meditare attentamente.


[1] Per inciso, in Italia la questione, in questa fase politica, si pone in termini diversi, abbiamo il 10% di famiglie ricche che controllano il 40% della ricchezza complessiva, il 10-12% di famiglie povere il 78-80% di famiglie con redditi intermedi. La maggior parte di queste ultime  sono alleate con le famiglie più ricche. In termini di ridistribuzione quindi non si pone sul terreno politico un problema di riduzione della democrazia né di riduzione della povertà.

[2] Secondo Rawls, i cittadini sono ragionevoli quando si vedono l’un l’altro come liberi ed uguali in un contesto sociale cooperativo anche intergenerazionale e sono pronti a concedersi l’un l’altro termini equi di trattamento anche con sacrificio di interessi individuali (particolari).

[3] Il principio di differenza accompagna quelli di eguale libertà e di uguaglianza delle opportunità.

[4] A scanso di equivoci, voglio dire in primo luogo agli economisti che, a livello macro, la tesi è fondata ma non funziona necessariamente a livello macro come vedremo fra poco.

[5] La flat rate tax con inevitabili detrazioni lascia la progressività per le fasce di reddito medio-basse.

[6] Con il comma 6 dell’art. 68 del DL n. 112/2008 l’Autorità anticorruzione  è soppressa insieme  all’Alto Commissario per la lotta alla contraffazione. Il valore di questa è stimato in 450-500 miliardi e colloca l’Italia al terzo posto nel mondo per produzione e commercio di beni contraffatti.

[7] Per altre numerose, rilevanti e significative esemplificazioni vedi il Rapporto ISAE, Priorità nazionali. Infrastrutture materiali e immateriali, Giugno 2008.