L’altra settimana è venuto a Roma il senatore Kerry, ex candidato alla presidenza e ora presidente della Commissione relazioni estere del Senato USA. Accompagnato dall’Ambasciatore a Roma è andato a parlare con Berlusconi per convincerlo ad adottare un ruolo più attivo dell’Italia nella guerra alla Libia. La sua visita è passata quasi inosservata.  Poi è arrivata la telefonata di Obama a suggello dell’accordo raggiunto. Fin qui il governo, dopo molte incertezze, aveva tenuto un atteggiamento, a dir poco, ambiguo rispetto alle posizioni dell’ONU, della NATO e della UE. Partecipava alle missioni di ricognizione ma non sganciava bombe né lanciava missili.

In un paese normale in cui il massimo organo collegiale del paese e il presidente del consiglio dei ministri che a norma di Costituzione ha il compito del coordinamento generale della politica del governo, Berlusconi avrebbe dovuto convocare un consiglio dei ministri ad hoc, informare gli alleati di governo tra cui i sedicenti Responsabili e, magari, avrebbe dovuto fare un comunicato stampa con cui rendere nota la nuova posizione del governo italiano. Poi avrebbe potuto presentarsi alle Commissioni parlamentari o in aula per informare il Parlamento e cercare di ottenere l’appoggio delle opposizioni, visto che la questione riguarda il nostro ruolo in una guerra. E tenuto conto che in buona sostanza anche il governo Berlusconi è sorretto da una coalizione di forze eterogenee e, da ultimo, raccogliticce.

Ma lui è un leader carismatico; è stato eletto “direttamente” dal popolo; non ha il tempo né la voglia di informare gli alleati di governo che stanno lì perché lui lo consente né tanto meno i parlamentari del suo stesso partito perché sono nominati da lui. Non ha nessuna voglia di lasciarsi imbrigliare dalle vischiose  procedure parlamentari e da sterili dibattiti. Se c’è un leader – come c’è nella maggioranza, almeno secondo i suoi corifei – devono bastare le sue personali decisioni. Domenica avrebbe ricevuto la telefonata di Obama. Lunedì – nonostante la Pasquetta – non partecipa alle manifestazioni per la ricorrenza della Liberazione, fa alcune telefonate  ed il fido ministro La Russa fa vedere i cacciabombardieri con cui effettuare gli interventi “mirati”. Come dire, che gli altri bombardano a casaccio, come capita.

Sennonché la Lega non ci sta. Anche essa ha un leader e questi la pensa diversamente. Gli altri leghisti in coro dicono che non ci stanno  per un semplice motivo: Bossi non è d’accordo. Teme un’invasione di profughi libici, rectius, di libici “spediti in Italia” da Gheddafi – anche se  eventualmente sconfitto dalla intensificazione degli interventi aerei da parte della NATO. Su tali questioni decide Bossi – ripete pedissequamente l’on. Boni presidente del Consiglio regionale della Lombardia. A questo si riduce la politica estera dell’Italia ragionando con lo schema del  leader unico.

Sul merito delle questioni non si discute. In Libia, dopo la Risoluzione ONU n. 1973, intervengono, urgentemente ed in ordine sparso, Francia e Inghilterra. La Germania resta a guardare per motivi politici interni. L’Italia temporeggia ma invoca giustamente il coordinamento della NATO. Francia ed Inghilterra tentennano ma alla fine accettano. L’Italia, pur avendo ottenuto il coordinamento NATO, mantiene ferma la posizione di non bombardare. L’America di Obama, formalmente, non vuole un ruolo di primo piano ma più recentemente ha deciso di utilizzare anche i droni (velivoli senza pilota, armati di missili di precisione) colpendo le residenze di Gheddafi. L’America vorrebbe la UE in un ruolo più attivo. Ma queste non ha forze armate unificate e,  ancor peggio, non sembra avere una politica estera condivisa. In queste circostanze, si aprono molti spazi per le posizioni ambigue, equivoche dei governi nazionali che decidono tenendo conto di problemi politici interni.

Intanto Gheddafi resiste oltre le aspettative. Non accetta di trattare la sua uscita di scena. Non usa gli aerei ma schiera carri armati e truppe mercenarie per cannoneggiare le città ribelli massacrando la popolazione civile. Gli stessi rivoluzionari non sembrano mostrare grande capacità militare né compattezza politica. Sembra essersi determinata una pericolosa e dolorosa  situazione di stallo. Ma non è  questo che voglio esaminare qui.

Anche io voglio esaminare la progressiva involuzione della politica interna in questo gioco della leadership unica. Se il modello è quello di un uomo solo al comando, ha ragione Berlusconi e Bossi dovrebbe rassegnarsi a stare dietro. Il modello berlusconiano non ammette la diarchia. Berlusconi  poi dovrebbe rendere conto dei suoi continui voltafaccia e delle sue piroette  all’opinione pubblica, ai partner europei e agli alleati della NATO, ai paesi amici dell’ONU. Un uomo solo al comando facilmente diventa un dittatore e persino la Lega non riesce ad adattarsi ad una tale situazione. Se può permettersi all’interno di non rispondere all’opposizione, diversa è la situazione nella UE e nel resto del mondo. E proprio quello che sta succedendo nel Nord Africa e nel Medio Oriente dimostra che questo non è il tempo migliore per i dittatori.  Oggi Maroni ad alta voce e ritrovato orgoglio chiede una decisione in Parlamento.

Un approfondito dibattito in Parlamento sarebbe quanto mai opportuno e necessario non solo per verificare la compattezza della maggioranza ma soprattutto per fare chiarezza sulla politica estera e comunitaria di questo paese. Politica estera e politica europea che dovrebbe essere bipartisan e non continuo oggetto di discussioni tra maggioranza ed opposizione e tra i vari gruppi all’interno dell’una e dell’altra. Non ci può essere politica estera comune e politica seria tout court se si lasciano le decisioni ad un leader screditato che nessuno vuole più incontrare perché teme di perdere appoggio popolare all’interno del proprio paese. Un approfondito dibattito in Parlamento non dovrebbe avere come scopo principale la caduta del governo ma il ristabilimento di serie regole del gioco democratico. Se poi questo governo dovesse dimettersi di sua iniziativa e chiedere le elezioni,  tanto meglio per il paese.