Due problemi principali con l’interpretazione di quello che ha scritto o non ha scritto il primo decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri il 24 dicembre scorso in attuazione della legge delega di riforma dello Statuto dei lavoratori di Giacomo Brodolini. Il primo: le nuove norme che tagliano fondamentali diritti dei lavoratori privati si applicano o no ai dipendenti pubblici? Il secondo punto controverso: le nuove norme sui licenziamenti si applicano solo a quelli individuali o anche a quelli collettivi? Non solo gli esperti dei partiti ma anche membri dello stesso governo dissentono. Il che la dice lunga sulla collegialità del governo e su come viene svolta la funzione di coordinamento generale del Presidente del Consiglio. Questi salomonicamente dice che deciderà il Parlamento, rectius, l’apposita Commissione parlamentare che valuta la effettiva corrispondenza tra le norme del Decreto legislativo e i principi di delega. Compito arduo se si tiene conto della vaghezza ed incertezza con le quali era stata scritta la delega.
Non sono questioni di dettaglio se, come detto, sono in gioco diritti fondamentali ed il ruolo della magistratura che con grande determinazione si voleva relegare al margine. Questo la dice lunga sul modo di legiferare di questo governo che vede al suo vertice due ex sindaci e come capo dell’Ufficio legislativo della Presidenza del Consiglio un ex Comandante dei vigili urbani del Comune di Firenze, ossia, tutta gente senza alcuna esperienza legislativa. La ministra Madia, chiamata in causa sulla questione dell’applicabilità agli statali delle nuove norme, sostiene che la vera volontà del governo e quella degli esperti di cui si circonda escludono che dette norme possano applicarsi ai dipendenti pubblici. La stessa tesi sembra sostenere l’ineffabile Ministro del lavoro , presumibile estensore del provvedimento, ma il suo parere non sembra avere alcun peso se, come abbiamo visto in altri casi, è sempre il Capo del governo che decide sulle cose importanti e questi ha detto che deciderà il Parlamento smentendo i suoi ministri.
Quando ero studente universitario, mi hanno insegnato che per chiarire qualche punto oscuro di una legge poteva essere utile leggere l’allegata relazione governativa di norma ben scritta. Ora abbiamo un governo che sta cambiando il Paese con i tweet a ripetizione e ben poco si cura di come sono scritte le leggi e, tanto meno, le relazioni governative. Sta cambiando il Paese ed in fretta. Il resto non conta. Se non capite quello che prescrive una legge, non c’è alcun problema. Potete sempre risalire alla volontà non scritta del governo che l’ha emanata oppure rifarvi alla giurisprudenza contrastante citata dallo stesso Presidente del Consiglio. E dire che anche questo governo parla continuamente di chiarezza e semplificazione delle leggi. In fatto, ne aveva già dato un altro esempio preclaro pochi giorni prima con il maxiemendamento alla legge di stabilità. Un articolo unico con 750 commi zeppo di errori e di collegamenti legislativi sbagliati ammessi dallo stesso governo. Il capogruppo PD al Senato Zanda fu costretto a chiederne l’approvazione nello stato in cui erano sulla promessa governativa che gli errori sarebbero stati corretti in sede di redazione finale del testo. Tenuto conto che la legge di stabilità è uno dei più importanti atti legislativi del governo che ne definiscono la politica economica e sociale, ogni altro commento è superfluo. Ma questo episodio costituisce un’ennesima prova dell’esproprio da parte del governo della funzione legislativa del Parlamento ormai ridotto ad approvare i testi del governo anche se pieni di errori. Siccome non c’è due senza tre, adesso aspettiamo la terza prova di appello.