La settimana scorsa Maurizio Landini ha lanciato la proposta di costruire una coalizione sociale per uscire dalla crisi che travaglia il Paese, la politica e anche il sindacato. Nel pubblicare una mia breve dichiarazione di adesione ho saltato per brevità alcuni passaggi che mi sembra utile riprendere per capire anche la gravità del rifiuto e dell’isolamento del segretario da parte non solo della CGIL ma ora anche delle altre due confederazioni la CISL e la UIL.
Di quale crisi stiamo parlando? Si tratta della crisi di rappresentanza sia dei partiti che dei sindacati e delle altre articolazioni sociali; si tratta della crisi del sistema democratico in questo paese e nella unione europea. Ho sostenuto in precedenti post che nella UE c’è una deriva autoritaria e tecnocratica che sposta in alto le decisioni politiche più importanti che riguardano la vita della gente comune e i diritti dei lavoratori. Ne vediamo ogni evidenza non solo recentemente nel caso della Grecia e della Ucraina dove decisioni cruciali riguardanti questi Paesi sono presi da gruppi ristretti di governi europei senza alcuna autorizzazione del Parlamento europeo. L’abbiamo visto negli anni scorsi con i provvedimenti economici europei sbagliati mirati ad affrontare la crisi economica e finanziaria dettati dalla Banca centrale europea ma fatti gestire dalla troika un organismo informale senza alcuna legittimazione democratica.
Essendo l’UE un assetto istituzionale sostanzialmente federale, è chiaro che tali provvedimenti hanno una ricaduta diretta ed immediata all’interno dei paesi membri dell’Unione anche se attraverso uno strumento giuridico anomalo quale quello degli accordi intergovernativi. Viviamo in un mondo di interdipendenza e a nulla valgono le grida sulle violazioni della sovranità nazionali che a intermittenza si sentono anche da parte di esponenti di governi che quegli accordi hanno sottoscritto. Rispetto all’assetto istituzionale europeo, si dice che non c’è democrazia senza popolo e che al momento c’è un popolo senza democrazia. Ma se le scelte politiche ed economiche fondamentali sono assunte a livello europeo e se esse si ribaltano all’interno dei singoli paesi membri è comprensibile che al cittadino comune esse possano apparire come calate dall’alto o, peggio ancora, imposte dai governi dei paesi più forti.
Se questo è vero, allora è prioritario capire bene la complessità della situazione. Per quanto riguarda l’Italia è chiaro che dopo l’accordo sulla politica dei redditi del 1993 la situazione delle relazioni industriali nel nostro Paese ha fatto dei passi indietro e non avanti. E per la verità bisogna dire la responsabilità di tali passi indietro non è solo colpa dei governi della II Repubblica. Ha giocato innanzitutto la divisione e la burocratizzazione dei sindacati. Berlusconi e Tremonti, in particolare, hanno alimentato tale divisione ed elargendo un po’ di cassa integrazione si sono comprati la pace sociale. La concertazione è stata archiviata. Il sindacato ha subito via via la politica europea ed italiana di riduzione del welfare, tre grosse riforme del diritto del lavoro – secondo me, per lo più sbagliate e regressive – a cui il sindacato diviso non ha saputo resistere validamente. Peggio ancora il sindacato attraverso la contrattazione non ha saputo difendere il potere d’acquisto dei salari se è vero come è vero che in termini reali essi sono tornati al livello del 1999. Questo spiega perché i lavoratori hanno perso fiducia nell’azione collettiva attraverso il sindacato e perché c’è appunto una crisi di rappresentanza che è crisi dell’agente (del rappresentante) e, a un tempo, crisi del rappresentato (principale) che non crede più nel sindacato – come del resto non crede più nei partiti personali che infestano lo scenario politico italiano. Si tenga conto che per altro verso la crisi di rappresentanza riguarda anche le organizzazioni datoriali – vedi l’uscita della FIAT da Confindustria – ma le imprese hanno ben altre risorse per far valere le loro idee e interessi.
Tutto questo indebolisce non solo il sindacato ma la democrazia italiana. – già indebolita nella sua massima espressione parlamentare. Il Parlamento della II Repubblica è per lo più composto da nominati e, quindi, formato da persone prive di autorevolezza e indipendenza. I suoi componenti sono selezionati sul fondamentale criterio della fedeltà al leader e/o all’oligarchia centralista che li sceglie. Il governo, negli ultimi decenni, in nome dell’efficienza e della rapidità, ha espropriato le Camere del potere legislativo abusando della decretazione d’urgenza e del voto di fiducia. Tutto questo riduce gli spazi di partecipazione non solo per le parti sociali ma anche per gli stessi politici. L’introduzione delle primarie non ben regolate nel Partito democratico invece di migliorare la situazione rischia di peggiorarla perché promuove il modello di uomo solo al comando. Nella sostanza le proposte di riforma costituzionale e del sistema elettorale di Renzi perseguono quel modello. Mira solo al rafforzamento del governo e vuole una burocrazia legata al governo di turno attraverso lo spoil system. Se tale riforma dovesse essere approvata la divisione dei poteri su cui si fondano i sistemi liberaldemocratici sarebbe ulteriormente indebolita. E a quel punto non avrebbe senso mantenere l’altra suddivisione dei poteri che caratterizza le economie miste: quella tra governo, impresa e sindacato di cui nessuno parla. Eppure nelle economie miste in sistemi liberaldemocratici, le parti sociali sono autorità di politica economica perché fissano i prezzi dei beni e servizi prodotti dal settore privato; condizionano i prezzi e/o tariffe dei beni e servizi prodotti dal settore pubblico; determinano la distribuzione primaria del reddito; determinano l’allocazione delle risorse; ecc.
Ora il rifiuto di Renzi di riconoscere il ruolo del sindacato può collegarsi a due modelli: o al modello sovietico o a quello corporativo fascista, ossia , a un sindacato che sia cinghia di trasmissione delle direttive del governo. E in Italia abbiamo dei precedenti storici. E’ insulsa e nauseabonda la critica ossessivamente ripetuta dalla RAI-TV pubblica e dalla stampa padronale secondo cui resistendo ai tagli dei diritti civili e alle svalutazioni interne dei salari il sindacato farebbe politica. E chi altro dovrebbe muoversi per difendere i diritti e gli interessi dei lavoratori? Lo stesso governo che propone le misure di riduzione dei diritti e dei salari? Il Parlamento che viene tacitato con il ricorso alle ghigliottine e ai continui voti di fiducia? E’ giusta e sacrosanta la linea politica, sindacale e sociale che cerca di costruire una rappresentanza più efficace in difesa dei diritti e degli interessi dei lavoratori.
Se la proposta di Landini fosse accolta, non si tratterebbe di inventare un nuovo ruolo ma di tornare a quello che il sindacato fece dopo il 68 e l’Autunno caldo del 1969, nella fase di massima potenza negoziale del sindacato, quando fu determinante nel convincere il Parlamento ad approvare riforme fondamentali come lo Statuo dei Lavoratori, la riforma tributaria, la nuova legge per il Mezzogiorno, la legge per la casa, per i trasporti pubblici locali, ecc..
Allora c’erano i partiti più strutturati in conflitto tra di loro sul da fare ma quelli di governo chiedevano al sindacato di aiutarli a vincere le resistenze di altre correnti politiche rispetto a certe riforme; oggi, ci sono i partiti personali che pensano di potere fare a meno dei c.d. corpi intermedi.
La proposta di Landini è stata respinta in sequenza dalla Camusso segretaria generale della Confederazione a cui fa capo la FIOM – vedi Corriere della Sera del 18 u.s. intervista di Lorenzo Salvia – con argomenti contraddittori. La Camusso ammette che il sindacato è soggetto politico ma “fa politica sul lavoro …..soggiunge che “ viviamo in una stagione in cui c’è una straordinaria deficienza della politica rispetto ai temi del lavoro ….. ma proprio perché la politica non risponde, il sindacato deve guardarsi dall’idea di sostituirla”. La Camusso non ricorda un suo recente sciopero generale a cui ho partecipato o che sta raccogliendo le firme per un referendum abrogativo del pareggio di bilancio novellato nel 2012. Non sono queste azioni politiche? Se il sindacato da solo non ce la fa, è naturale che debba cercare alleanze o uno schieramento più ampio di forze che condividono gli obiettivi.
Sempre sullo stesso giornale interviene due giorni dopo la Segretaria generale della CISL con una lunga lettera che riprende alcuni osservazioni di Paolo Franchi del giorno precedente. La Furlan ammette che c’è un problema di rappresentanza ma boccia la proposta di Landini che sarebbe “frutto di una stagione politica confusa”. A me sembra confusa anche la sua posizione quando da un lato scrive che il sindacato deve “concorrere insieme agli altri corpi sociali alla costruzione di una vera “architettura” di governo….. dall’altro afferma che “il nostro mandato viene esclusivamente dai posti di lavoro”. La Furlan non si rende conto che, se si applicasse alla lettera questa sua affermazione, il sindacato non sarebbe legittimato a rappresentare chi non ha un posto di lavoro, i disoccupati e gli inattivi.
Nello stesso giorno, il nuovo leader della UIL Barbagallo ha giustificato il suo rifiuto di aderire alla coalizione con l’argomento abusato in questi ultimi decenni: fare gli accordi, fare i contratti: è questo il compito del sindacato. Ma dove ci ha portato questa politica? Alla riduzione dei salari, al mancato controllo dell’attuazione del Protocollo sulla politica dei redditi firmato nel 1993. C’è in corso da alcuni anni una svalutazione interna dei salari; siamo alla deflazione e che cosa fanno le Confederazioni si rinchiudono nel recinto di una contrattazione asfittica in un contesto di recessione in cui le imprese sono in difficoltà e non creano lavoro, come se a livello europeo non ci fosse un attacco mortale al modello sociale europeo, come se la politica dell’austerità non si riflettesse sulla contrattazione dei salari in tutti i paesi europei.
Rinchiudersi nei recinti angusti della stretta contrattazione salariale significa condannarsi alla sconfitta, tornare agli anni 50 quando la produttività aumentava e i salari recuperavano solo una parte piccola di essa, quando non si coglieva il nesso ineludibile tra salario e condizioni reali di vita e i margini conquistati sul terreno salariale venivano neutralizzati dagli aumenti del costo della vita, quando le imprese facevano grassi profitti e Scelba mandava i celerini a disperdere i lavoratori in sciopero.
Al di là delle interviste brevi citate, so bene che le Confederazioni e i sindacati di categoria hanno programmi ben più complessi e meglio articolati, ma un punto fondamentale, secondo me, va ribadito a partire dalla centralità del problema del lavoro che le Confederazioni propalano. Se questa non è solo uno slogan, occuparsi del lavoro che c’è e di quello che non c’è significa entrare nel merito della politica economica del governo inidonea a creare crescita ed occupazione. Occuparsi di politica economica è fare politica. Se una lacuna ha la proposta di Landini è quella di non avere meglio chiarito che la Coalizione sociale dovrebbe avere anche una dimensione europea. Ma questo compito non spetta alle Confederazioni?