Vito Tanzi, Dal miracolo economico al declino? una diagnosi intima. Jorge Pinto Books, New York, 2015.
“Questo libro – scrive lo stesso autore – è basato su memorie e impressioni, acquistate in molti anni da parte di un economista nato e cresciuto in Italia che ha continuato a seguire attentamente l’economia e la società italiana, ma che, allo stesso tempo, per ragioni professionali, ha vissuto molti anni fuori d’Italia, occupandosi, come economista, di molti paesi del mondo. Non è un libro di ricerca, o un libro basato su relazioni econometriche o su ore spese in biblioteca. Non è neppure un libro, come ci sono alcuni, scritto dopo un breve soggiorno in Italia. Il libro è basato su osservazioni di circa 40 anni e cerca di distillare lezioni imparate in quel lungo periodo. Contiene pochissimi riferimenti bibliografici, poche statistiche, e molte descrizioni di episodi ed eventi che cercano di analizzare la società e l’economia italiana nella sua essenza, come è stata vista dall’autore in molti anni ed in molte visite, alcune brevi altre di lunga durata. Come è da aspettarsi in economia, non tutti i lettori condivideranno le impressioni o, specialmente le conclusioni”.
Il libro è diviso in tre parti. La prima riprende le analisi, osservazioni, impressioni, maturate durante le missioni del FMI guidate da lui, gli incontri e i seminari accademici, i soggiorni e le vacanze trascorsi in Italia. La seconda parte riprende innanzitutto la sua esperienza nel governo Berlusconi2 nei primi anni 2000 e i suoi ripensamenti e, alla fine, le dimissioni. Indubbiamente questa seconda parte è la più interessante e penetrante perché entra nel merito del funzionamento della politica in generale e delle politiche economiche adottate dai vari governi italiani compresso quello di cui ha fatto parte. Spiega il mancato funzionamento del sistema Italia, della sua burocrazia, il modo in cui vengono concepite e scritte le leggi, la loro mancata o distorta attuazione, le riforme fiscali annunciate, fatte e fallite e, soprattutto, la ininterrotta sequenza di condoni fiscali, edilizi. Spiega perché in Italia è impossibile tagliare la spesa pubblica e/o fare una seria revisione della spesa pubblica. Non ultimo, nella terza parte, spiega l’attitudine italiana a non rispettare le regole a partire da quella della puntualità.
Ha ragione Tanzi. In Italia non è mai esistito il “libero mercato” ma la colpa, secondo me, non è della Costituzione del 1948 ma di un mondo imprenditoriale che ha sempre preferito la protezione dello Stato sia che fossero imprenditori agricoli che industriali. L’Italia che uscì semidistrutta dalla seconda Guerra Mondiale aveva comunque bisogno di un forte intervento pubblico per la ricostruzione e, in special modo, se voleva affrontare il problema secolare dell’arretratezza del Mezzogiorno.
Già ai primi degli anni settanta, dopo il miracolo economico, l’Italia si ritrova tra i primi Paesi industriali del mondo ma con una economia caratterizzata da una forte presenza di piccole e medie imprese ed una diversità esasperata che – secondo Tanzi – non consente di cogliere e/o internalizzare le economie di scala. Ed è proprio in quegli anni che, a livello europeo, il commissario Spinelli avviò un tentativo di lanciare una politica industriale a livello continentale che consentisse non solo di promuovere dei campioni europei in grado di competere con le grandi imprese multinazionali ma che promuovesse uno sviluppo sostenibile rispettoso dell’ambiente e meglio distribuito sul territorio. Purtroppo le conclusioni della Conferenza di Venezia dell’aprile 1972 ebbero un seguito solo parziale con la creazione del fondo per la politica regionale nel 1973 ma, con l’arrivo della crisi energetica e con l’avvento del neo-liberismo, i progetti coordinati di politica industriale furono abbandonati. Un grande mercato richiede omologazione dei gusti e delle preferenze oltre che coesione sociale. Se ci sono diversità esasperate e forti squilibri regionali le preferenze non si aggregano. Molte PMI non sopravvivono al primo-secondo passaggio generazionale. Se c’è esasperata diversità culturale, le regole uguali per tutti non vengono rispettate perché non sono percepite come eque. Le regole vengono violate con disinvoltura anche perché alcuni confondono il bene comune con quello individuale. 40 anni di neo-liberismo, di malinteso individualismo metodologico, di massimizzazione del proprio interesse individuale hanno legittimato il trionfo dell’interesse individuale e/o familiare che in Italia ha radici secolari in termini di familismo amorale non solo nelle aree arretrate del Mezzogiorno. E se prevale l’interesse particolare si riduce o viene meno del tutto la propensione a cooperare, a fare squadra, a rispettare l’interesse generale che richiede il rispetto di regole ben definite e, soprattutto, percepite come eque. Restando per il momento nel settore dell’industria e della finanza, erano eque le regole di Mediobanca dove gli azionisti principali (le tre banche di interesse nazionale) che avevano la maggioranza assoluta (56% delle azioni) dovevano decidere d’intesa con i rappresentanti delle grandi dinastie industriali che avevano insieme solo il 6% delle azioni? Il patto di Mediobanca (del salotto buono) che risaliva al 1956 fu denunciato solo nel gennaio 1985 da Gianni De Michelis quando ormai si stava avviando il discorso delle privatizzazioni.
Anche in materia fiscale, le regole vengono rispettate se da un lato esse vengono percepite come eque e, dall’altro, se in assenza della libera adesione da parte dei contribuenti, si mette in piedi un sistema di controlli efficienti ed efficaci. In seguito al secondo scandalo dei petroli (1978) che vide coinvolto il Comandante generale della Guardia di finanza Gen. Giudice e importanti uomini politici, fu costituito il Servizio centrale degli ispettori tributari (Secit) con il compito di combattere l’evasione fiscale e la corruzione nella Guardia di finanza e negli uffici finanziari civili, programmandone l’attività di controllo. Ho avuto l’avventura di far parte della prima infornata di nomine. Era forte e sentita la determinazione del Servizio. Ma dopo gli entusiasmi dei primi anni e, soprattutto, dopo che altri ministri subentrarono a Franco Reviglio, intanto la Guardia di finanza rifiutò di programmare la sua attività insieme a quella degli uffici civili e poi via via il sostegno dei ministri, del governo e dello stesso Parlamento, a cui le relazioni del Secit venivano regolarmente inviate, si affievolì. Nel 1986, un anno prima che scadesse il mio mandato, mi dimisi per tornare all’Università. Nel corso degli anni ’90, il servizio da organo attivo di programmazione dell’attività degli uffici e di lotta all’evasione su casi di rilevanza nazionale e internazionale fu trasformato in organo di consulenza nel quale inserire amici o persone comunque vicine al ministro delle finanze e al governo per poi sparire del tutto. Evidentemente governo e Parlamento non ritenevano prioritaria la lotta all’evasione. Ricordo anche che quando con il primo governo Craxi (luglio 1983) arrivò al ministero delle finanze il professore avvocato Bruno Visentini una delle prime cose che raccomandò al Comitato di coordinamento del Secit fu quella di astenersi dal proporre modifiche legislative che venivano maturando sulla base della esperienza operativa diretta del Secit e degli uffici.
Ho citato questo episodio solo per introdurre e supportare le analisi del prof. Tanzi sul modo di funzionare del governo e sul modo di legiferare da parte del Parlamento anche allora in grossa parte – ora del tutto – espropriato della funzione legislativa. Intanto vorrei subito dire che se il governo non controlla l’alta dirigenza dello Stato è solo colpa sua e non è vera la favola secondo cui detta dirigenza è più potente del governo specialmente dopo la introduzione dello spoil system arrivato con le riforme Bassanini. Ripetutamente ritorna l’osservazione dell’Autore secondo cui il parere dei tecnici, dei consulenti esterni, delle Commissioni tecniche, delle missioni del FMI venivano e vengono sistematicamente ignorate dai ministri e dal governo. Questo ha a che fare con il modo di governare e legiferare tutto italiano. Come dice bene il prof. Tanzi , le leggi vengono scritte senza la necessaria preparazione tecnica, ossia, la valutazione preventiva dell’idoneità a risolvere il problema che si intende affrontare. Leggi che per lo più rimangono senza copertura amministrativa, senza una seria analisi ex post dei motivi della mancata attuazione e/o del fallimento totale o parziale. Se così, nessuno poi sa perché una legge non ha raggiunto gli obiettivi prefissati e, allora il governo sceglie la via più facile e più redditizia dal punto di vista della sua immagine mediatica: quella di riscrivere ex novo la legge. Per fare questo, non servono complesse analisi costi e benefici ed estenuanti indagini amministrative per capire perché quelle leggi non sono state attuate o perché non hanno prodotto i risultati annunciati. Bastano il lavoro di alcuni alti funzionari che conservano nei cassetti ogni sorta di disegni di legge e qualche consulente esterno – ignaro di come funzionano gli uffici – che li affianchi. Il prof. Tanzi scrive della sua esperienza a p.166-67: “non ci fu mai una discussione su un problema economico, o di politica economica, con i funzionari (corsivo dell’Autore) che scrivevano le norme…… improvvisamente e misteriosamente, apparivano nuove proposte di leggi già scritte e pronte per essere mandate al parlamento…..Centinaia di disegni di legge erano scritte ogni anno e molte volte diventavano leggi….La produzione di leggi (buone o spesso cattive) e non la soluzione di problemi era l’attività in cui i ministeri chiaramente mostravano grande efficienza….. un altro principio era che tutti i problemi si possono risolvere con nuove leggi anche se le leggi erano spesso scritte male e non erano state precedute da analisi dei problemi da risolvere”. Ovviamente questa è una prassi che non si è verificata solo con il governo Berlusconi 2. Posso dire che caratterizza più o meno l’attività legislativa di tutti i governi del periodo tenuto presente dal prof. Tanzi. Questo modo di “governare legiferando” non solo spiega come il Parlamento italiano produca un numero medio di leggi pari a 10 volte quello che produce il Parlamento inglese (15-18 leggi all’anno) ma ha conseguenze molto forti di deresponsabilizzazione da un lato sulla burocrazia dall’altro sullo stesso Parlamento come noto all’80-85% espropriato dell’iniziativa legislativa e dello stesso governo.
Se questo è il modo di produrre leggi in Italia e se attraverso le leggi nello stato di diritto si stabiliscono imposte, spese pubbliche e, soprattutto, cattiva regolazione del settore pubblico e privato la risposta al problema non è tornare semplicemente al “libero mercato” che non esiste in natura ma occuparsi non solo della quantità ma anche della qualità delle leggi che vengono prodotte nel tempo. Da 40 anni a questa parte, ossia, dalla riforma tributaria entrata in vigore nel 1973-74, ogni anno, vengono modificata decine di articoli del decreto legislativo sull’accertamento e sugli strumenti che l’AF può utilizzare ma l’evasione fiscale non solo non viene sconfitta ma neanche ridotta significativamente – come ha messo in evidenza da ultimo il Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno. E questo perché sistematicamente all’introduzione di nuove regole i governi fanno seguire dei condoni periodici. Anzi sostengo io che da quando nel 1994 Tremonti iniziò a flessibilizzare il procedimento di accertamento delle imposte si è andati molto avanti su questa strada per cui, tenendo conto dei ravvedimenti operosi, delle adesioni volontarie, delle conciliazioni giudiziali si può dire che viviamo in un regime di condono permanente. Ma il motivo fondamentale per cui persiste l’evasione fiscale è che i governi alla ricerca del consenso preferiscono chiedere ai ricchi fondi in prestito piuttosto che prenderglieli con le imposte a titolo definitivo. Da 150 anni l’Italia è sempre stato un Paese ad alto debito pubblico – come dimostrano tutte le ricostruzioni statistiche.
Con legge n. 287 del 1990 – esattamente un secolo dopo lo Sherman Antitrust Act degli Stati Uniti – in Italia fu creata l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ma quale record glorioso si è guadagnato questa Autorità amministrativa indipendente (AAI) dopo un quarto di secolo? Ha contribuito a ridurre il grado di monopolio in diversi settori del mercato interno? Certo oggi ci sono nuove forme di monopolio ma che ne sanno i numerosi professori di diritto costituzionale che hanno fatto i commissari e anche i presidenti di detta Autorità? Certo oggi non dipende solo dalla nostra AGCM ma anche dalla Commissione europea e qui il discorso si complica. In buona sostanza, posso sostenere che quandanche ci si trovasse in regime di concorrenza imperfetta un certo grado di monopolio non sarebbe eliminabile del tutto perché nel mercato non c’è parità di posizioni neanche dal lato dell’offerta. E quindi si tratta di capire quale grado di monopolio un’AAI può tollerare senza danneggiare gravemente le altre imprese e i consumatori finali. Ma capire questo richiederebbe analisi complesse e raffinate che non vengono fatte. Ma una risposta di buon senso c’è. Se come in America anche in Italia la classe media si è impoverita, se i ricchi sono diventati sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, nonostante i trasferimenti dello Stato sociale, si vede che le regole del mercato sono costruite in modo tale che favoriscono la minoranza dei ricchi a danno della stragrande maggioranza della popolazione.
Il sistema Italia non funziona per la qualità della classe dirigente in generale, di quella politica in special modo e delle istituzioni che essa anima. Al di là delle regole del mercato, possiamo dire che la produzione legislativa di tipo alluvionale, sussultoria, per stratificazione continue produce un ammasso di regole scritte confuse, contraddittorie e a volte indecifrabili che non di rado rimangono sulla carta. Come disse a suo tempo Piero Calamandrei, la stessa Costituzione resta un pezzo di carta inerte se non trova le gambe su cui camminare. Ora le regole scritte nelle leggi restano dei pezzi di carta se, a monte, esse non sono permeate da una etica pubblica condivisa, ossia, da un sistema di valori e doveri condivisi dalla stragrande maggioranza dei cittadini.
Il libro del Prof. Tanzi racconta innumerevoli episodi che corroborano questa tesi e venendo da un economista di fama internazionale, guadagnata non solo con gli scritti scientifici ma anche con l’esperienza operativa in giro per il mondo con il FMI, merita di essere letto e attentamente meditato da chi ha a cuore il bene dell’Italia.