Il mio amico Carlo Clericetti riprende il discorso del rapporto tra Stato e regioni e la situazione di disomogeneità tra Regioni a statuto ordinario (RSO) e quelle a statuto speciale (RSS). La riforma Renzi non toccava questo punto e alcuni giuristi hanno criticato questa scelta perché, a loro giudizio, veniva a creare una situazione di disparità non solo con riguardo alle competenze e alle risorse assegnate ma anche con riguardo all’attuazione dei diritti fondamentali dei cittadini. Il secondo punto riguarda il riparto delle competenze in alto tra i governi sub-centrali dei Paesi Membri e quello centrale dell’Unione europea.
Sono questioni complesse che la propaganda renziana non ha chiarito e su cui conviene ritornare. Parto dalla questione delle RSS. Va premesso che ad es. lo Statuto della Regione Sicilia è stato emanato con regio decreto luogotenenziale 15-05-1946 n. 455, prima che si tenesse il referendum del 2-06-1946 che vide prevalere la Repubblica sopra la monarchia e ancora prima che venisse approvata la nuova Costituzione entrata in vigore nel gennaio 1948. Il regio decreto fu quindi convertito in legge costituzionale 26-02-1948, n. 2. Il motivo? dopo lo sbarco degli alleati in Sicilia si venne a creare un forte movimento secessionista che addirittura teorizzava l’adesione alla Federazione nord-americana. Sulla scia dell’esempio siciliano, seguirono altre regioni di confine con situazioni politiche ed economiche particolarmente delicate come la Val d’Aosta, Il Trentino-Alto Adige, il Friuli Venezia-Giulia e la Sardegna. C’erano spinte secessioniste in alcune di queste Regioni e la risposta fu intelligente e flessibile: no alla repressione fascista e/o agli spostamenti di popolazioni ad esempio in Alto Adige per riequilibrare la composizione della popolazione ma Statuti che consentissero una maggiore autonomia negli affari regionali e che valorizzassero elementi specifici della cultura locale. Nella tanto vituperata riforma del Titolo V del 2001 era stato inserito nell’art. 116 su richiesta della stesse regioni il principio della geometria variabile secondo cui in fase attuativa sarebbe stato possibile attribuire competenze diverse a diverse regioni secondo la loro autonoma richiesta e capacità di svolgere le funzioni. Tale principio nella riforma Renzi è stato mantenuto sia pure condizionato al rispetto del bilancio in pareggio come se questo vincolo non dovesse vale per le altre regioni. Purtroppo come noto, l’attuazione del Tit. V è rimasta per strada e la sua mancata coerente attuazione è stata spacciata fraudolentemente come il fallimento di una riforma concepita e scritta male. Resta vero che 4-5 competenze concorrenti hanno forte valenza nazionale e possono essere trasferite alla competenza “esclusiva” dello Stato ma si tratta di materie su cui non si può trascurare l’intesa con le regioni e gli enti locali interessati. Un esempio estremo vale a chiarire il concetto: una autostrada europea non può attraversare o passare sopra la piazza di un centro storico. De Siervo, presidente emerito della Corte costituzionale, il prof. Cerulli Irelli che ha avuto un ruolo non secondario nella formulazione delle norme del Titolo V novellato nel 2001 confermano la falsità dell’argomento che i maggiori poteri delle regioni siano stati alla base della crescita del contenzioso su conflitti di attribuzione. Lo confermo anche io. La causa principale è stata il comportamento del governo nazionale che, nonostante la riforma, ha continuato a legiferare come se detta riforma non ci fosse stata. Non ultimo all’assegnazione delle più ampie competenze non è seguita l’assegnazione di maggiori risorse finanziarie attraverso trasferimenti né il rafforzamento dell’autonomia che, in termini percentuali, è rimasta sempre al disotto di quella dei Comuni prima che il governo centrale abolisse l’IMU sulla prima casa. Anche a questo riguardo è stata sempre sollevata la questione della disparità di trattamento con le RSS che in base agli accordi istitutivi hanno sempre goduto di maggiori risorse proprie. Sprechi a parte, è chiaro che se devo svolgere più funzioni devono avere maggiori risorse, ma la mentalità codina di certi giuristi ha sempre criticato la geometria variabile che, inevitabilmente, c’è in Italia, nella UE ed è destinata a rimanere. C’è una causa profonda di natura culturale che spinge molti italiani a propendere verso il “culto della uniformità” su cui, per ragioni di spazio, rinvio al bel saggio di Cesare Pinelli (1995). Gli italiani non amano la diversità.
Venendo al punto due, con tutto il rispetto delle idee altrui, quella in difesa delle sovranità nazionali mi sembra una battaglia di retroguardia. Viviamo in un mondo globalizzato e/o di forte interdipendenza. L’Italia è a pieno diritto e per sua libera scelta inserita nel processo di integrazione europea che ha garantito 70 anni di pace. Ci sono molti problemi in detto processo a partire dal grande deficit democratico all’interno delle istituzioni europee. Ma c’è anche ancora più in alto al livello delle istituzioni della Nazioni Unite. PQM c’è una deriva autoritaria e tecnocratica all’interno della verticalizzazione dei processi decisionali sui quali un singolo Paese non può incidere significativamente. PQM il discorso della salvaguardia della democrazia non passa solo all’interno di un singolo Paese ma va affrontato in Italia, in Europa e nel mondo. Anche per gli Stati di piccola e media dimensione vale la logica dell’azione collettiva. So che mi sto ripetendo ma non vedo altre soluzioni.
Note: Pinelli Cesare (1995), “Del culto per l’uniformità in Italia. Il caso della finanza regionale”, estratto dal volume: Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, Cedam, Padova, pp. 391-416;
Enzo Russo, (2013), “Il sentiero sempre più stretto della democrazia di bilancio”, in Rivista Giuridica del Mezzogiorno, n. 4/2013: pp. 903-918,
Per approfondire vedi: Complex Sovereignty and the emergence of transnational Authority, in Edgar Grande – Lews W. Pauly editors, Complex Sovereignty. Reconstituting Political Authority in the 21st Century, University of Toronto Press, Toronto, 2005.
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