Nei documenti dello scorso febbraio della Commissione europea uno dei problemi più gravi segnalati è quello della disoccupazione di lungo termine che è troppo elevata ed è destinata a rimanere tale anche quella giovanile e 1,2 milioni di NEET. In termini burocratici segnala che il tasso di disoccupazione si è più che raddoppiato durante la crisi raggiungendo il picco del 12,5% nel 2014 precisando che la disoccupazione di lungo termine è aumentata regolarmente per tutti i gruppi di età. Come vanta il governo l’economia ha ripreso a crescere nella seconda meta dello stesso anno ma in due è più il recupero in termini di occupazione si è tradotto nell’abbassamento di circa un punto. Durante la crisi c’è stato un certo recupero del tasso di partecipazione ma l’Italia rimane nelle posizioni più basse. Come noto, il rischio di esclusione dal mercato del lavoro ha toccato un picco del 43,1% e ha costretto diverse centinaia di migliaia di giovani anche qualificati a cercare lavoro e lavoretti in altri paesi dell’Unione impoverendo il capitale umano del paese d’origine. La Commissione annota che il più alto tasso di partecipazione fa ben sperare in una maggiore occupazione nel medio termine ma, nel breve termine, questo implica un tasso di disoccupazione alto stimato al di sopra dell’11% sia nel 2017 che nel 2018 per via della bassa crescita del PIL. Se così diventa sempre più arduo affrontare il problema della partecipazione femminile al mercato del lavoro. Come noto questo tasso in Italia si è stabilizzato attorno al 50 per cento della popolazione tra i 20 e i 64 anni, rispetto ad una media europea del 64%. E siccome non è prevedibile realisticamente un forte aumento di tale tasso, ciò renderà impossibile raggiungere il del 75% del tasso di occupazione complessiva stabilito nell’ambito della strategia Europa 2020.
Anche se la Commissione non menziona alcuna responsabilità propria e/o di altre istituzioni europee al riguardo, si tratta di un’analisi impietosa alla quale il governo italiano contrappone altri numeri spesso relativi a periodi temporali diversi o vere e proprie favole che confondono il lettore comune. Nel DEF il governo afferma che al punto di minimo del 2013 il numero degli occupati è aumentato di 714 mila unità, che le condizioni del mercato del lavoro sono migliorate anche per effetto delle misure annesse e connesse al Jobs Act, che c’è stata una contrazione del numero degli inattivi e dei disoccupati, che è calato il ricorso alla Cassa integrazione guadagni e che nel 2016 sono aumentati i consumi dell’1,3%.
Secondo il governo, “nel 2016 la riforma del mercato del lavoro ha già manifestato i suoi effetti positivi: l’occupazione è in crescita, la qualità del lavoro è migliorata e si offrono nuove opportunità professionali e certezze ai lavoratori. Anche l’occupazione giovanile inizia a migliorare e l’operatività delle nuove politiche attive – accompagnate da un importante sforzo d’incentivo mirato per giovani e donne – rafforzerà il processo d’inclusione nel mercato del lavoro….. Sono operative l’ANPAL, agenzia che coordina i servizi per il lavoro e le politiche di attivazione dei disoccupati, l’alternanza scuola-lavoro ‘rafforzata’ (400 ore di alternanza annue) e il contratto di apprendistato di primo livello (PNR17:18 e 89).
Peccato per il governo che almeno gli italiani intervistati, a quanto pare, non cascano nella trappola e non si lascino illudere dalla bella narrazione del governo. Secondo il recente sondaggio dell’Osservatorio sul capitale sociale di Demos-Coop per Repubblica, infatti, il Jobs Act per il 32% degli intervistati ha peggiorato la situazione; per un altro 32 % è troppo presto per vederne i risultati; per il 67% è aumentato il lavoro nero e per il 75% è aumentato il lavoro precario e la situazione peggiorerà ulteriormente dopo l’abrogazione dei voucher. Quest’ultima percentuale tocca l’82% per i giovani-adulti (25-34 anni), che non riescono ad affrancarsi dalla famiglia. La percentuale sale sino all’84% tra quelli che ritengono che i giovani avranno pensioni molto basse. Non ultimo, non sorprende che il 71% degli intervistati ritengano necessario ripristinare l’art. 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori.
Nel DEF, di tutto si parla quasi sempre al futuro tranne che per la creazione di posti di lavoro da parte del governo ai vari livelli centrale e sub-centrale attraverso un vasto programma di investimenti pubblici per la manutenzione ordinaria e straordinaria di strade dissestate, ponti e cavalcavia per la messa in sicurezza di scuole ed edifici pubblici, per provvedere a pericolose situazioni di dissesto idrogeologico, per la ricostruzione delle aree terremotate, ecc. – come proposto dal FMI e dall’OCSE. Una osservazione critica merita l’enfasi che il documento pone sulla recente attivazione (novembre 2016) dell’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro. Un’agenzia nuova che dovrà andare incontro ad un periodo di addestramento e che ha davanti a se l’arduo compito di coordinare le strutture regionali con scarse dotazioni di risorse. L’osservazione è che puoi avere le migliori strutture per le politiche attive di lavoro ma se non c’è nessuno – non le imprese private, non l’operatore pubblico ai vari livelli – che crea nuovi posti di lavoro o se la domanda di lavoro è insufficiente ad assorbire l’offerta abbondante, i disoccupati rimarranno tali e/o aumenteranno gli inattivi, gli scoraggiati quelli che non cercano lavoro perché sanno che non se ne trova. Un paese che accetta un tasso di disoccupazione superiore all’11% ed un tasso di inattivi pari o superiore a quello dei disoccupati non può avere un futuro roseo davanti a se checché ne dica il governo.
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