Con l’inizio delle elezioni primarie per la scelta del candidato alle elezioni presidenziali USA del prossimo novembre, i repubblicani hanno rispolverato la vecchia proposta di un’imposta ad aliquota costante (flat rate tax). Dopo poche settimane la proposta è rimbalzata in Italia ed anche qui si è sviluppato un certo dibattito che conviene esaminare.
Si tratta di un’imposta ad aliquota nominale costante (fissa) ma non di un’imposta unica come qualche inesperto commentatore ha ritenuto. Un’imposta ad aliquota costante tassa con la stessa aliquota proporzionale il reddito superiore ad un dato livello. Di nuovo, conviene precisare che si tratta di imposta progressiva sia pure di una forma molto limitata di progressione come quella per detrazione. Quindi non è un’imposta ad aliquota unica. Solo l’aliquota nominale è tale.
La proposta repubblicana è stata elaborata da un gruppo di esperti, nominato nel maggio 95 dai parlamentari Gingrich e Dole, leaders del partito repubblicano, e presieduto da Jack Kemp.
Si tratta di una versione di IAC che colpirebbe il reddito consumato. L’idea è sempre quella degli economisti c.d. offertisti (supply siders) che vogliono imposte molto basse per chi investe e per i ricchi; vogliono ridurre i costi di gestione del sistema che, secondo alcuni esperti, si aggirano ormai sui 100 miliardi di dollari all’anno; vogliono togliere molto del potere discrezionale allo Internal Revenue Service – l’equivalente del nostro ministero delle finanze; vogliono eliminare i principali varchi elusivi che sono rimasti dopo la riforma del 1986.
L’IAC pura è un modo di tassare il consumo a livello delle famiglie e delle imprese.
Se il consumo è uguale al reddito meno il risparmio, un’imposta sul reddito consumato tasserebbe il consumo a livello delle famiglie; un’imposta sul valore aggiunto lo tassa a livello delle imprese; la IAC combina i due schemi; il reddito da lavoro verrebbe tassato nella sede di destinazione: la famiglia; il reddito di capitale sarebbe tassato alla fonte nel luogo dove si forma: l’impresa.
Questa parte della IAC è simile all’imposta sul valore aggiunto. Simile perchè dai ricavi le imprese dedurrebbero non solo il costo dei beni intermedi e gli ammortamenti ma anche il costo del lavoro (i salari); i salari appunto verrebbero tassati con la stessa aliquota una volta che raggiungono i destinatari; anche la IAC può essere resa progressiva prevedendo delle deduzioni graduate secondo la composizione del nucleo familiare.
Stime fatte ipotizzano che con un’aliquota del 19% si possono esentare i consumi di 28 mila dollari di una famiglia di 4 persone; questo schema consentirebbe un’aliquota media effettiva crescente per tutti al crescere del reddito che è la caratteristica fondamentale della progressività.
L’attuale sistema invece presenta diverse funzioni di progressività per diversi contribuenti; i vantaggi della proposta sono sintetizzati in: a) meno distorsioni; b) maggiori incentivi al risparmio; c) aliquote marginali meno elevate; d) grande semplificazione; la dichiarazione dei redditi potrebbe essere contenuta in un modello della dimensione di una cartolina postale.
I contribuenti dovrebbero individuare solo due variabili: il reddito esente e l’imposta dovuta; il sistema tributario sarebbe progressivo solo dove è necessario che lo sia, ossia, nella ramo basso della scala distributiva.
In realtà le cose sono meno semplici di quanto si vuole far apparire perchè a livello delle famiglie e soprattutto delle imprese rimangono non facili problemi di definizione del risparmio e del consumo e, quindi, di controllo ed accertamento.
I fautori di questa proposta sostengono che l’eliminazione delle aliquote marginali più elevate, che caratterizzano le imposte progressive per scaglione, riducendo fortemente il grado di progressività dell’attuale income tax americana, taglierebbe l’erba sotto i piedi ad ogni comportamento elusivo; eliminerebbe l’interesse ad approfittare delle scappatoie che le complesse legislazioni sull’imposta sul reddito consentono più o meno in tutti i sistemi di imposizione sul reddito che sono in vigore nei paesi occidentali. Non ci sarebbe ragione di suddividere il reddito su più teste. Si eliminerebbe ogni problema di distribuzione del reddito su più anni per evitare il maggiore onere conseguente all’addensamento in un anno dei redditi percepiti.
Non ci sarebbe spazio – o quanto meno sarebbe drasticamente ridotto – per i c.d. arbitraggi fiscali che si verificano invece con la progressività per scaglioni. Vedi, ad. es., la distribuzione degli utili di impresa attraverso gli interessi pagati sulle obbligazioni sottoscritte dagli stessi azionisti di società a base ristretta; la convenienza dei soggetti con aliquota marginale più elevata ad indebitarsi con soggetti con aliquota marginali più basse, ecc..
Così strutturata l’imposta ad aliquota costante presenta numerosi vantaggi amministrativi.
Abbiamo detto che con la IAC è indifferente l’attribuzione del reddito a Tizio o a Caio.
La circostanza facilita enormemente gli aspetti amministrativi della riscossione. Il reddito può essere tassato alla fonte ancor più agevolmente; si ridurrebbero così i costi di adempimento dei contribuenti; e ciò potrebbe aumentare il grado adesione volontaria.
Si faciliterebbe anche la tassazione dei benefici accessori tipo assicurazione pagate dal datore di lavoro perché la ritenuta alla fonte sarebbe sempre la stessa. Il trattamento non sarebbe differenziato a seconda dei beneficiari.

Notevoli semplificazioni si realizzerebbero anche nell’integrazione tra imposte sulle persone fisiche e quelle sulle imprese. Nello schema americano l’imposta ad aliquota costante sostituirebbe le due principali imposte quella sul reddito delle persone fisiche e quella sul reddito delle società.
Qui conviene mettere in evidenza una forte differenza che c’è tra il sistema economico nord-americano e quello nostro; da noi c’è una fortissima presenza di piccoli e medi imprenditori (circa quattro milioni di soggetti organizzati per lo più in società di persone, imprese familiari, ditte individuali). Come noto, per questi ultimi soggetti, la tassazione del reddito di impresa avviene in regime di piena integrazione con l’imposta personale sul reddito; un conto è quindi ragionare con una struttura produttiva fondata sulle public companies e con azionariato di massa ed un altro è ragionare con quattro milioni di piccoli e medi imprenditori.
Mentre le società di capitali assicurerebbero una tassazione alla fonte degli utili distribuiti alle famiglie, bisognerebbe studiare un sistema che assicurasse la stessa possibilità per le società di persone per le quali, oggi, come detto, vige il principio della trasparenza, secondo cui il reddito prodotto si assume distribuito ai soci e viene tassato in testa agli stessi con le relative aliquote dell’imposta personale.
Si osserva che le società di persone che reinvestono gli utili all’interno dell’impresa andrebbero esenti per la quota di utili reinvestita. Si propone di tassarle al momento in cui cedono l’impresa magari per causa di successione. Questo comporterebbe, come attualmente, irrisolti problemi di valutazione del patrimonio netto di dette imprese e in ogni modo un forte differimento al futuro degli oneri dell’imposta.
In questo modo l’IAC non sarebbe neutrale con i risparmi investiti in società di capitali e gli utili reinvestiti nelle società di persone e nelle ditte individuali. Ci sarebbe un effetto d’immobilizzo in queste ultime e non nelle prime. Il sistema non sarebbe nè efficiente nè equo. In termini comparativi, rimarrebbe la discriminazione contro il risparmio investito nelle società di capitali.

Con riguardo agli aspetti redistributivi, in linea teorica, c’è compatibilità tra IAC ed equità.
Basta manovrare sul livello delle detrazioni: tanto più alte e opportunamente graduate le detrazioni quanto più l’onere della IAC graverà sui più ricchi.
Già prima della riforma del 1986, un economista americano Hausman sosteneva che l’introduzione della IAC avrebbe comportato una riduzione dell’aliquota media effettiva per tutti ed un netto miglioramento dell’efficienza allocativa. L’assunto era ed è che la riduzione delle distorsioni e degli effetti di disincentivo delle alte aliquote marginali avrebbe indotto un aumento generalizzato dello sforzo di lavoro. L’incremento del reddito prodotto sarebbe stato tale da compensare ampiamente la riduzione delle aliquote. Tuttavia i risultati delle verifiche empiriche di Hausman non erano e non sono accettati da tutti.
Ed invero la stessa esperienza Usa della riforma del 1986 dimostra che il previsto aumento del gettito non c’è stato e che il deficit di bilancio si è allargato e, tuttora, costituisce un problema irrisolto. Infatti chi ritiene rigida l’offerta di lavoro svaluta l’importanza del fattore fiscale; chi invece pensa che l’offerta di lavoro sia elastica, tra l’altro teme che per mantenere alta l’esenzione iniziale si debba alzare consistentemente l’aliquota media effettiva sui più ricchi e quindi ridurre le possibilità di manovra.
Non solo ma il problema redistributivo non si pone solo tra i più ed i meno ricchi ma anche tra i più ricchi e la classe media; se fatta a parità di gettito, la riforma comporta maggiori oneri per la classe media; tutto quello che pagano in meno i più ricchi deve essere pagato dalla classe media.
Forse questa è la difficoltà più grossa di attuazione della IAC anche alla luce del teorema dell’elettore mediano i cui interessi sono tenuti nella più attenta considerazione da parte degli opposti schieramenti.
I Repubblicani che nel 1996 tornano a rilanciare la proposta avranno un bel da fare a spiegare questo tipo di operazione ai loro elettori.
Altri ritengono che l’income tax uscita dalla riforma tributaria del 1986 costituisca in buona sostanza una versione modificata della IAC ma che le modifiche apportate al modello abbiano fatto perdere i più importanti vantaggi dello stesso.
I due economisti americani Hall e Rabushka, che nel 1983 e ’85 avevano formulato le proposte più analitiche e che perciò sono considerati i padri della IAC, insistono perché si adotti la versione pura.
Il vantaggio principale di una tale versione è quello di mettere in chiaro il livello di solidarietà che le classi abbienti sono disposte a pagare, ma non basta. Se definiamo i principali obiettivi di ogni sistema tributario in termini di capacità di assicurare: a) il gettito necessario; b) una certa redistribuzione; c) il finanziamento dei bisogni meritevoli (merit goods), vediamo che il problema si complica. Quello che è meritevole per alcuni non lo è per altri; è meritevole per alcuni sussidiare le spese per la ricerca e lo sviluppo; è meritevole per altri sussidiare l’acquisto della casa; per l’economista è facile sostenere che bisogna tagliare le agevolazioni, per il politico è ben difficile spiegare alle famiglie che non potranno più dedurre gli interessi sul mutuo per la casa.
Queste deduzioni menzionate sono proprio quelle che provocano una forte erosione della base imponibile dell’income tax americana.
Allora si ritorna al problema non facile di definire che cosa è equo, e al grado di intervento dello stato nell’economia; e qui le opzioni ideologiche, le visioni della giustizia sociale tornano ad occupare il centro della scena.
Per i politici ogni nuova proposta di spesa sarebbe più difficile da far passare perchè dovrebbero convincere le classi medie della necessità di aumentare l’aliquota.

Nonostante alcuni meriti della proposta, le possibilità che essa sia approvata sono molto esigue per quattro motivi di ordine politico:
1) i primi beneficiari della IAC sono i più ricchi e questo è difficile da far digerire non tanto ai poveri quanto alla classe media;
2) la IAC su base consumo inoltre tassa più pesantemente le persone anziane che, per lo più, consumano tutto quello che ricevono ; in effetti molte di esse consumano più del loro reddito perchè disinvestono; loro pagherebbero di più; per contro, attualmente, molti sistemi tributari prevedono agevolazioni per le persone anziane;
3) l’esenzione totale del reddito risparmiato e reinvestito è difficile da giustificare in termini comparativi; 40 milioni di consumi vanno tassati 40 milioni di risparmi vanno del tutto esentati;
nello schema proposto questo in realtà si verifica solo per chi reinveste nella propria azienda; mentre chi riceve un reddito di capitale è tassato alla fonte;
4) c’è la questione delle contribuzioni sociali; se i repubblicani vogliono eliminare le imposte sulle imprese, perchè, allora, non si dovrebbero eliminare anche le contribuzioni sociali che colpiscono i salari? L’obiezione – si osserva – non è fondata perchè a fronte delle contribuzioni sociali ci sono i benefici della sicurezza sociale;
ma la logica economica non sempre prevale sulle argomentazioni di tipo di politico;
5) non ultimo la proposta lascia nell’ambiguità o irrisolto il problema dei poveri. E’ vero si propongono generose detrazioni sino a 36-38 mila dollari per una famiglia di quattro persone ma per le famiglie che hanno un reddito; non si propone niente per assicurare lo stesso livello di benessere alle famiglie che non hanno redditi da esentare. Si dice che l’IAC colloca la progressività dove è importante che stia, ossia, nelle fasce medio-inferiori di reddito, ma ci deve essere un reddito. Se il reddito non c’è, allora il governo dovrebbe prevedere dei consistenti sussidi.
Su questo punto i repubblicani neo-liberisti USA non hanno una proposta coerente. Al contrario litigano con il Presidente Clinton perchè non accetta i tagli alla spesa sociale che essi propongono.
6) un altro motivo per cui la proposta repubblicana ha scarse possibilità di essere adottata negli USA e, a maggior ragione, in Europa sta nella circostanza che tutto il sistema delle convenzioni internazionali è costruito sul concetto ibrido di reddito prodotto-entrata. Piaccia o no, questo costituisce un vincolo sempre più stringente in un mondo di forte interdipendenza tra le principali economie del mondo, in un contesto di globalizzazione dei mercati e di crescente mobilità dei capitali e delle persone, per non parlare dei vincoli di armonizzazione fiscale che abbiamo sottoscritto con gli altri paesi dell’Unione europea.

E’ stato detto che adottare un’imposta sul reddito consumato ad una o più aliquote sarebbe una rivoluzione che sconvolgerebbe gli attuali ordinamenti tributari. E’ vero ma, sfortunatamente o meno, a seconda dei punti di vista, una simile rivoluzione non può essere fatta da un solo paese. O i principali paesi coordinano le loro azioni e concordano anche un periodo di transizione oppure l’azione isolata di qualcuno o alcuni di essi determinerebbe tensioni nel sistema.
E’ questa una ragione non secondaria per cui nonostante l’eleganza, l’efficienza ed altri meriti dell’imposta sul reddito consumato, nessun paese al mondo mi risulta che l’abbia adottata in tempi recenti, se si escludono i due esperimenti falliti di India e Ceylon degli anni ’50.
Per questi motivi, se c’è – come c’è – un problema di riforma del sistema tributario, sarebbe bene evitare le fughe in avanti, i viaggi nel futuro e guardare ad esperienze più realistiche come quelle in corso in alcuni paesi scandinavi che proprio nel momento del loro ingresso nell’Unione europea, hanno adottato un c.d. imposta duale (dual income tax), un’imposta che prevede un regime di progressività attenuata per i redditi di lavoro e di proporzionalità per quelli di capitale. Una proposta allo stato superiore anche dal punto di vista dell’equità e che non è difficile innestare sull’attuale sistema. Il che non è poco.

26.02.96
* Seguendo il dibattito sulla flat rate tax – per alcuni versi ingannevole e deviante nella proposta rincipale avanzata da N. Rossi – mi sono ricordato di un mio scritto indedito di 21 anni fa (febbraio 1996)- che commentava la proposta del Partito repubblicano Usa in vista delle elezioni presidenziali del novembre dello stesso anno che confermarono Clinton per un secondo mandato. Lo propongo tale e quale riservandomi di integrarlo ed aggiornarlo in relazione ai problemi del nostr sistema tributario ed alcu i spunti emersi dall’attuale dibattito estivo in vista delle prossime elezioni in vista delle quali con scarso senso di responsabilità molti politici parlano di taglio delle tasse.