I socialisti e il sindacato

Il Prof. Ciccarone presidente della FGB che ha presentato la collana diretta dal prof. Bartocci ha detto che non si tratta di una nuova storia del PSI. Secondo me, ha ragione nel senso che non è solo una storia del sindacato italiano ma anche di tutti i partiti e, quindi, dell’Italia 1943-83 con particolare riguardo al periodo in cui si sviluppa il travagliato processo unitario. Un processo difficile perché, in fatto, al di là delle prese di posizione ufficiali, l’obiettivo dell’unità sindacale aveva tutti i partiti contro (28) (tranne il PSI). E perché li aveva contro? Perché in un periodo in cui infuriava non solo la guerra fredda ma anche quella calda (Vietnam) il processo unitario del sindacato, secondo alcuni, implicava lo sconvolgimento degli equilibri politici e sociali del paese.
Enzo Bartocci, curatore del volume, vede i seguenti sotto-periodi: il periodo dell’immediato dopoguerra 1946-56 dei governi centristi; il periodo 1957-76 che vede i tentativi e, poi l’effettiva apertura a sinistra della DC con tutte le traversie che lo hanno caratterizzato e, quindi, la fine del centrosinistra; il terzo sotto-periodo 1977-83 che va oltre il centro-sinistra e il governo di solidarietà nazionale per arrivare al c.d. CAF (intesa tra Craxi, Andreotti e Forlani) durante il quale si abbandona il processo unitario.
Come noto, già durante l’occupazione e l’amministrazione da parte degli alleati delle amlire e, in tutto il dopoguerra, anche per iniziativa degli Americani, viene rilanciato il discorso prima di piani settoriali per potere importare materie prime necessarie alla ripresa dell’attività produttiva e, poi, programmi economici generali per potere fruire degli aiuti prima del Piano Marshall e poi dalle Agenzie specializzate delle Nazioni Unite.
Non casualmente venivano formulati nell’ottobre 1948 il piano Tremelloni (1949-53) e, alla sua scadenza, il c.d. Schema Vanoni decennale 1954-63. Nel 1949 anche la CGIL presentava il suo Piano del Lavoro. Ricordo questi fatti per confermare la tesi che, in quella fase storica, la programmazione come metodo di governo non era solo “una imposizione dall’esterno e/o dall’alto ma un fatto importante della cultura di governo che aveva solidi agganci nella politica e nelle forze sociali – ovviamente non senza contrasti e contraddizioni circa gli obiettivi di medio e lungo termine che la programmazione dell’economia doveva conseguire.
Nella prefazione e nella lunga introduzione del ponderoso volume Enzo Bartocci dà conto, in modo articolato e approfondito, del dibattito che si sviluppò nel Paese e nel sindacato e che vide un ruolo di primo piano dei sindacalisti socialisti all’interno prima del sindacato unitario e poi delle tre Confederazioni.
Sulla base dei documenti esaminati Bartocci ci racconta come Riccardo Lombardi e Fernando Santi vedevano il sindacato come interlocutore privilegiato della politica della programmazione democratica. E, attraverso il ruolo attivo della CGIL nella elaborazione del programma, pensavano a “un coinvolgimento, sia pure indiretto, del PCI nella politica di rinnovamento, trasformazione e sviluppo del paese ….17
Bartocci cita anche Sergio Turone che nel suo saggio sulla storia del sindacato (1992: 74) riprende una lettera di Lombardi del 1946 in cui l’esponente socialista esorta il movimento sindacale ad uscire dalla politica rivendicativa del “giorno per giorno” e darsi un programma di ampio respiro nel quadro di una visione economica generale” (pp.92-94). Bartocci illustra quindi la posizione di Lombardi sulla programmazione sulla base di un suo intervento al Convegno organizzato dalla Commissione nazionale del lavoro di massa del 14-15 settembre 1955 dove prende posizione sul Piano Vanoni nel quale il Congresso di Torino del PSI aveva riconosciuto “il terreno più adeguato per una più chiara impostazione dell’apertura a sinistra” e sulla contrattazione aziendale . Vedi p. 94 del volume.
E così ci si avvicina ai primi anni ‘60 quando in vista della scadenza del Piano Vanoni si istituisce la Commissione nazionale per la programmazione economica prima presieduta dal prof. Ugo Papi con il compito di elaborare una proiezione dell’economia al 1970 e poi con il compito di elaborare il primo piano quinquennale di sviluppo. La Commissione era partecipata dalla presenza di rappresentanti delle parti sociali e il suo compito fu ispirato dalla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa presentata il 22 maggio 1962 come appendice alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese. Le condizioni necessarie per la partecipazione al governo erano state precisate da Lombardi nel suo discorso al Comitato Centrale del PSI del 9-11 gennaio 1962.
Quindi arrivano le elezioni politiche del 1963 ma prima ancora c’è la nazionalizzazione delle industrie elettriche-commerciali del dicembre 1962. Un’operazione di mera razionalizzazione del sistema di produzione e distribuzione dell’energia che, però, in vista delle elezioni politiche del 1963, viene strumentalizzata per sostenere la tesi della bolscevizzazione dell’economia italiana.
Il 1963 è anche l’anno in cui si manifesta un forte deficit nella bilancia commerciale per via di grosse importazioni di beni di consumo durevole dagli altri paesi della Comunità europea con la necessità di fare ricorso all’assistenza del FMI e, subito dopo, a quella della Commissione europea. A fronte dei ritardi e delle resistenze di quest’ultima la Banca d’Italia impone una forte stretta creditizia che interrompe il lungo processo di sviluppo dell’immediato dopoguerra e di tutti gli anni ‘50 e provoca anche un primo arresto del processo di accumulazione. Tra le misure correttive la Banca d’Italia propone il ricorso alla politica dei redditi come strumento per frenare la dinamica salariale che era alla base della forte crescita della domanda interna anche di beni importati. In quella fase del dibattito di politica economica, la politica dei redditi veniva percepita da alcuni esponenti della maggioranza come mero strumento di politica anticongiunturale e da parte dei sindacati come strumento lesivo della loro autonomia contrattuale. I risultati delle elezioni impongono alla DC una pausa di riflessione con il c.d. governo balneare di Giovanni Leone ma, già a dicembre, si ricostruisce il Centrosinistra con il primo governo Moro-Nenni (1963-64) e si riprende il discorso della programmazione.
Il 12 gennaio 1964 si formalizza la scissione dell’ala sinistra del PSI e la nascita del PSIUP. Ciononostante, (133) ancora sull’ Avanti dell’1-03-1964 Lombardi sosteneva sull’argomento della programmazione una posizione corretta come riferita da citazione di Bartocci, ossia: “una politica dei redditi, purché articolata e realistica, sia indispensabile in una economia che voglia mantenere un ritmo elevato di sviluppo al riparo dai fenomeni recessivi e inflazionistici”.
È quello che ho sempre sostenuto anche io: che le autorità di politica economica e finanziaria non hanno mai saputo conciliare il giusto bilanciamento tra le esigenze del processo di accumulazione e il controllo della congiuntura come non hanno mai saputo spingere l’economia verso il pieno impiego e la crescita sostenibile .
Ma il 1964 è l’anno in cui si sviluppa una forte reazione delle correnti democristiane contrarie alla politica della programmazione e al Piano proposto da Giolitti nella Primavera del 1964. La situazione si inasprisce anche per le difficoltà del governo di ottenere ulteriore assistenza dal FMI e dalla Commissione europea e dalle voci insistenti circa manovre e operazioni che preludono a un tentativo di golpe, ordito dal Presidente della Repubblica Antonio Segni. Si apre la crisi che viene prontamente risolta prontamente con il ritiro di Giolitti e la sua sostituzione con Giovanni Pieraccini al ministero del bilancio che viene chiamato a riscrivere il primo piano quinquennale.
In questi termini è fondata la tesi secondo cui il libro non è solo una nuova storia del PSI, e del ruolo dei socialisti all’interno del movimento sindacale ma anche un storia dell’Italia per l’ovvia ragione che occupandosi di programmazione e/o contrattazione salariale o di piattaforme rivendicative ad alto contenuto di riforme strutturali in realtà condizioni tutta l’attività e i programmi del governo. E d’altra parte nelle loro campagne rivendicative i sindacati non possono prescindere dalla situazione economica del Paese e dai programmi del governo che con il bilancio dello Stato ha gli strumenti fondamentali per condizionare le tre funzioni del bilancio dello Stato, ossia, l’efficiente allocazione delle risorse, la stabilizzazione del ciclo economico e la redistribuzione.
Alla presentazione del libro nella sede della Enciclopedia Treccani a Roma hanno partecipato Fausto Bertinotti, Gian Primo Cella, Piero Craveri, Adolfo Pepe. Vale la pena riportare alcune delle loro valutazioni sul libro.
Bertinotti
Definisce utile la ricerca ma parla di storia conclusa. Perché c’è stata la rottura di un modello. Partiti e sindacati del 900 sono finiti. Particolarmente preso dal discorso sulla sinistra operaista, afferma che questo capitalismo sarebbe sostanzialmente incompatibile con la democrazia. Il conflitto sociale era alla base delle lotte di quei tempi. Per questi motivi, è utile tornare ad arare quel terreno. Non è solo questione di memoria.
Elogia la CGIL come crogiolo di diverse culture sindacali. Parla di fase straordinaria degli anni 60. Parla di due invasori: 1) la cultura del primato della contrattazione e 2) il sindacato unitario FLM. Poi aggiunge anche il discorso dell’autonomia sindacale e delle proposte sulle forme di organizzazione della democrazia.
Cella
Dice che iI libro è leggibile ed importante. Chiede scusa per avere sottovalutato nel passato Il ruolo dei sindacalisti socialisti. Cita il libro omonimo di Forbice e Favero, Palazzi editore, Varese 1968, ed afferma che si è prestata troppa attenzione a Di Vittorio e Foa e troppo poco interesse per Fernando Santi, Piero Boni e Giacomo Brodolini. Secondo Cella quella del ruolo dei sindacalisti socialisti nel movimento sindacale non è stata una storia di successo.
Loda Bartocci per come ha ricostruito le vicende del sindacato socialista nella UIL e
Gabaglio per il pezzo sul distacco della CGIL dalla Federazione sindacale mondiale a guida sovietica FSM. Un travaglio durato 40 anni. Cita Giorgio Benvenuto per le sue osservazioni sulla cancellazione di Buozzi. Ricorda di aver visto ritratti di Bruno Buozzi più nelle sezioni sindacali della CISL che in quelle della CGIL. Definisce Giugni il protagonista fondamentale del sindacalismo socialista per 50 anni. Poi cita Momigliano per le sue approfondite analisi sulla programmazione e il ruolo dei sindacati. La cultura socialista non è riuscita a imporsi solo all’interno della CGIL ma è divenuta patrimonio di tutto il movimento sindacale. Parla di manuale Cencelli nell’assegnazione delle cariche.
Craveri
Parla della coda marxiana di Bertinotti. Cita un aneddoto che all’Orientale di Napoli. Tutti avevamo studiato Marx. Ma questi aveva sotto gli occhi la II rivoluzione industriale.
Oggi le imprese informatiche non si ricapitalizzano con i profitti accantonati ma attraverso la borsa che rivaluta il capitale iniziale. Tutte le tematiche operaiste del controllo operaio avevano a riferimento un modello di capitalismo che non c’era più. Dissente su diversi passaggi del libro.
Cita Loreto e anche il mio pezzo. Cita biforcazione tra la linea riformista e quella “massimalista”, ossia, quella che riteneva insuperabili le profonde contraddizioni del capitalismo e, quindi, inevitabile la sua fine.
Definisce il libro lombardiano. Perché R. Lombardi concepisce un riformismo rivoluzionario se il “piano che possiamo accettare ….è quello che dimostri di essere uno strumento adeguato per influire nel processo di accumulazione in modo da spostare, gradualmente, certo, ma lungo una linea di sviluppo irreversibile, i poteri decisionali trasferendoli dalla classe capitalistica alla collettività dei lavoratori” (citazione da Bartocci, p. 135).
Osserva che i modelli ante e post 1968 sono modelli di democrazia diretta. I quali funzionano bene in ambiti ristretti e nel breve termine.
Sull’unità sindacale dice che fu fenomeno limitato alla FLM.
Critica anche il saggio di Treu e dice che CISL e UIL erano organizzazioni fortemente anticomuniste. Ricorda che quando Benvenuto gli propose di presiedere il CREL (centro ricerche sull’economia e il lavoro) chiese consiglio a Carniti e questi gli disse di accettare per rafforzare la componente anticomunista. Ma Italo Viglianesi sindacalista all’americana, non poteva creare un sindacato sulla base di due piccoli partiti socialisti.
Pepe
Loda il libro e la cultura riformista socialista perché da un lato la dirigenza confederale della CISL era guidata dalla gerarchie ecclesiastiche, dall’altro lato, la CGIL era fortemente influenzata dal PCI. Cita l’ultima frase della prefazione di Bartocci: “Con il collasso della prima Repubblica e con il coinvolgimento di molti dirigenti socialisti – ad iniziare dal segretario – nelle inchieste giudiziarie, si chiudeva, ad un secolo dalla nascita, la parabola del PSI e si concludeva il suo rapporto con il mondo del lavoro e con la sua rappresentanza sindacale”. Prima il socialismo era doppiamente rappresentante del mondo del lavoro. I socialisti avevano la rappresentanza politica e quella sociale.
Riprende il saggio di Loreto che parla di tradeunionismo militante ma il modello inglese è diverso. Nel Regno Unito le Trade Unions erano egemoniche nel mondo del lavoro..
Cita programma di Modena 1908 che riprendeva le raccomandazioni del Congresso della II internazionale, Stoccarda del 1907, secondo cui gli strumenti del movimento operaio erano due: il partito e il sindacato. Partito del lavoro poi non si farà. Ma questo è nel codice genetico socialista.
Bartocci
Ringrazia i 4 relatori. Dice che le loro suggestioni evocano questioni non solo italiane nella fase attuale del capitalismo. Il sindacato nasce nella società industriale dei paesi dell’Europa occidentale. Si sofferma anche sulle posizioni contraddittorie interne al PSI. Ad esempio, sul programma della socialdemocrazia tedesca, Lombardi non demonizza le decisioni del Congresso Bad Gotersborg 1959 ma lo fa Nenni paradossalmente vedi l’Avanti! del 18 e 22 novembre 1959.
Cita di Marx una frase del libro sulle lotte operaie in Francia secondo cui, in quella fase storica, si stava rafforzando non solo il mondo del lavoro ma anche il capitale. E questa osservazione la dice lunga sulla capacità di analisi di certa sinistra in Italia nel periodo considerato.
Circa i ruoli rispettivi dei Partiti e dei sindacati, la mia valutazione è che anche questa affermazione va valutata nella prospettiva storica. Nei primi decenni del XX secolo dopo la forte crescita dei movimenti radicali e della forza del sindacato che si era realizzata nella seconda parte del XIX secolo in Europa la prospettiva rivoluzionaria aveva ancora un certo fascino. Infatti nel 1917 si realizza la rivoluzione sovietica. Nella fase storica del secondo dopoguerra si poteva concepire anche l’esistenza di una partito rivoluzionario ma difficilmente in Europa e negli Stati Uniti si poteva realisticamente pensare ad un sindacato rivoluzionario. Il sindacato per sua natura deve agire nel presente o, meglio, nel breve e medio termine anche se nessuno gli impedisce di avere una visione di medio lungo termine. Se l’obiettivo fondamentale è quello di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e di quelle diseredate deve sapere valutare come certi obiettivi fondamentali non sono realizzabili di un colpo solo e adottare, inevitabilmente, una strategia riformatrice che eviti la scelta tra tutto e il niente. Il sindacato quindi non può che essere riformista.
Lo ripeto, secondo me, il libro non è solo storia del sindacato italiano. È storia della Repubblica perché, come noto, si intreccia con la storia della DC e del PCI oltre che con quella del PSI e di altri partiti. Aggiungo ancora che non si può capire la storia del sindacato e della politica italiana in quel periodo se non si tiene conto della divisione del mondo in due blocchi, della Guerra fredda, e della collocazione geopolitica dell’Italia, della presenza nel Paese del più forte Partito comunista dell’Occidente, della posizione americana che consideravano i socialisti compagni di viaggio e/o alleati dei comunisti a livello locale e che volevano traghettarli anche nel governo nazionale. Da qui le pressioni per la delimitazione della maggioranza nei primi anni ’60, il rinvio dell’attuazione delle regioni a statuto ordinario deciso durante la crisi del 1964 e la tensione negli anni ’70 e i ricorrenti interventi per dividere il movimento sindacale.
Oggi non ci sono più i partiti di una volta che avevano visioni della società di largo respiro. Abbiamo leader dalla veduta corta il cui vero obiettivo è quello di prolungare il loro potere personale oltre una-due legislature. Oggi anche nel mondo del lavoro ci sono in corso processi di cambiamento molto veloci dovuti all’accelerazione della globalizzazione e alla rivoluzione digitale. Oggi più che mai vale la frase di Riccardo Lombardi (1946) sul ruolo del sindacato che non poteva limitarsi alla politica rivendicativa del “giorno per giorno” o di contratto in contratto. A fronte del forte declino della sinistra in Europa e negli Stati Uniti non so se sia il caso di tornare a teorizzare un partito del lavoro ma, di certo, anche il sindacato deve avere una veduta lunga se vuole veramente proteggere gli interessi e i diritti dei lavoratori. Negli anni 70 e 80 del secondo scorso fiorivano le analisi e le previsioni a lungo termine della società – megatrends, futuribili, ecc. – oggi prevale lo shortism. Ma accogliere la veduta corta è come navigare senza bussola, a vista. Finché le condizioni meteo sono buone e ci si limita alla navigazione sotto costa va bene ma quando si va in alto mare e si incontra una tempesta non solo serve la bussola ma bisogna essere adeguatamente attrezzati per resistere alle intemperie.
L’ultima osservazione riguarda la questione della compatibilità tra capitalismo attuale e la democrazia citata da Bertinotti. E’ innegabile che la democrazia sia sotto attacco continuo soprattutto dalla finanza rapace e dalle imprese capitalistiche fortemente finanziarizzate che non disdegnano di imporre le loro scelte ai governi e alle società in cui operano.
Wall Street – scrive Robert Reich – può comprarsi la maggioranza del Congresso e può essere determinante nella elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti. Ma il capitalismo e il potere della finanza sono riformabili. I paesi veramente democratici hanno tutti i poteri per farlo.

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