“L’effetto è nel presente che vivi; la causa nel passato”: da tempo si è bloccato il processo di accumulazione. Da qui la bassa crescita del reddito e della produttività. In questo post, recensisco il volumetto di Giuseppe Alvaro, Il sistema economico italiano. Dalla spirale del declino alla spirale della crescita, Tipolitografia CSR, Roma, 2008 che racconta con linguaggio piano il dramma dell’economia italiana degli ultimi 15 anni con affondi anche negli anni ‘70 e ’80.

Con dei semplici grafici GA illustra l’andamento negli ultimi 15 anni delle principali variabili economiche: PIL nominale e a parità di potere d’acquisto,  redditi di lavoro dipendente, dell’industria  nel suo insieme e di quella manifatturiera in particolare;  dà anche i dati e, questa volta, per un quarto di secolo degli investimenti fissi netti sul PIL ; dà per ultimi i dati sull’incidenza del prodotto dell’industria manifatturiera sul PIL al costo dei fattori. Che cosa dimostrano questi dati? Dimostrano quello che alcuni di noi, senza infingimenti e ipocrisie, chiamano il declino storico dell’economia italiana che si è accelerato negli ultimi 30 anni. Com’è spiegato tale declino in termini strettamente economici? Innanzitutto con il calo degli investimenti fissi netti sul PIL in generale e nel settore manifatturiero in particolare. Questi dati di base spiegano in grossa parte la bassa crescita del PIL e della produttività che, come noto, negli anni 2000 striscia attorno all’1%.

Su questa diagnosi non sembrano esserci molti dubbi. Ma questo come dice GA è l’effetto finale. Ma si tratta dell’unica causa? Evidentemente no  e lo stesso Alvaro ne elenca diverse: dalla finanziarizzazione del sistema – solo in parte contenuta dai provvedimenti di Visentini a metà anni ’80 – al malfunzionamento delle istituzioni, degli strumenti adottati o dall’assenza di politiche settoriali. Alcune delle  cause individuate sono appena evocate. Altre sono meglio analizzate. Nell’insieme il pamphlet dà una visione d’insieme condividibile.

Un’economia stagnante da un quindicennio non poteva non portare ad una riduzione del potere d’acquisto dei salari. Durante il quinquennio Berlusconi 2 la crescita è stata dello 0,70 medio annuo e i salari sono anch’essi rimasti al palo. Le retribuzioni lorde nell’industria e nei servizi secondo i dati resi noti dall’Istat il 14.03.2008 sono aumentate del 2,3 nel 2007 a fronte di aumento dell’indice dei prezzi al consumo dell’1,8%.   Ciononostante, tutta la tensione, a torto, si è scaricata sul Governo Prodi. In un paese occidentale avanzato la questione salariale è affare precipuo delle parti sociali ma l’Italia probabilmente non è più un paese avanzato e, quindi, paradossalmente, le stesse parti sociali nell’Inverno scorso hanno accusato il governo di non affrontare il problema e hanno ripetutamente minacciato lo sciopero generale. Senza rendersi conto che, in questo modo, contribuivano a indebolire il governo a cui non mancavano problemi propri. Caduto Prodi, la questione è divenuta materia di campagna elettorale e ne abbiamo sentito di tutti i colori. Realizzare – afferma G. Alvaro – un aumento del reddito spendibile attraverso una riduzione delle aliquote è diventata una priorità ineludibile e senza alternative”. Con qualche ritrosia mi associo all’idea ma purché sia chiaro di quali aliquote stiamo parlando. Veltroni del PD ha parlato di riduzione graduale delle aliquote Irpef un punto all’anno per tre anni di seguito, lasciando sostanzialmente immutato la struttura portante dell’imposta. Il PdL invece prospetta una riforma più drastica dell’imposta personale con la  introduzione del quoziente familiare alla francese. Questo divide il reddito familiare per un coefficiente che tiene conto della moglie e dei figli a carico, abbattendo sensibilmente la progressività.

Con grande disinvoltura, durante la campagna elettorale, i principali partiti hanno ignorato che siamo tuttora in balia di un doppio shock: uno da aumento dei prezzi delle derrate alimentari e l’altro da aumento del prezzo del petrolio. Di questo è avvertito G. Alvaro. Nei paesi in via di sviluppo aumentano i morti di fame. Nei paesi ricchi aumentano i prezzi e il disagio dei più poveri.  L’aumento dei prezzi delle derrate alimentari come del petrolio comporta un deflazione della domanda, un aumento dell’inflazione importata. Secondo gli ultimi dati di marzo la nostra inflazione tendenziale è salita al 3,6 annuo pari al livello della media europea. La tendenza all’aumento dei prezzi delle materie prime sembra destinata a durare riflettendo essa un fenomeno strutturale come l’utilizzo del grano, mais, riso, soia per produrre bio-carburanti. L’aumento di oltre il 40% del prezzo del petrolio è anche veicolo di diffusione del processo inflazionistico in quanto i maggiori costi del trasporto delle merci e delle persone contribuisce a far lievitare i prezzi di tutte le merci – anche di quelle non interessate da aumenti dei fattori produttivi impiegati all’origine.   È inoltre un fatto che una volta che si mette in moto un processo inflazionistico cost-push è molto difficile tornare indietro. Tenuto conto di questi elementi, a me sembra che lo strumento più immediato ed efficace quanto meno per compensare in parte l’aumento sia quello di una manovra sulle imposte indirette che incidono immediatamente sui prezzi più che una manovra sulle imposte dirette. La prima si fa con decreto legge mentre la seconda andrebbe  studiata bene e attentamente valutata. Per l’immediato bisogna agire sulle imposte indirette. A marzo il governo Prodi ha fatto un piccola manovra sull’imposta di fabbricazione sui carburanti tagliandola di due centesimi per litro. Alvaro  assegna al governo il compito di assicurare in questo modo l’invarianza dei prezzi di vendita dei prodotti derivati dal petrolio. Non credo che sia possibile assicurarla ma, certo,  bisognava e bisogna fare di più di quanto  è stato fatto finora.

Dopo questa parentesi sull’attualità, torno al passato e alla cause che hanno determinato il presente perché di questo si occupa il secondo capitolo dell’agile pamphlet di GA. Ciò che abbiamo é “un sistema economico e sociale inceppato. Immobile. Incapace di guardare al futuro”. Come detto, lo sguardo si rivolge anche al funzionamento delle istituzioni , della pubblica amministrazione, del Parlamento dei livelli di governo decentrati, ecc. Guarda all’assenza di politiche economiche per il Mezzogiorno, alla situazione di Napoli, della Campania e del Sud nel suo insieme. Spiega il disastro di Napoli con la deresponsabilizzazione. Per rispondere alle domande che Alvaro si pone o per discutere le risposte che egli si dà occorrerebbe ben altro spazio. Voglio fare solo una battuta sulla questione della deresponsabilizzazione  che, secondo me, è generale e interessa tutto il paese e tutte le istituzioni. I responsabili non vengono fuori perché ci sono poteri di veto non democratici. E se la giustizia si muove lentamente, la politica non si muove per niente.