E’ un vero ossimoro l’alleanza tra i sovranisti?

Da alcune settimana viene propalata l’idea che un’alleanza tra gli emergenti partiti populisti e sovranisti nella Unione europea (UE) sia un ossimoro perché per definizione i sovranisti pensano agli affari propri; sarebbero nazionalisti, isolazionisti e, quindi, non ci sarebbe molto da temere dalla rinascita di detti movimenti. Un governo sovranista pensa sempre a proteggere i propri interessi e per questo motivo non si alleerà mai con altri governi sovranisti. In altre parole si esclude che i governi sovranisti possano avere interessi comuni e si addita a riprova il fatto che tra i Paesi dell’eurozona nessun Paese del Gruppo di Visegrad o della rinnovata Lega Anseatica scandinava ha speso una parola a favore del governo italiano populista e sovranista che contesta alla radice le regole europee. Molti trascurano che la posizione assolutamente isolata dell’Italia nella UE possa discendere non dalla scarsa propensione dei sovranisti ad allearsi tra di loro – peraltro smentita dal fatto che già ci sono due Gruppi organizzati) – ma dalla totale incapacità diplomatica di questo governo populista e sovranista a trovare alleati in Europa neanche tra gli altri consimili governi.
A chi sostiene la tesi ottimista dell’ossimoro vorrei contrapporre due fatti storici. 1) le interdipendenze economiche su cui si basa l’approccio internazionalista e il multilateralismo lavorano anche a favore dei sovranisti, dei regimi illiberali e delle dittature vere e proprie. Scrivo di regimi illiberali per non parlare di democrazie illiberali – termine che secondo alcuni costituirebbe anch’esso un ossimoro. Il populismo sovranista degli anni ’20 e 30 in Italia e degli anni ’30 in Germania non ha impedito che Italia, Germania e Giappone si alleassero nel Patto d’acciaio o Asse. 2) Si stima che circa due terzi degli Stati membri delle Nazioni Unite siano regimi illiberali e in parte non trascurabile vere e proprie dittature. Questi impediscono alla massima organizzazione mondiale di lavorare per prevenire le guerre, di svolgere in maniera efficace il mantenimento della pace e, meno che mai, di promuovere la democrazia e il rispetto dei diritti umani.
PQM non vorrei che l’ondata di ottimismo – secondo me alimentata ad arte – ci portasse a sottovalutare i rischi seri e gravi che corre l’Unione europea a causa della rinascita dei movimenti populisti e sovranisti che insieme al neoliberismo minacciano la salute della democrazia liberale.
enzorus2020@gmail.com

In alcuni casi anche i ministri tecnici farebbero meglio se rimanessero silenti

Comunicato n. 180: Dichiarazione del Ministro Tria: “il tasso di crescita non si negozia”: il ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, smentisce voci e indiscrezioni apparse sui giornali secondo cui il tasso di crescita dell’Italia sia stato o sia oggetto di dibattito politico. Le previsioni di crescita sono infatti il risultato di valutazione squisitamente tecnica. Per questo non possono diventare oggetto di negoziato alcuno dentro o fuori dal Governo. Roma, 13 novembre 2018 Ore 11,10
La prima affermazione dogmatica assolutamente priva di fondamento è che “il tasso di crescita non si negozia”. E’ vero il contrario. Non solo perché l’Italia è paese membro dell’Unione europea e dell’Unione economica e monetaria su cui tornerò dopo ma anche perché in assetto democratico e partecipato il tasso di crescita può e deve essere “negoziato” con le parti sociali, con le organizzazioni datoriali e con quelle dei lavoratori. In un assetto liberal-democratico dove i salari sono determinati dalla libera contrattazione del salario e non solo del salario e dove i prezzi sono determinati dalle forze del mercato, gli equilibri della finanza pubblica possono essere fortemente influenzati dagli andamenti di queste variabili fondamentali che non sono naturalmente convergenti con quelli del governo e viceversa. Con una spesa pubblica prossima al 50% del PIL e con un debito pubblico al 131% circa del PIL il governo farebbe bene a concertare le sue politiche economiche e fiscali con le parti sociali. Sappiamo che così non è stato.
Sorprende che un ministro dell’economia e delle finanze, un economista rispettabile chiamato a coprire con una foglia di fico la testardaggine di due vicepresidenti del Consiglio incompetenti si lasci andare ad una dichiarazione come quella riportata. Se poi il governo avesse il minimo rispetto delle nuove procedure di bilancio introdotte con il Patto di stabilità e crescita (2011) e annessi regolamenti, con quelle del semestre europeo tutte negoziate e sottoscritte dai precedenti governi italiani al fine di coordinare le politiche economiche e fiscali dei Paesi membri dell’Unione economica e monetaria non si lascerebbe andare in simili dichiarazioni. Il MEF Tria sostiene che “le previsioni crescita sono infatti il risultato di valutazioni squisitamente tecniche”. Vero e falso allo stesso tempo. Il MEF non dice che le su previsioni sono fatte facendo girare il modello econometrico del Ministero che dirige per cui basta modificare ad es. il dato sugli investimenti, quello delle esportazioni, sulla produttività, ecc. per avere un risultato diverso. Ora se la Commissione europea, il FMI, l’Ufficio parlamentare del bilancio, l’Istat, la Corte dei Conti ed altri sostengono che la previsione di crescita del PIL del 2019 è ottimistica anche questa è non solo una valutazione squisitamente tecnica ma anche maggiormente attendibile perché proveniente da organismi indipendenti. Il MEF implicitamente assume che le valutazioni tecniche del suo ministero sono infallibili. Invece sappiamo e anche l’economista Tria sa che tutte le previsioni sono incerte e fallibili non solo perché sono manipolabili ex ante ma anche perché rispetto al momento in cui sono calcolate possono sopravvenire cambiamenti nelle variabili endogene ed esogene che non sono state previsti. In ogni caso, quando ci sono diverse valutazioni tecniche nella prassi internazionale conta il consenso che le varie previsioni raccolgono.
Il governo non ha ricevuto le parti sociali per discutere della manovra di bilancio e della programmazione finanziaria dei prossimi tre anni. Il governo sta seguendo l’approccio: “prendere o lasciare”. Ma se questo può funzionare a livello interno, è poco probabile che funzioni a livello dell’Unione europea. Non solo ma al di là della probabile attivazione della procedura di infrazione per debito eccessivo prevista dalle regole europee e delle sanzioni eventualmente applicate, è facilmente prevedibile che le vere sanzioni possono arrivare prima di quanto si pensi dalle reazioni dei mercati. Una manovra di bilancio che a parole punta ad un tasso di crescita irrealistico in un paese con un alto debito pubblico, una manovra che prevede un aumento notevole della spesa corrente a fronte della quale si vedono soprattutto riduzione delle tasse, può mettere a rischio la stabilità finanziaria e provocare una grave crisi del debito pubblico e del sistema bancario che di esso detiene una quota consistente (378 miliardi) con pesanti conseguenze non solo per l’Italia ma anche per l’Unione. Non è un caso che Cristine Lagarde direttrice del Fondo monetario internazionale è tornata a parlare di rischio di contagio – questa volta ben più alto che nel caso della crisi del debito della Grecia.

M. Molinari perchè è successo in Italia

Maurizio Molinari, Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa, la nave di Teseo, i fari, 2018
Perché è successo in Italia? Una prima risposta ad effetto potrebbe essere: perché in Italia si vuole scimmiottare il modello presidenziale americano, le primarie e i partiti liquidi da organizzare semplicemente come macchine elettorali. Non è casuale che in un Paese che storicamente ha avuto non pochi leader populisti e anche un partito definito People’s Party, nel 2016 sia stato eletto Donald Trump che del populista di destra è un outstanding champion. Anche in Italia nel passato non sono mancati episodi di populismo finiti anche tragicamente ma non voglio diffondermi su questo. Mi basti dire che anche in paesi di lunga tradizione democratica si manifestano fenomeni populisti di destra e di sinistra e chiusure sovraniste che non di rado sfociano in regimi illiberali quando non direttamente dittatoriali.
Ma veniamo alla domanda principale che Molinari si è posto – perché da noi? – e alle risposte che si è dato: diseguaglianze, migranti, corruzione e illegalità diffuse, la miopia e/o l’eutanasia dei partiti tradizionali, le politiche economiche implementate dall’UE dopo lo scoppio della crisi mondiale che hanno provocato una doppia recessione e riprese asfittiche, i nuovi spazi di azione politica offerti dal WEB e dai telefoni connessi a internet come strumento di rivolta, il vulnus della memoria che consente una pseudo o apparente legittimazione dello xenofobismo e i regimi autoritari e/o decisionisti rispetto alle procedure lente e farraginose delle istituzioni europee comunque affette da originario deficit democratico. Tutti questi motivi concorrono a determinare una situazione di malessere diffuso che ha portato gli elettori a sentirsi poco protetti e, quindi, insicuri rispetto al terrorismo islamico – in Italia fin qui latente in confronto ad altri paesi membri della UE, rispetto ai timori che suscita più o meno il passaggio ad una società multietnica, rispetto alla concentrazione del reddito e dei patrimoni nelle famiglie più ricche a cui si contrappongono le difficoltà del settore pubblico e delle imprese; rispetto al timore di perdere i benefici del welfare che diventa insostenibile solo perché è anatema anche per la sinistra implementare politiche redistributive più efficaci; rispetto all’aumento della disoccupazione dei giovani e di anziani che perdono il lavoro da politici irresponsabili attribuito alla concorrenza dei migranti e alle politiche europee – prima sottoscritte e poi denegate – che hanno portato la riduzione dei salari e dei diritti per le masse lavoratrici. In un tale contesto regole e migrazioni vengono spacciate come attacchi di un “nemico esterno” a cui altri politici irresponsabili pensano di opporre il ritorno al buon governo sovrano che decide autonomamente cosa è bene a casa sua ignorando che nulla può fare da solo per governare le forze della globalizzazione in un contesto di alta interdipendenza economica non solo per le c.d. mesoeconomie ma anche per le economie più grandi e più forti.
Concentrati sui problemi interni gli Stati membri dell’UE assistono inerti alla crisi di fiducia nei confronti dell’Europa, alla divaricazione o mancata convergenza tra regioni centrali e quelle periferiche rinviando l’esame di proposte pure ragionevoli sulla riforma dell’eurozona e dell’attuale governance.
Secondo me, l’UE dovrebbe muoversi anche sul terreno della lotta alla povertà. Si tratta di problema molto complesso ma va affrontato con giudizio e gradualità in chiave integrativa di quello che fanno i governi dei PM. Ci sono differenze territoriali e diseguaglianze molto forti ma va combattuta la linea di Schauble e dei suoi alleati secondo cui trattandosi di problemi storici all’interno dei PM sono essi che devono affrontarli. Sappiamo che un area valutaria ottimale funziona senza trasferimenti se non ci sono squilibri territoriali e di reddito ma in un’area regionale di grande dimensione è impensabile che non esistano squilibri. Tanto è vero che già dal 1973 l’allora CE si è dotata dello strumento della politica regionale. Senonché questa e gli altri strumenti dei fondi strutturali sono rimasti sempre largamente sotto finanziati. Se si insiste sulla posizione originaria, non si capisce il segnale che arriva dalle regioni periferiche. Anche in Italia Renzi nel 2016 non ha capito il segnale che arriva dalle periferie (p. 58).
Ora a fronte dell’aumento delle diseguaglianze; b) delle migrazioni; c) del fallimento delle strategie pure adottate (Lisbona, Europa 2020) per la convergenza e, conseguentemente dell’aumento degli squilibri territoriali Nord-Sud, Est-Ovest nel bel mezzo di una crisi mondiale scatenata dalla finanza rapace, l’UE stenta – non accenna nemmeno – a dare una risposta a questi problemi. Presa com’è dalla necessità di tamponare la crisi del debito sovrano di alcuni PM e dal problema di salvare le banche, fa il contrario. Si rifiuta di modificare il Regolamento di Dublino; 2) fa poco o niente per iniziare l’attuazione del c.d. pilastro sociale; per essere più precisi costituisce il Fondo per gli aiuti europei agli indigenti (FEAD) vedi regolamento UE n. 233/2014 nell’ambito della cooperazione allo sviluppo ma in parte utilizzato anche all’interno dell’Unione; 3) al momento dell’approvazione delle prospettive finanziarie nel 2014 riduce di 80 miliardi la proposta della Commissione e, di conseguenza, anche i fondi per la coesione sociale e la politica regionale. Al Gruppo di Visegrad in netto e aperto dissenso sulla politica delle migrazioni non riesce a contrapporre alcunché.
La linea restrittiva della c.d. austerity pesa sul welfare e sulle migrazioni seppure con qualche rilevante eccezione messa in atto dalla Merkel sui profughi siriani e utilizza i seguenti dati: la UE assomma il 7% della popolazione mondiale, il 25% del PIL con una spesa sociale al 50% della spesa pubblica. Questa sottrae risorse alla competitività e produttività del sistema e, quindi, non è sostenibile secondo i conservatori. I quali non tengono conto della legge di Wagner secondo cui al crescere del PIL cresce la domanda di beni pubblici tra cui Sanità e istruzione. Una popolazione sana che pratica anche al formazione permanente (long life learning) rafforza la produttività della forza lavoro non senza trascurare che la popolazione europea si colloca tra le più vecchie del mondo e, quindi, richiede comunque più cure e più assistenza anche domiciliare, fa meno figli e quindi non solo per virtù ma anche per necessità può o deve avere una politica di accoglienza e inclusione dei migranti per mantenere il suo equilibrio demografico.
Ora basterebbe riflettere sul dato macro sulle migrazioni a livello mondiale (68 milioni di persone) per esaminare nella giusta prospettiva il problema dei flussi migratori in Europa dove i migranti che cercano di entrare nella UE si aggirano sui 2-3 milioni. Ma i politici populisti e sovranisti parlano di invasione, agitano la paura del diverso e su di essa prosperano. Sostengono che la disoccupazione dei lavoratori europei con qualifiche basse sia dovuta alla concorrenza dei migranti di norma con livelli di istruzione e formazione ancora più bassi di quelli dei cittadini europei. Certo non si può negare che ci sia una disponibilità dei lavoratori migranti ad accettare salari più bassi ma questo ci riporta alla teoria dell’esercito industriale di riserva che frena il potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori e garantisce non solo la flessibilità nell’utilizzo della forza di lavoro ma aiuta anche a mantenere bassi i livelli salariali. Populisti e sovranisti sottacciono che i due problemi principali possono trovare adeguata soluzione solo con una politica di piena occupazione a livello europeo l’unica che può contribuire alla lotta della povertà di tutti e all’inclusione sociale dei migranti.
Questo sul terreno economico. Su quello politico la contorta e iniqua regolazione politica delle migrazioni all’interno dell’Europa aiuta i populisti e sovranisti di destra a diffondere la paura del diverso e su di essa costruire le loro fortune politiche.
Tornando alla politica, concordo con Molinari che è entrata in crisi la capacità dei partiti di relazionarsi con le masse; alcuni decenni di critiche per la verità in grossa parte fondate alla partitocrazia non sono passati inutilmente; siamo quindi passati al leadersimo e alla personalizzazione della politica che ha caratterizzato la seconda Repubblica. Anche questa non ci ha fatto mancare la corruzione e conflitti di interesse macroscopici dei suoi leader e di molti esponenti specie capi-corrente dei partiti che hanno portato i cittadini a identificare nei partiti la fonte della corruzione. Se i partiti e gli altri corpi intermedi sono strutture portanti della democrazia, il passaggio a quelli liquidi, leggeri e alle macchine elettorali indebolisce inevitabilmente la democrazia. Se a questo aggiungiamo la continua manipolazione del sistema elettorale che conserva le liste bloccate per cui il cittadino elettore non può scegliere il candidato da votare si capisce come sia potuto aumentare il rigetto della politica o la crescita dei movimenti anti-sistema. Se non ultimo considero i 30-35 anni di egemonia neoliberista a livello europeo che assume che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato, che l’individuo è il miglior giudice di se stesso e non ha bisogno delle mediazioni di alcun corpo intermedio, che l’individuo razionale è quello che massimizza il proprio interesse individuale, ci rendiamo conto che il neoliberismo non è una dottrina economica semplificata ma è anch’esso – come il populismo e il sovranismo – un nemico della democrazia le cui sorti si giocano non in un singolo paese ma anche nelle grandi aggregazioni sovranazionali e nel mondo intero.
Allora se dovessi identificare due altre ragioni specifiche della crisi del nostro Paese li indicherei nel frazionismo, nella scissione tra morale e politica, nel basso livello di coesione sociale che caratterizzano non pochi italiani.
Non c’è rigore morale negli italiani che per secoli hanno accettato un sistema di doppi valori e non c’è nei partiti e, meno che mai, nei populisti che si identificano con il popolo che pretendono di rappresentare come un soggetto coeso, razionale e che sa esattamente quello che vuole perché caratterizzato da preferenze omogenee. Forse la responsabilità maggiore dei partiti prima della loro liquefazione è quella di non avere promosso una rigenerazione morale degli italiani, premessa fondamentale per sviluppare il senso civico e la coesione sociale e non ultimo una più alta accountability di tutta la classe dirigente (pubblica e privata) del Paese. Queste ultime sono le considerazioni che mi sento di aggiungere a quelle assunte nel libro di Molinari scritto brillantemente, facilmente leggibile e ricco di spunti su cui riflettere attentamente se si è d’accordo con Platone che definiva la crisi della democrazia come anticamera della tirannide o – come si dice ora – del mostro mite.
Enzorus2020@gmail.com

Pubblico volentieri l’articolo di Livio Zanotti sulle elezioni americane

L’ODIO NON HA VINTO,RESTA L’ESTRANEITÀ

Cos’hanno a che fare quel signore nero, elegante, tempie sbiancate, pronto a replicare con agile sarcasmo alle grevi menzogne dell’avversario che l’insulta in una congestione di derisione e minacce: cosa possono condividere l’ex Presidente Barack Obama, tornato volontario in prima linea nell’infuocata campagna elettorale di mid-term, e il Presidente Donald Trump, che tra un rally di wrestling e l’altro definisce se stesso magico e non gli dispiace che lo chiamino messianico? Le maggioranze contrapposte espresse dalle urne nei due rami del Congresso ne sono la dualistica e irriducibile incarnazione istituzionale.
Quest’opposizione riflette e sintetizza la lotta politica tra le due Americhe e il risultato ne certifica la reciproca estraneità tanto quanto la contiguità (nella notte dello scrutinio un canale TV mandava in onda brani dello storico incontro di boxe vinto da Ray Sugar Robinson contro l’indomito Jack La Motta, toro scatenato…). Stacey Abrams, che ad Atlanta abbiamo visto sperare fino all’alba di diventare la prima donna governatrice di uno stato conservatore come la Georgia, fino allo spoglio dell’ultimo voto, conclude senza arrendersi con un sorriso sfinito sul grande e bellissimo volto nero: ”Continueremo a parlare a tutti, porta a porta…”.
La conquista democratica della camera dei deputati, che significa il controllo dell’attività legislativa, è un risultato decisivo. Tuttavia aveva ragione il New York Times a suggerire fino all’ultimo momento cautela verso l’ottimismo dei sondaggi. I repubblicani hanno vinto tutte le sfide a rischio ballottaggio e rafforzato la maggioranza al Senato. La pervicace ed esagitata demagogia populista di Trump è stata probabilmente risolutiva in più di una situazione. Anche se appare necessario scavare più a fondo per trovare le radici del fanatismo su cui riesce ad attecchire a dispetto della realtà dei fatti.
Un esempio significativo a Tallahassee, lungo una faglia della frattura che divide gli Stati Uniti non tanto tra popolo ed élites quanto trasversalmente tra forti squilibri culturali e socio-economici, frutto di storie diverse. Qui il democratico afro-americano Andrew Gillum ha perduto per un soffio contro Ron Desantis, più volte soccorso personalmente da Trump nelle settimane immediatamente precedenti il voto. Ebbene anche il New Deal roosveltiano vi aveva trovato vita particolarmente difficile. E ancor prima -158 anni fa- la capitale della Florida, da sempre centro degli interessi agricoli regionali, ospitò gli stati secessionisti per deliberare sulla guerra di Secessione.
Non a caso Trump ha scelto la Florida per lanciare la sua fantasiosa crociata contro le poche migliaia di appiedati migranti centramericani, appena apparsi sul territorio messicano e ancora distanti 3mila chilometri dalla frontiera meridionale degli Stati Uniti. Ma lui li ha chiamati “orde d’invasori” e ha ordinato di mandare ad attenderli 15 mila soldati in assetto di combattimento. Un’ altra “magia” della sua campagna elettorale, un altro illusionismo del suo piffero che hanno potuto attrarre pregiudizi e paure di tanti votanti per condurli fino alle urne e votare per il traballante candidato repubblicano.
L’onda lunga della deindustrializzazione avviata da Ronald Reagan a fine anni Settanta del secolo scorso, l’integrazione dei mercati su scala mondiale, l’introduzione crescente e tumultuosa delle nuove tecnologie sono momenti successivi di un processo unico e senza precedenti. Un vero e proprio sconvolgimento dell’universo culturale degli americani, delle loro sicurezze e aspettative. Così come della scala di valori, della qualità della vita interiore dell’intero Occidente. Non solo una sostituzione epocale dei sistemi produttivi, che ne costituiscono nondimeno l’evidente, invasiva materialità essenziale e quotidiana. E’ negli interstizi delle sue contraddizioni sociali e morali che riesce a penetrare il tossico illusionismo di Trump.
Livio Zanotti
Ildiavolononmuoremai.it