Alla ricerca del futuro di Roma

Secondo Walter Tocci, Roma come se. Alla ricerca del futuro per la capitale, Donzelli Editore, 2020, le chiavi interpretative per capire Roma che normalmente vengono utilizzate sono tre: stereotipo, disprezzo ed esortazione. Roma è prigioniera dei suoi difetti. Roma è la più grande città abusiva d’Europa: la classe politica romana ha rinunciato alla programmazione di lungo termine senza la quale non si ha una precisa direzione di marcia. Questo è il primo problema: l’interdizione del futuro; il secondo problema è di natura culturale: è il malinteso realismo per cui la crisi della Capitale è così grave che bisogna restare con i piedi per terra; il terzo è lo spettro della decadenza per cui la crisi attuale a molti appare senza sbocchi. Non si può liberare Roma dalle zavorre attuali…

 Le tre rendite: 1) capitale d’Italia o della centralità statale; 2) l’accumulazione della rendita immobiliare; 3) l’eredità storica. Negli ultimi 150 anni, questi sono stati i tre motori dello sviluppo della città specialmente in termini di una forte accumulazione di rendita immobiliare. Il filo conduttore del libro – dichiara Tocci – è l’esaurimento di queste tre rendite.  

Tocci ripetutamente loda il ruolo positivo che, a suo giudizio, hanno avuto i c.d. Sindaci del consenso Rutelli e Veltroni ma a p. 21 osserva che, sotto la loro leadership, non è cresciuta una classe politica capace di portare avanti e migliorare la loro opera. Qui rileva secondo Tocci “la storica mancanza di una borghesia romana capace di dare continuità al cambiamento”. Secondo me, rileva anche il modello di governo delle grandi città costruito sul leaderismo e la personalizzazione della politica non adatta alle grandi città. Non poteva nascere una nuova classe politica se il sistema elettorale per l’elezione diretta dei Sindaci e poi dei Presidenti delle Province e delle Regioni consegna tutto il potere alle loro persone che diventano egemoni ai rispettivi livelli sub-centrali in questo aiutati dal declino e/o scomparsa dei partiti strutturati di una volta che avevano un ruolo non secondario nella selezione della classe politica a tutti i livelli di governo. Con il più forte decentramento messo in atto con l’attuazione delle Regioni a Statuto Ordinario prima e con la riforma del Tit. V Cost poi ci si aspettava una rinascita della democrazia competitiva e meritocratica per lo meno a livello locale. Ed una palestra per la formazione anche della classe politica nazionale. Con la manipolazione dei sistemi elettorali e con la “scomparsa” dei partiti è successo esattamente il contrario.

In ogni caso, convergenze o divergenze sul leaderismo e la interpretazione del modello politico-elettorale, già dalla sua dell’introduzione al libro, specialmente nella sua prima parte, si capisce che l’Autore dimostra un non comune spessore storico, culturale, sociologico, politico, urbanistico che gli consentono di districarsi con maestria nella piccola e grande storia di una città unica nel mondo.

Roma è sempre stata bella da vivere per i turisti più difficile per chi ci deve lavorare per via delle inefficienze burocratiche, degli ostacoli alla mobilità che Tocci descrive molto bene. Quanto al venire meno del processo di accumulazione della rendita immobiliare, è chiaro che la rendita non ha la dinamica di un processo produttivo di successo. La rendita immobiliare si alimenta della scarsità di certi beni e dello spazio ma se l’economia che la circonda è caratterizzata prevalentemente da servizi pubblici e privati prevalentemente inefficienti, non c’è governo centrale o sub-centrale che, nel lungo termine, può conservare la rendita immobiliare. Il paradosso è che a Roma non manca lo spazio ma evidentemente è mancato il governo del territorio con annessi e connessi servizi ed un efficace contrasto alla rendita immobiliare. È un fatto che Roma è la capitale di un Paese che, nel suo insieme, non sa attirare investimenti dall’estero e, quindi, non lo può fare da sola la sua capitale che non è neanche una ZES (zona economica speciale) – supposto che queste strutture funzionino in altre parti del Paese. Ed è finito da circa 27 anni l’intervento straordinario per il Mezzogiorno.  Quindi si può criticare quanto si vuole la riforma del Titolo V della costituzione ed il cattivo funzionamento delle regioni ma 140 anni di storia unitaria – anche con il governo forte del ventennio fascista – sono stati fallimentari in termini di unificazione economica del Paese. Per questi aspetti, Roma è la prima città del Mezzogiorno e segue la storia di questa parte del Paese non senza trascurare che tutto il paese è ormai in stagnazione secolare.

Il libro è suddiviso in due parti di quattro capitoli ciascuno. I primi quattro capitoli approfondiscono più che le funzioni le disfunzioni di Roma capitale. Nella seconda parte si esaminano le nuove ambizioni per Roma. Molto significative e crude le rubriche dei paragrafi del primo capitolo sull’inquieta modernità: Città storica senza storicità; città mentale, senza razionalità; città statale, senza statualità; città postmoderna senza modernità. Ognuna di queste rubriche meriterebbe un saggio ma Tocci sviluppa gli argomenti con notevole maestria facendo ricorso ad un’ampia bibliografia interdisciplinare. È impressionante la mole dei lavori, degli studi, dei progetti che riguardano Roma. Peccato che la politica romana solo raramente ne ha saputo valorizzare alcuni senza tuttavia riuscire a delineare una precisa strategia a medio lungo termine. Mi lascia un po’ dubbioso la città statale senza statualità. Quando negli anni 70 visitai per la prima volta Bonn allora capitale della Germania occidentale io e gli altri componenti del gruppo di cui facevo parte rimanemmo impressionati dalla piccola dimensione della città e dei modesti palazzi del governo federale che, con Adenauer e altri, era riuscito ad attuare una ricostruzione del Paese ed un miracolo economico ben più ampi di quelli che era riuscita a fare l’Italia nel II dopoguerra.

Per Roma credo che i problemi sono due: da un lato la storica inefficienza della sua burocrazia, dall’altro, lo scarso senso dello Stato della sua classe dirigente e lo scarso senso civico dei romani. In questi termini, sono d’accordo con quanto afferma Tocci a p. 49: “Il senso non ha trovato alimento nella concretezza istituzionale, la quale è rimasta nelle aspirazioni della Costituzione, ma non si è calata nelle relazioni tra i cittadini e la cosa pubblica”.  Detto in termini più semplici, se il sistema politico era stato bloccato dalla Guerra Fredda ed è rimasto tale sino al crollo del Muro di Berlino – salvo la parentesi del governo di solidarietà nazionale del 1976-79 – se il sistema era percepito come iniquo e, quindi, a bassa coesione sociale, è chiaro che i nobili ideali della Costituzione erano rimasti in gran parte sulla carta nel Paese e nella sua capitale.

Nella seconda parte Tocci esordisce affermando che “solo quando crescono le ambizioni si afferma una classe dirigente”. Vero anche che governanti seri non devono enunciare obiettivi irrealizzabili perché alle illusioni momentanee seguono inevitabilmente disillusioni e sfiducia nella politica.   Da economista rinvio ad un’ampia letteratura sulla theory of discontent teoria del malcontento, dell’insoddisfazione, del malessere che secondo gli economisti è alla base dello sviluppo. Tocci sfiora questo argomento quando mette in bocca a esponenti delle periferie povere e diseredate la parola “malestanti” da contrapporre ai benestanti dei municipi centrali e ricchi. Il problema a livello della capitale è che il riconoscimento del proprio stato di malessere non si traduce in azione collettiva anche perché mancano le forze politiche che propongano misure realistiche per ridurre le diseguaglianze e promuovere la giustizia sociale. Ma lo sviluppo economico, la lotta alle diseguaglianze sono problemi di lungo termine e purtroppo da 35-40 anni in Europa e in Italia prevalgono i governi neoliberisti caratterizzati dalla veduta corta che si affidano al mercato e rifuggono da ogni seria attività di programmazione a medio e lungo termine.  

Come detto sopra, la seconda parte è suddivisa in quattro capitoli: la Città mondo; la Città Regione; l’intelligenza sociale e il governo della Città-Regione. La Città mondo o globale è, secondo me, la parte più facile da rimediare proprio perché Roma ha una rendita storica millenaria non valorizzata ma non esaurita. Ora abbiamo di nuovo un ministero del turismo che con adeguate campagne pubblicitarie può valorizzare detto immenso patrimonio dell’umanità sapendo che spendere per rilanciare Roma significa favorire tutte le regioni d’Italia e viceversa.

Non potendo in questa sede approfondire il discorso sui singoli capitoli anticipo una considerazione sul capitolo sull’”intelligenza sociale” per poi analizzare insieme i rimanenti due capitoli. Possiamo partire dalla considerazione che Roma è il più grade comune agricolo d’Europa ma come afferma Tocci a p. 156 “la campagna romana è stata trasformata in una distesa edilizia a bassa densità che ha distrutto molti valori ambientali, senza produrre una vera città”……..“la popolazione della città consolidata è diminuita di un terzo passando da 2,1 a 1,4 milioni. 700.000 romani sono andati a vivere nella c.d. periferia anulare povera di servizi pubblici locali determinando una situazione paradossale: “da una parte una città senza abitanti e dall’altra tanti abitanti senza città”. Nel frattempo gli abitanti della periferia anulare si sono più che raddoppiati. A p. 157 definisce  Corona Romana gli insediamenti, le saldature e le relazioni tra la periferia anulare e la cintura provinciale. Per un secolo c’è stato uno spostamento centripeto. Negli ultimi 50 anni una tendenza centrifuga.

PQM è essenziale spiegare il contenuto del cap. VII nel quale Tocci riassume il modello teorico alla base del suo discorso sul ruolo delle politiche pubbliche. Ci sono tre aspetti dei processi cognitivi: 1) “la percezione come esperienza vissuta nell’ambiente urbano”; 2) “l’immaginazione come elaborazione mentale dello spazio reale”; 3) il riconoscimento come relazione delle singole persone con i luoghi e tra di loro mediante i luoghi”. C’è stato nel passato un nuovo riconoscimento scaturito dalle prime domeniche a piedi. C’è oggi un riconoscimento promosso dalla cura dei beni comuni ad opera dei diversi e numerosi gruppi di cittadinanza attiva. I suddetti tre fenomeni cognitivi. Che costituiscono le intelligenze sociali, avvengono nello spazio pubblico dove intervengono anche le politiche pubbliche che possono avere un duplice effetto: quello di assecondare e sviluppare le “esperienze creative” oppure quello di incentivare “pulsioni sociali” negative che valorizzano egoismi e interessi corporativi non di rado con esiti devastanti.  Da qui le proposte sull’accessibilità a certi servizi e non solo alla mobilità; su un nuovo ciclo per energia e rifiuti; sulla relazione orizzontale dell’abitare in cui oggi si formano tre diseguaglianze molto gravi: a) sulla concentrazione della povertà nelle periferie; l’esclusione urbana; la penuria di servizi pubblici locali.

Da qui la necessità di una “rigenerazione come apprendimento sociale” a cui dovrebbero o potrebbero contribuire i ricercatori sociali e le stesse università nell’ambito della loro c.d terza missione* (p. 205) – e come in parte sta già avvenendo.  

Non ultimo, veniamo al cap. 8 sul governo di Roma Regione strettamente collegato al VI. Tocci parte dal collasso amministrativo del Comune di Roma e, ritenendo irrecuperabile la situazione, propone l’abrogazione del Comune per creare Roma Regione. In realtà, a ben vedere, propone una redistribuzione delle attuali competenze in testa al Campidoglio da un lato verso il basso (i Municipi) e, dall’altro, verso l’alto verso questa non meglio definita entità chiamata Roma Regione. Questa comprenderebbe all’incirca l’attuale Città metropolitana. A parte la fattibilità politica di questa ipotesi – che secondo me non trova alcuna corrispondenza nella volontà popolare – c’è un secondo punto debole della proposta che riguarda l’assunta e, di nuovo, non dimostrata ipotesi secondo cui nella “civitas”, alias, Città metropolitana ci siano risorse e/o capacità di governo più ricche di quelle attualmente esistenti nell’Urbe. Stento a condividere questa ipotesi ardita di Tocci perché, da un lato, se ci fossero delle capacità è strano che fin qui esse non siano riuscite ad emergere a livello della Regione Lazio né, tanto meno, a livello della stessa Città metropolitana definita sulla base di non meglio identificati criteri. Dall’altro lato, Tocci non tocca la questione dell’idoneità dell’attuale sistema elettorale dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle Regioni che nelle grandi città- dove più e dove meno – ha degradato la democrazia locale emarginando il ruolo dei consigli comunali, provinciali e di quelli regionali.   Per lo più, vengono eletti personaggi non di sperimentata capacità progettuale ed amministrativa ma sulla base della immagine accreditata all’ultimo momento dai mass media e/o della fedeltà al leader che li ha scelti. È la riprova, secondo me, sta nel fatto che né l’estensione dell’elezione diretta ai Presidenti delle Regioni né l’aumento delle competenze delle regioni prodotto nel 2001 dalla riforma del Titolo V della Costituzione ha portato in generale ad una maggiore capacità amministrativa delle stesse – come l’attuale confusa ed inefficace gestione della sanità da parte delle regioni dimostra ogni giorno di più.

Ma a livello parlamentare ci sono diverse proposte di legge per Roma Capitale e per Roma Regione che propongono nuovi poteri e nuove risorse ma Tocci, da addetto ai lavori, nega che il disastro del Comune dipenda da una questione di soldi (p. 216) e/o di poteri speciali (p. 223). Se così allora delle due l’una: o dette proposte di legge sono bandierine che, in vista delle elezioni locali e regionali, i vari partiti vogliono agitare sapendo bene che per attuarle si richiedono i tempi lunghi delle riforme costituzionali oppure si tratta dell’ennesimo fenomeno di produzione legislativa alluvionale ordinaria come nel settore urbanistico che Tocci (p.201) stigmatizza come “la montagna di carte che non ha aperto quasi nessun cantiere”. Ma sposando l’ottimismo della volontà di Tocci chiudo con la sua esortazione (p. 15) secondo cui “bisogna raccontare Roma come se potesse ancora stupire sé stessa e il mondo”.  Si può fare sempre che si riesca a trovare non solo un buon candidato a Sindaco o a Presidente della Regione ma a mobilitare un’intera classe dirigente pubblica e privata con la visione necessaria ma soprattutto con sperimentata capacità progettuale ed amministrativa.

*Per terza missione delle Università si intende la capacità delle stesse di interagire con la società e il territorio in cui operano. La terza missione si aggiunge alle prime due: insegnamento e ricerca.

Draghi riuscirà a salvare l’Italia dal caos politico?

Secondo alcuni commentatori, i politici italiani che hanno fatto fallire l’incarico esplorativo del Presidente della Camera dei Deputati Roberto Fico che ha dovuto riportare al Presidente della Repubblica la constatazione dell’impossibilità di ricostituire una maggioranza allargata al governo giallo-rosa di Conte, hanno commesso il suicidio della politica italiana. A fronte del quale il Presidente Mattarella ha dovuto fare ricorso ad un incarico a Mario Draghi tecnico di alto profilo come indubbiamente dimostra anche il suo recente mandato di Presidente della Banca Centrale europea. Ieri ho fatto a caldo un commento su tale nomina su Facebook e l’amico Lino Rizzi ha commentato a sua volta il degrado della politica italiana dove gli elettori innanzitutto non mostrano una grande propensione alla partecipazione, non sanno scegliere bene i candidati né tanto meno i programmi che questi ultimi propongono. In sintesi gli elettori per lo più  non sanno per cosa e per chi votano. E’ un problema che riguarda anche altri Paesi non solo l’Italia. Chi volesse approfondire meglio questi problemi potrebbe trovare utili le mie recensioni del libro di Mounk post del 10 agosto 2018 e quella del libro di Brennan del 21 settembre 2018 sempre su questo blog.  

In Italia, non ci sono più i partiti di una volta che avevano il compito di elaborare i programmi e selezionare attentamente i rappresentanti che dovevano fare eleggere nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni, nel Parlamento. I partiti storici sono stati sostituiti con oligarchie centralistiche dominate da sedicenti leader per lo più senza alcuna visione del futuro. In nome della stabilità che non sempre è associata alla governabilità che è la capacità di affrontare e risolvere nell’interesse generale i problemi del Paese. In nome della stabilità si manipolano i sistemi elettorali in modo da assicurarla – Mounk parla di “dittatura elettorale”. L’esempio preclaro di questo approccio è stata la legge per l’elezione diretta dei sindaci del 1993 poi estesa ai Presidenti delle Province e delle Regioni.

Da allora, spesso e volentieri, da destra e da sinistra da politici e da esperti sono state avanzate proposte di estendere tale legge alla elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri con l’idea di introdurre in Italia forme di Presidenzialismo, semi-presidenzialismo alla francese e comunque strumenti di rafforzamento del ruolo del governo rispetto al Parlamento. Proprio ieri 2 febbraio, il Sole 24 Ore ha pubblicato i risultati di un sondaggio commentato da Roberto D’Alimonte noto esperto di sistemi elettorali. Quello per la elezione diretta del sindaco piace al 73% degli intervistati e il nostro esperto spiega il perché con una “risposta – a suo dire – semplicissima: in un tempo senza ideologie e con i partiti morti o moribondi gli elettori tendono a fidarsi solo dei leader. Li vogliono scegliere direttamente”.  Illusi gli italiani! ma dove li trovano questi leader affidabili? Magari ciò è probabile nei piccoli Comuni dove tutti si conoscono ma quando passi ai livelli di governo intermedi e superiori come fanno a capire le capacità amministrative e le qualità politiche dei rappresentanti e, soprattutto, quando i sistemi elettorali consentono alle oligarchie centralistiche di presentare liste bloccate di candidati sconosciuti alla maggior parte degli elettori? Ma più in generale non vedo dove gli elettori ingenui possano trovare leader affidabili nella quantità necessaria se a giudizio di analisti, politologi, economisti e giuristi la classe politica italiana è prevalentemente di scarsa qualità se non proprio di bassa lega.

Negli anni scorsi ho trovato il tempo per partecipare a tre manifestazioni al Campidoglio per protestare contro il degrado della Capitale. Al netto dei turisti presenti sulla piazza ci siamo ritrovati in 50-70 persone. Anche questa è la prova che i cittadini romani non hanno una grande voglia di partecipare. In forza di quella legge il Sindaco nomina come assessori amici o presunti esperti di suo gradimento e persone che non hanno avuto rapporti diretti o indiretti con gli elettori. E che dire dei Municipi (prima circoscrizioni) che non hanno alcuno strumento per incidere sulla gestione della città? Il Consiglio comunale non conta niente perché se non approva le decisioni del Sindaco può essere sciolto e trattandosi anche qui di nominati non hanno nessun interesse a farsi mandare a casa. Le riunioni del consiglio comunale di Roma non vengono trasmesse da nessuno né da Radio Radicale né da altre stazioni locali.  

Ed è il Comune la sede di partecipazione più vicina al cittadino. Figuriamoci al livello nazionale dove il Governo ha espropriato il Parlamento del potere legislativo e sulle leggi di bilancio, su altri importanti provvedimenti di politica economica ricorre al maxiemendamento e al voto di fiducia non consentendo ai parlamentari di approfondire il dibattito e, peggio ancora, in alcuni casi, costringendoli a votare senza avere avuto il tempo di conoscere e studiare particolari importanti delle leggi in esame. Non di rado emendamenti dell’opposizione e della stessa maggioranza vengono respinti per blocchi omogenei o presunti tali e perché ciò avviene? Perché c’è un eccesso di produzione legislativa perché non essendoci fiducia e leale collaborazione neanche tra i poteri dello Stato tutti vogliono leggi che disciplinino ogni caso previsto e prevedibile.

In Italia nella Carta costituzionale c’è il criticato bicameralismo perfetto. In fatto, viene praticato anche il monocameralismo imperfetto perché, in non pochi casi, a norma dei regolamenti parlamentari, una legge già approvata dalla Camera dei deputati non può essere modificata dal Senato e viceversa. Il governo Conte2 non senza fondamento è stato accusato di avere abusato lo strumento amministrativo del decreto del presidente del Consiglio dei ministri mettendo il Parlamento davanti al fatto compiuto. Vedi sul punto le circostanziate critiche del prof. Cassese in sedi diverse. Se questo è il modo di funzionare del nostro sistema politico, a tutti i livelli di base e di vertice, è chiaro che cala la voglia di partecipare e cresce nella gente comune il desiderio di affidarsi all’uomo della Provvidenza, ai leader populisti che le promette di risolvere tutto e in fretta.

Tornando a Draghi, abituato a discutere e decidere in ambienti riservati e/o a comunicare le decisioni in audizioni parlamentari a carattere meramente informativo, lo stato penoso del nostro Parlamento dove non di rado il dibattito è polarizzato, potrebbe aiutarlo ma, in democrazia, molti atti del governo sono leggi formali che, in un modo o nell’altro, devono essere approvati dal Parlamento e lì alcuni nodi potrebbero arrivare al pettine.     

La vignetta di Giannelli sul Corriere della sera di oggi rende l’idea: Draghi, seduto davanti a Mattarella che gli affida l’incarico, dice: si ricordi Presidente: sono Draghi, non Mandrake! E infatti ha accettato con riserva secondo prassi.

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E se si andasse all’esercizio provvisorio di bilancio?

Democrazia malata, democrazia in coma, dai partiti liquidi ai partiti personali e da questi alle dittature più o meno miti, il passo e breve. La democrazia a livello mondiale arretra e in Italia sembra di essere alla fine della democrazia di bilancio. Ieri spettacolo indegno in Senato non per colpa dei senatori ma del governo che calpesta le procedure di bilancio e non è riuscito a presentare il maxiemendamento su cui porre il voto di fiducia – come ha fatto un esponente della Lega che ha pestato con una scarpa un documento del Commissario Moscovici. I senatori costretti a discutere di una legge di bilancio incerta e confusa sulla base di notizie lette sui giornali. Dopo l’accordo con la Commissione europea il governo doveva mandare a Bruxelles il nuovo quadro macroeconomico che teneva conto del ridimensionamento non solo del deficit dal 2,4 al 2,04% ma anche del tasso di crescita del PIL dall’1,5% all’1%. È evidente che una riduzione del tasso di crescita inevitabilmente comporta un calo delle entrate tributarie e, quindi, meno risorse spendibili. Meno risorse, meno spese, necessità di rivedere molte coperture; lavoro in parte fatto e in parte da fare da parte degli Uffici del bilancio e soprattutto da parte della Ragioneria generale dello Stato che li deve certificare con la c.d. bollinatura. Avendo sprecato mesi di tempo in beghe chiazzotte tra i due Vice-presidenti del Consiglio e la Commissione europea e riducendosi i tempi per arrivare all’approvazione entro dicembre i capi gruppo hanno deciso di saltare l’esame del provvedimento monco da parte della Commissione bilancio cosa di per se molto grave perché è in questa sede che in teoria si possono fare degli approfondimenti tecnici sulla moltitudine di provvedimenti che compongono la legge di bilancio – sempre che la Commissione sia formata da persone con esperienza in materia. Ma non c’era il tempo e i Senatori sono stati costretti a intervenire non sul merito di singoli provvedimenti ma in termini generici di metodo soprattutto a difesa delle prerogative delle due Camere. Come si sa, il controllo attento del documento di bilancio è lo strumento fondamentale con cui storicamente i rappresentanti del popolo hanno rivendicato prima il controllo sull’operato dei sovrani assoluti e, nella più recente esperienza delle democrazie rappresentative, il governo.  È un paradosso apparente che il governo giallo-verde superfetazione di due partiti populisti e sovranisti neghi ab imis ai rappresentanti del popolo le loro prerogative fondamentali. Ma sappiamo che i due partiti che formano la maggioranza di governo non sono genuini partiti populisti ma partiti che hanno definito la loro politica economica e finanziaria per il 2019 “manovra del popolo” e che gli unici autentici interpreti della volontà popolare sono i due leader dei suddetti partiti – apprendisti stregoni o, più precisamente, aspiranti dittatori miti che non rispettano la separazione dei poteri.

L’opposizione sta facendo del suo meglio per costringere il governo a rispettare i regolamenti parlamentari che in situazioni di emergenza danno ampi poteri alla maggioranza per ridurre i tempi della discussione. E debbo precisare che le recenti riforme dei regolamenti parlamentari sono state approvate da maggioranze di centro sinistra al fine di rafforzare il ruolo del governo non solo in materia di bilancio. Nelle circostanze mi chiedo se non sia il caso di ricorrere a forme più incisive di ostruzionismo per arrivare all’esercizio provvisorio di cui all’art. 81 Cost quando il governo non riesce a fare a fare approvare la sua legge di bilancio – tralasciando la proposta che pure era stata fatta di uno Statuto dell’opposizione.  In fondo non sarebbe la fine del mondo e ci sarebbe più tempo per elaborare una manovra più seria e più mirata alla crescita e allo sviluppo sostenibile. Nella prima repubblica per circa venti anni i governi centristi e di centro-sinistra vi hanno fatto ricorso. L’esercizio provvisorio significa che fino a quando il Parlamento non approva una nuova legge di bilancio il governo potrà spendere per mese per mese un dodicesimo di quello che poteva spendere e/o ha speso l’anno precedente. Esponenti politici di rilievo di quegli anni commentavano che il ricorso all’esercizio provvisorio in fondo era l’unico modo per costringere il governo a risparmiare risorse pubbliche.

Certo il governo e la sua maggioranza sulla carta hanno i numeri e i tempi per forzare l’approvazione della loro prima legge di bilancio ma dai sondaggi sappiamo che a Nord e a Sud cresce il disagio sia nel popolo della Lega che in quello del M5S. Se i parlamentari eletti dai due partiti non sono tutti come Salvini e Di Maio che si ritengono i soli autentici interpreti della volontà popolare, potrebbero anche avere qualche ravvedimento operoso e votare in modo diverso dagli ordini di scuderia.

Enzorus2020@gmail.com

In Italia conviene violare la legge

Piercamillo Davigo, “In Italia violare la legge conviene” Vero! Idòla, Laterza, 2018
In questo pamphlet che sintetizza più ampie ricerche e pubblicazioni di anni precedenti Piercamillo Davigo spiega perché in Italia dilaga l’illegalità e, quindi, l’ordinamento giuridico manca di effettività, ossia, di seria e costante applicazione nei vari comparti. La tesi da me condivisa è che gli italiani hanno la litigiosità nel sangue e bassa propensione al rispetto delle regole. E la politica reagisce cambiando continuamente le leggi e così rendendo sempre più difficile la loro conoscenza ed attuazione. Le forze politiche che si alternano al governo reagiscono affermando che le riforme fatte – rectius approvate – dai precedenti governi sono sbagliate e riscrivono pezzi dei vari ordinamenti in questo modo complicando il compito di chi deve attuarle. Con l’espandersi della illegalità – sostiene Davigo – si è diffusa una subcultura secondo cui sono furbi e intelligenti quelli che violano la legge e fessi quelli che la rispettano. I primi ne traggono vantaggio economico e da qui l’incentivo a violarla. Controlli inefficienti ed inefficaci contribuiscono a determinare un meccanismo che sempre più incentiva e fa crescere l’illegalità. Se poi si considera che l’Italia è la patria delle tre più grandi organizzazioni criminali del mondo che operano a livello mondiale, è chiaro che il compito della lotta alle mafie diventa vieppiù complicato. Come si è reagito storicamente? Alla illegalità diffusa si accompagnata una crescita smisurata del numero degli avvocati, tenendo fermo il numero dei giudici ordinari, ristrutturando in peggio l’assetto piramidale del sistema giudiziario, riformando i codici procedurali, accorciando i tempi delle prescrizioni in nome della certezza del diritto a scapito della certezza della pena. Assumendo una definizione ampia di avvocato che comprende anche i consiglieri giuridici l’Italia annovera 223.842 unità, un dato che costituisce un vero e proprio primato europeo. Ragionando in termini di numero di avvocati per ogni 100 mila abitanti si ha la media europea pari a 147, in Italia il rapporto sale 368, Francia 94, Germania 202. Il rapporto più alto per l’Italia potrebbe apparire giustificato per via della presenza delle organizzazioni di stampo mafioso ma Davigo mette in evidenza che in Italia non c’è certezza del diritto né certezza della pena e non solo perché molti procedimenti si estinguono per intervento della prescrizione ma anche perché è fiorita, in nome della funzione rieducativa della pena, una complessa legislazione agevolativa per cui le pene vengono ridotte nella fase esecutiva con sconti e facilitazioni varie. Abbiamo un arretrato di 5,2 milioni di processi civili e 3,5 milioni di quelli penali ma il legislatore si preoccupa molto del contenzioso fiscale dove l’arretrato ammonta a 469.048 fascicoli al 31-12-2016. C’è evidentemente un favor rei per gli evasori fiscali ma c’è anche per i reati penali e per gli illeciti civili e amministrativi. L’istituto che simboleggia il favor rei è il c.d. divieto di reformatio in peius (art. 597 cpc). Come noto, questo è visto dalla dottrina come ulteriore garanzia dell’imputato o come incentivo a presentare appello. Scrive Davigo che in Francia, dove detto divieto non esiste, solo il 40% delle condanne di primo grado viene appellato, in Italia quasi tutte. Questo meccanismo incentivante degli appelli va cozzare con l’anomala struttura piramidale del sistema giudiziario italiano per cui si elencano una Corte suprema di Cassazione, alias, di legittimità, 26 Corti d’appello (di cui 3 con una sezione distaccata) e 139 Tribunali, oltre ad alcune migliaia di giudici di pace e giudici onorari. Una struttura del genere – precisa Davigo – può reggere solo se una piccola parte delle decisioni di primo grado viene appellata. Altrimenti i livelli superiori si intasano e accumulano arretrati. Giustizia ritardata o negata per via delle prescrizioni finiscono con l’alimentare il senso di sfiducia nelle istituzioni. Giustizia e illegalità stanno in relazione inversa: se si riduce la prima, aumenta la seconda. A questo contribuisce non poco l’evasione fiscale. Davigo stima in 12 milioni gli evasori fiscali – all’ingrosso un numero ben più alto di quanti ricorrono alla giustizia civile e penale. Dice che il furto in generale svolge una funzione redistributiva – ovviamente perversa. Davigo cita il precetto evangelico “date a Cesare quello che è di Cesare” e ancora il più moderno e laico principio “pagare tutti per pagare meno”. Né il precetto né lo slogan in teoria fondato funzionano in Italia se i controlli fiscali sono inefficienti, se si registrano ritardi decennali nell’attuazione dell’anagrafe dei rapporti finanziari, se si ricorre sistematicamente ai condoni (fiscali, edilizi, valutari, ecc.) che sono diseducativi e raddoppiano il lavoro degli uffici comunque sottodimensionati rispetto al fabbisogno di personale necessario per affrontare un compito di dimensioni mastodontiche.
“Secondo l’ultimo rapporto degli ispettori del Fondo monetario internazionale, l’Italia ha un sistema pensionistico molto generoso che sottrae risorse agli investimenti pubblici e non dispone di una efficiente rete di strumenti di lotta alla povertà. Il lavoro è tassato pesantemente come del resto i pensionati, la ricchezza poco. Non c’è equità intergenerazionale. La cosa non sorprende se si tiene conto della relazione inversa tra giustizia e illegalità. Non c’è una teoria della giustizia sociale largamente condivisa per il presente, figuriamoci per un orizzonte temporale lungo. L’ultima Grande crisi mondiale (2008-13) è stata provocata dalla veduta corta di tutte le classi dirigenti, dall’egoismo imperante, dalla finanza rapace, dall’individualismo metodologico secondo cui l’individuo razionale è quello che massimizza il proprio interesse hic et nunc.
Ci si lamenta delle crescenti diseguaglianze ma la stragrande maggioranza esclude lo strumento fiscale per combatterle: i controlli restano inadeguati ed inefficienti; mancano soprattutto quelli che mettono in correlazioni le variazioni patrimoniali crescenti e livelli di reddito dichiarati al limite della sussistenza. Resta valido in teoria lo slogan programmatico “pagare tutti per pagare meno” ma resta un mito perché il sistema tributario e la sua implementazione sono costruiti per consentire una larga evasione. Un esempio per tanti altri che riguarda il penale tributario: cita la norma secondo cui l’IVA dovuta ma non versata sino a 250 mila euro non è reato penale; idem per le ritenute operate sui salari e non versate sino a 150 euro. Nei codici sono previsti anni e anni di carcere per evasione fiscale ma in fatto – dice Davigo – non c’è nessuno evasore fiscale in galera.
Anche in altri campi del penale sono previste sanzioni formalmente molto rigorose. Ma in fase applicativa, sono previsti numerosi marchingegni legali per cui si conteggiano gli anni di carcere: un anno non equivale a 365 giorni ma ad un numero di giorni molto più basso per via non solo della buona condotta ma per la concessione di misure alternative, amnistie, indulti, indultini, ecc. Queste incongruenze anche nella fase dell’esecuzione della pena mettono in evidenza la contraddizione del legislatore che da un lato legifera sanzioni rigorose in termini di pene detentive e poi le annacqua o le riduce sostanzialmente nella fase esecutiva. L’evidenza empirica di tutto questo: lo stock di 800 miliardi di imposte accertate difficilmente esigibili. Davigo cita che anche l’annacquamento delle pene pecuniarie nel settore amministrativo: lo Stato riesce a riscuotere solo il 4% delle sanzioni irrogate.
E si potrebbe continuare con altri reati dei colletti bianchi pubblici e privati. A pag. 77 Davigo riporta per intero “l’apologo dell’onestà nel paese dei corrotti” di Italo Calvino (Repubblica, 15-03-1980) dove questi descrive una società in cui dilaga l’illegalità diffusa e gli onesti vivono come una minoranza di diversi. Economisti, filosofi, giuristi, intellettuali, letterati si sono occupati del fenomeno ma senza riuscire ad imprimere una svolta e/o rigenerazione morale al Paese.
Cito a caso Sandro Veronesi intervistato da Vittorio Zincone “A forza di chiudere gli occhi, l’illegalità è diventata conveniente” settimanale SETTE /43 24-10-2014. Non so se Davigo ha letto l’intervista prima di scegliere il titolo del suo pamphlet ma mi interessa sottolineare la convergenza dell’analisi: “abbiamo chiuso gli occhi su talmente tanti cattivi comportamenti che l’illegalità è diventata conveniente, oltre che diffusissima”. E guardando alla prospettiva, a sua volta, Veronesi cita una frase concordante di Corrado Alvaro: “la disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. Non è forse anche questa una delle cause del crescente numero di astensioni dal voto? Ma guai se detta rassegnazione si consolidasse nella società. Per evitare ciò Francesco Paolo Casavola, eminente studioso del diritto romano e Presidente della Corte costituzionale, nel sua raccolta di saggi “Tornare alle radici, Per la ricostruzione delle basi della democrazia”, Cittadella Editrice, 2014, sottolinea come a monte del diritto romano che sviluppava un’idea individuale del diritto, si collocano tre comandamenti etici, raccomandati dai giuristi romani: non solo il “neminen laedere” e il “suum cuique tribuere” ma anche l’“honeste vivere” – tutti essenziali per la convivenza civile e la sopravvivenza della democrazia.
Potrei citare molti altri filosofi morali che hanno approfondito queste tematiche ma per la rilevanza e l’attualità della vita sociale di un paese come l’Italia che è in forte interdipendenza economica e culturale con altri Paesi membri non solo dell’Unione europea ma anche della Comunità internazionale, da economista credo che basti citare una frase del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco inserita non casualmente nelle Considerazioni finali lette il 31-05-2016: “La legalità è condizione cruciale per lo sviluppo. Rafforzare l’azione di contrasto dell’evasione fiscale, della corruzione e della criminalità organizzata, dando continuità alle iniziative poste in essere negli ultimi anni e intensificandone l’attuazione, può permettere di sostenere l’attività delle tante imprese competitive e corrette, garantendo che tutti rispettino le regole e non sia ristretto o falsato il gioco della concorrenza”. Senza legalità non c’è giustizia sociale e non c’è sviluppo. Al lettore spetta di valutare se certi governi passati e più recenti si siano mossi e si stiano muovendo in tale direzione.
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M. Molinari perchè è successo in Italia

Maurizio Molinari, Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa, la nave di Teseo, i fari, 2018
Perché è successo in Italia? Una prima risposta ad effetto potrebbe essere: perché in Italia si vuole scimmiottare il modello presidenziale americano, le primarie e i partiti liquidi da organizzare semplicemente come macchine elettorali. Non è casuale che in un Paese che storicamente ha avuto non pochi leader populisti e anche un partito definito People’s Party, nel 2016 sia stato eletto Donald Trump che del populista di destra è un outstanding champion. Anche in Italia nel passato non sono mancati episodi di populismo finiti anche tragicamente ma non voglio diffondermi su questo. Mi basti dire che anche in paesi di lunga tradizione democratica si manifestano fenomeni populisti di destra e di sinistra e chiusure sovraniste che non di rado sfociano in regimi illiberali quando non direttamente dittatoriali.
Ma veniamo alla domanda principale che Molinari si è posto – perché da noi? – e alle risposte che si è dato: diseguaglianze, migranti, corruzione e illegalità diffuse, la miopia e/o l’eutanasia dei partiti tradizionali, le politiche economiche implementate dall’UE dopo lo scoppio della crisi mondiale che hanno provocato una doppia recessione e riprese asfittiche, i nuovi spazi di azione politica offerti dal WEB e dai telefoni connessi a internet come strumento di rivolta, il vulnus della memoria che consente una pseudo o apparente legittimazione dello xenofobismo e i regimi autoritari e/o decisionisti rispetto alle procedure lente e farraginose delle istituzioni europee comunque affette da originario deficit democratico. Tutti questi motivi concorrono a determinare una situazione di malessere diffuso che ha portato gli elettori a sentirsi poco protetti e, quindi, insicuri rispetto al terrorismo islamico – in Italia fin qui latente in confronto ad altri paesi membri della UE, rispetto ai timori che suscita più o meno il passaggio ad una società multietnica, rispetto alla concentrazione del reddito e dei patrimoni nelle famiglie più ricche a cui si contrappongono le difficoltà del settore pubblico e delle imprese; rispetto al timore di perdere i benefici del welfare che diventa insostenibile solo perché è anatema anche per la sinistra implementare politiche redistributive più efficaci; rispetto all’aumento della disoccupazione dei giovani e di anziani che perdono il lavoro da politici irresponsabili attribuito alla concorrenza dei migranti e alle politiche europee – prima sottoscritte e poi denegate – che hanno portato la riduzione dei salari e dei diritti per le masse lavoratrici. In un tale contesto regole e migrazioni vengono spacciate come attacchi di un “nemico esterno” a cui altri politici irresponsabili pensano di opporre il ritorno al buon governo sovrano che decide autonomamente cosa è bene a casa sua ignorando che nulla può fare da solo per governare le forze della globalizzazione in un contesto di alta interdipendenza economica non solo per le c.d. mesoeconomie ma anche per le economie più grandi e più forti.
Concentrati sui problemi interni gli Stati membri dell’UE assistono inerti alla crisi di fiducia nei confronti dell’Europa, alla divaricazione o mancata convergenza tra regioni centrali e quelle periferiche rinviando l’esame di proposte pure ragionevoli sulla riforma dell’eurozona e dell’attuale governance.
Secondo me, l’UE dovrebbe muoversi anche sul terreno della lotta alla povertà. Si tratta di problema molto complesso ma va affrontato con giudizio e gradualità in chiave integrativa di quello che fanno i governi dei PM. Ci sono differenze territoriali e diseguaglianze molto forti ma va combattuta la linea di Schauble e dei suoi alleati secondo cui trattandosi di problemi storici all’interno dei PM sono essi che devono affrontarli. Sappiamo che un area valutaria ottimale funziona senza trasferimenti se non ci sono squilibri territoriali e di reddito ma in un’area regionale di grande dimensione è impensabile che non esistano squilibri. Tanto è vero che già dal 1973 l’allora CE si è dotata dello strumento della politica regionale. Senonché questa e gli altri strumenti dei fondi strutturali sono rimasti sempre largamente sotto finanziati. Se si insiste sulla posizione originaria, non si capisce il segnale che arriva dalle regioni periferiche. Anche in Italia Renzi nel 2016 non ha capito il segnale che arriva dalle periferie (p. 58).
Ora a fronte dell’aumento delle diseguaglianze; b) delle migrazioni; c) del fallimento delle strategie pure adottate (Lisbona, Europa 2020) per la convergenza e, conseguentemente dell’aumento degli squilibri territoriali Nord-Sud, Est-Ovest nel bel mezzo di una crisi mondiale scatenata dalla finanza rapace, l’UE stenta – non accenna nemmeno – a dare una risposta a questi problemi. Presa com’è dalla necessità di tamponare la crisi del debito sovrano di alcuni PM e dal problema di salvare le banche, fa il contrario. Si rifiuta di modificare il Regolamento di Dublino; 2) fa poco o niente per iniziare l’attuazione del c.d. pilastro sociale; per essere più precisi costituisce il Fondo per gli aiuti europei agli indigenti (FEAD) vedi regolamento UE n. 233/2014 nell’ambito della cooperazione allo sviluppo ma in parte utilizzato anche all’interno dell’Unione; 3) al momento dell’approvazione delle prospettive finanziarie nel 2014 riduce di 80 miliardi la proposta della Commissione e, di conseguenza, anche i fondi per la coesione sociale e la politica regionale. Al Gruppo di Visegrad in netto e aperto dissenso sulla politica delle migrazioni non riesce a contrapporre alcunché.
La linea restrittiva della c.d. austerity pesa sul welfare e sulle migrazioni seppure con qualche rilevante eccezione messa in atto dalla Merkel sui profughi siriani e utilizza i seguenti dati: la UE assomma il 7% della popolazione mondiale, il 25% del PIL con una spesa sociale al 50% della spesa pubblica. Questa sottrae risorse alla competitività e produttività del sistema e, quindi, non è sostenibile secondo i conservatori. I quali non tengono conto della legge di Wagner secondo cui al crescere del PIL cresce la domanda di beni pubblici tra cui Sanità e istruzione. Una popolazione sana che pratica anche al formazione permanente (long life learning) rafforza la produttività della forza lavoro non senza trascurare che la popolazione europea si colloca tra le più vecchie del mondo e, quindi, richiede comunque più cure e più assistenza anche domiciliare, fa meno figli e quindi non solo per virtù ma anche per necessità può o deve avere una politica di accoglienza e inclusione dei migranti per mantenere il suo equilibrio demografico.
Ora basterebbe riflettere sul dato macro sulle migrazioni a livello mondiale (68 milioni di persone) per esaminare nella giusta prospettiva il problema dei flussi migratori in Europa dove i migranti che cercano di entrare nella UE si aggirano sui 2-3 milioni. Ma i politici populisti e sovranisti parlano di invasione, agitano la paura del diverso e su di essa prosperano. Sostengono che la disoccupazione dei lavoratori europei con qualifiche basse sia dovuta alla concorrenza dei migranti di norma con livelli di istruzione e formazione ancora più bassi di quelli dei cittadini europei. Certo non si può negare che ci sia una disponibilità dei lavoratori migranti ad accettare salari più bassi ma questo ci riporta alla teoria dell’esercito industriale di riserva che frena il potere contrattuale dei sindacati dei lavoratori e garantisce non solo la flessibilità nell’utilizzo della forza di lavoro ma aiuta anche a mantenere bassi i livelli salariali. Populisti e sovranisti sottacciono che i due problemi principali possono trovare adeguata soluzione solo con una politica di piena occupazione a livello europeo l’unica che può contribuire alla lotta della povertà di tutti e all’inclusione sociale dei migranti.
Questo sul terreno economico. Su quello politico la contorta e iniqua regolazione politica delle migrazioni all’interno dell’Europa aiuta i populisti e sovranisti di destra a diffondere la paura del diverso e su di essa costruire le loro fortune politiche.
Tornando alla politica, concordo con Molinari che è entrata in crisi la capacità dei partiti di relazionarsi con le masse; alcuni decenni di critiche per la verità in grossa parte fondate alla partitocrazia non sono passati inutilmente; siamo quindi passati al leadersimo e alla personalizzazione della politica che ha caratterizzato la seconda Repubblica. Anche questa non ci ha fatto mancare la corruzione e conflitti di interesse macroscopici dei suoi leader e di molti esponenti specie capi-corrente dei partiti che hanno portato i cittadini a identificare nei partiti la fonte della corruzione. Se i partiti e gli altri corpi intermedi sono strutture portanti della democrazia, il passaggio a quelli liquidi, leggeri e alle macchine elettorali indebolisce inevitabilmente la democrazia. Se a questo aggiungiamo la continua manipolazione del sistema elettorale che conserva le liste bloccate per cui il cittadino elettore non può scegliere il candidato da votare si capisce come sia potuto aumentare il rigetto della politica o la crescita dei movimenti anti-sistema. Se non ultimo considero i 30-35 anni di egemonia neoliberista a livello europeo che assume che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato, che l’individuo è il miglior giudice di se stesso e non ha bisogno delle mediazioni di alcun corpo intermedio, che l’individuo razionale è quello che massimizza il proprio interesse individuale, ci rendiamo conto che il neoliberismo non è una dottrina economica semplificata ma è anch’esso – come il populismo e il sovranismo – un nemico della democrazia le cui sorti si giocano non in un singolo paese ma anche nelle grandi aggregazioni sovranazionali e nel mondo intero.
Allora se dovessi identificare due altre ragioni specifiche della crisi del nostro Paese li indicherei nel frazionismo, nella scissione tra morale e politica, nel basso livello di coesione sociale che caratterizzano non pochi italiani.
Non c’è rigore morale negli italiani che per secoli hanno accettato un sistema di doppi valori e non c’è nei partiti e, meno che mai, nei populisti che si identificano con il popolo che pretendono di rappresentare come un soggetto coeso, razionale e che sa esattamente quello che vuole perché caratterizzato da preferenze omogenee. Forse la responsabilità maggiore dei partiti prima della loro liquefazione è quella di non avere promosso una rigenerazione morale degli italiani, premessa fondamentale per sviluppare il senso civico e la coesione sociale e non ultimo una più alta accountability di tutta la classe dirigente (pubblica e privata) del Paese. Queste ultime sono le considerazioni che mi sento di aggiungere a quelle assunte nel libro di Molinari scritto brillantemente, facilmente leggibile e ricco di spunti su cui riflettere attentamente se si è d’accordo con Platone che definiva la crisi della democrazia come anticamera della tirannide o – come si dice ora – del mostro mite.
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I nodi irrisolti della democrazia di massa.

Non farsi ingannare dal titolo del libro di Jason Brennan, Contro la democrazia, LUISS, 2018. L’autore non è sul serio contro la democrazia. Lui individua i suoi punti deboli per cui la democrazia funziona male ed esamina i possibili rimedi concentrandosi sulla epistocrazia.
Parte dalla premessa che ci sono voluti quasi due secoli di lotte per passare dal suffragio censuario a quello universale. Quest’ultimo è ormai diventato un simbolo di eguaglianza tra tutti i cittadini. Un simbolo e non molto di più perché il problema più grave è quello di essere ammessi al voto ma se poi non sai chi voti e per cosa voti, se non voti perché ritieni che il tuo singolo voto non influenzerà l’esito della stessa votazione, allora molti decidono di astenersi. Se per capire i programmi che i politici prospettano agli elettori sono difficili da capire e non hai né il tempo, né la voglia, né le competenze per percepirli nella loro reale portata, allora la democrazia funziona male.
Brennan suddivide l’elettorato in tre categorie: gli hobbit, gli hooligan e i vulcaniani: “gli hobbit sono cittadini scarsamente informati, con scarso interesse e scarsi livelli di partecipazione politica; generalmente, si caratterizzano per un impegno ideologico debole o instabile”. Si potrebbe dire banderuole che svolazzano secondo la direzione del vento; per dirla in maniera brutale sono ignoranti circa il funzionamento della democrazia, su come vengono definite le politiche pubbliche, su come ragionano i politici al potere, su come funzionano le burocrazie e, quindi, su come vengono attuate le politiche approvate dai parlamenti, allora si capisce come molte decisioni degli elettori sono contraddittorie e confuse; questa ignoranza non è sempre dovuta alla mancanza di istruzione – come molti pensano – ma è anche c.d. ignoranza razionale di chi non sapendo come valorizzare la sua conoscenza degli affari politici non vede quale beneficio personale può trarne.
“Al contrario, gli hooligan sono cittadini molto informati e impegnati nei confronti della politica e della propria identità ideologica. Per loro fare politica è come tifare per una squadra” (definizione che Brennan ha recepito da Drew Stonebraker).
I vulcaniani, infine, sono un idealtipo – pensatori perfettamente razionali e molto informati, senza eccessiva lealtà per le proprie convinzioni”.
Come precisa De Mucci in una nota della sua introduzione al volume “i vulcaniani sono un’immaginaria specie aliena umanoide dell’universo fantascientifico di Star Trek (nella serie ideata da Gene Roddenberry, 1980) originaria del pianeta Vulcano: prototipo il dott. Spock. Sono caratterizzati da un forte senso della ragione e della logica, con una totale repressione degli stati emozionali”.
In pratica, “la democrazia è il governo degli hooligan e degli hobbit” perché il principio maggioritario richiede la sommatoria di queste due grandi componenti dell’elettorato moderno. I vulcaniani essendo in ogni caso una minoranza potrebbero essere relegati fuori dal gioco della politica. In realtà non è così da un paio di secoli si è teorizzato il ruolo guida delle c.d. elites o classi dirigenti tra cui, non di rado, vengono accolti i vulcaniani con il sostegno dei poteri invisibili.
E questo perché, presa alla lettera, la democrazia si regge sul principio maggioritario. E la maggioranza è una questione di numeri o voti che si sommano. Ma i numeri non bastano. Possono sommarsi per raggiungere una maggioranza risicata o una larga. Ma il fatto che si raggiungano certi quozienti non significa che le preferenze si aggreghino in maniera coerente, che si rispettino i diritti della minoranza, che si evitino forme di sfruttamento degli uni sugli altri. Gli economisti che si occupano di economia del benessere sanno che le economie lavorano di norma al di sotto della frontiera del benessere. Si intende come frontiera quella tecnologica: date le risorse di capitale e lavoro, e data la tecnologia produttiva si produce il reddito massimo. Ma per passare sulla frontiera del benessere serve passare agli aspetti distributivi delle risorse prodotte perseguendo il massimo di utilità della collettività. Assumendo che ogni combinazione produttiva nell’economia capitalistica implica una distribuzione tra salari e profitti. A partire da una distribuzione data, si danno tre casi: a) tutti migliorano; b) un gruppo sta fermo dov’è e l’altro migliora; c) sulla frontiera del benessere non è possibile migliorare la posizione del gruppo A senza togliere qualcosa a B.
Se la distribuzione delle risorse che emerge spontaneamente dal mercato viene ritenuta socialmente inaccettabile e/o insoddisfacente, ad un governo che vuole affrontare i casi b) e c) serve una teoria della giustizia sociale. E se la maggioranza è composita come detto sopra è molto probabile che all’interno delle stessa si manifestano preferenze disomogenee, allora si aprono margini di discrezionalità che i politici al governo possono utilizzare in buona e cattiva fede.
Quindi, di mezzo, ci stanno anche le illusioni finanziarie e gli inganni della politica. Quando le preferenze non si aggregano i politici hanno grossi margini di mediazione e di inganno. Si dice che la democrazia si basa sul consenso dei governati. Ma quale consenso? Per lo più quello disinformato. E illustra l’analogia con il “consenso informato” che il malato dà al chirurgo, al clinico
Nella epistocrazia i voti si pesano o si ponderano. A queste conclusioni era arrivato Pareto oltre un secolo fa nel suo manuale di Sociologia: era la classe governante che in qualche dove trovare il massimo di utilità per la collettività assegnando dei pesi ai sacrifici dei ricchi che dovevano finanziare certe politiche redistributive e ai benefici che i più deboli ricavano dalle politiche sociali.
Come noto, la proposta dell’epistocrazia risale a Platone e Aristotele ma avverte chiaramente Brennan: “quando evoco i vulcaniani non intendo dire che dovranno governare, o che le epistocrazie dovrebbero dare più potere a loro rispetto a hooligan e hobbit”. L’autore è anche avvertito della c.d. obiezione demografica, ossia, del fatto che l’epistocrazia favorirebbe i cittadini con maggiori conoscenze degli affari politici. Lui discute e mette in evidenza i limiti della teoria ingenua della democrazia sui giocano populisti e sovranisti di ogni risma. Alla fine lui afferma che la democrazia è solo uno strumento, come un martello. Quello che conta veramente non è se votano tutti: “conta come gli elettori votano”. Per giudicare le forme di governo o la qualità delle democrazie, riprendendo una frase di John S. Mill, Brennan scrive che bisogna guardare ai risultati, bisogna guardare non solo a come i governi attuano i diritti individuali o a come fanno crescere il benessere ma anche al modo in cui influenzano le virtù intellettuali e morali dei cittadini.
Fin qui le riforme costituzionali italiane sono intervenute non per migliorare la qualità della democrazia ma per rafforzare il ruolo del governo – detto in maniera asettica – per migliorare la governabilità. In realtà, il governo si è rafforzato in fatto abusando del potere di decretazione di urgenza, estorcendo al Parlamento deleghe ampie, ponendo il voto di fiducia su maxiemendamenti preparati nottetempo, ecc. ora è il tempo di decidere se si vuole continuare su questa strada rafforzando il ruolo del governo e calpestando la separazione dei poteri oppure se si vuole un governo debole in cambio di uno Stato, di una democrazia forte che rispetta la separazione dei poteri e garantisce i diritti civili e sociali dei cittadini. Sfortunatamente per noi italiani, l’affermarsi vigoroso dei partiti populisti e sovranisti in Italia e in Europa sembra confermare il primo scenario.
Se infine guardiamo a come i governi hanno influenzato le virtù intellettuali e morali degli italiani, nei primi anni ’90, abbiamo assistito alla fine indegna della prima Repubblica affogata nella corruzione. L’andazzo non è significativamente migliorato nella seconda. E l’esordio della terza Repubblica non promette niente di meglio.
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Democrazia malata 2

Quello che segue è il seguito del mio precedente post sulla democrazia malata. Nel frattempo ho potuto assistere alla presentazione di alcuni studi di analisi del voto che legano la rinascita dei movimenti populisti agli effetti delle crisi economiche e, da ultimo, della crisi mondiale 2008-13. Di certo, non si può dire che il combinato disposto della accelerazione del processo di globalizzazione e la crisi mondiale siano irrilevanti. Infatti, mentre la prima ha ridotto le diseguaglianze tra paesi ricchi e quelli in via di sviluppo, la seconda ha prodotto una più forte concentrazione della ricchezza: i ricchi sono diventati più ricchi e i poveri sempre più poveri; neanche la classe media è stata risparmiata dalla caduta della crescita e dell’occupazione. Ma questo è un fenomeno di fondo in corso da circa trenta anni. Come noto, la classe media dove c’era storicamente ha esercitato per lo più un ruolo di stabilizzazione del sistema anche nei paesi con sistemi elettorali maggioritari. Questi in teoria facilitano l’alternanza al governo e, in alcuni casi, destabilizzano la condotta delle politiche economiche, migratorie e quant’altro. Ma per fare un esempio emblematico, l’ascesa di Trump al potere negli USA non si spiega solo con la crisi mondiale dell’economia, dalla quale – grazie alle tempestive decisioni economiche e finanziarie di Obama – l’America è uscita per prima con una sola recessione. Le cause di fondo dell’ascesa dei movimenti populisti e sovranisti sono molteplici e hanno a che fare, in primo luogo, con la incapacità dei governi di affrontare in maniera efficiente ed efficace i problemi della gente per via della qualità delle politiche economiche e sociali adottate.
Giovani e anziani non hanno più fiducia nel sistema che nega loro quella che era l’aspirazione comune di tutte le famiglie: un futuro migliore per le nuove generazioni. In prospettiva, anche l’impatto delle nuove tecnologie che sostituiscono lavoro con robot cambia lo scenario a medio-lungo termine per cui un lavoratore cinquantenne che perde il lavoro ha maggiori difficoltà a trovarne uno nuovo. Tutti parlano delle tre elle (long life learning), di formazione permanente ma in fatto, alcuni governi fanno poco per contrastare la riduzione dei lavori stabili per cui le imprese non sono interessate a investire per l’arricchimento delle competenze dei loro lavoratori se le prospettive di crescita delle stesse sono caratterizzate da alta incertezza e se lo Stato che ha sposato la ideologia neoliberista deve spendere sempre meno e, di conseguenza, taglia i fondi per la formazione, per la scuola e l’università. Analogamente negli USA, vedi Edoardo Campanella che cita il Rapporto economico del Presidente 2015 dove si afferma che i fondi per la formazione fuori o nei posti di lavoro sono diminuiti sistematicamente dal 1996 al 2008.
Gli USA sono il paese con la più lunga esperienza di Presidenti populisti ma le loro vicende (a partire da quella di Jefferson) non sono sempre legate alle conseguenze di crisi economiche. Non c’è dubbio che la crisi economica abbia contribuito a determinare un certo cambiamento nelle preferenze politiche dei cittadini ed elettori ma, secondo me, le cause della rinascita dei movimenti populisti, sovranisti e autoritari in molte democrazie del mondo vanno cercate innanzitutto nelle disfunzioni del meccanismo democratico e nella insoddisfazione diffusa che ne discende. Per la gente comune, ignara dei problemi politici più complessi, le forme di governo rilevano per la loro capacità di risolvere i suoi problemi. Non importa se essi sono risolti dal dittatore onnisciente o populista purché siano risolti. Non è consapevole dei difficili problemi dell’aggregazione delle preferenze eterogenee per cui, spesso, vengono interpretati a modo loro dagli uomini politici.
Su questi temi è illuminante il libro di Yascha Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale. Feltrinelli, Serie Bianca, 2018. Un libro interessante, ricco di informazioni e spunti di riflessioni riguardanti i principali paesi del mondo che sono investiti dal fenomeno non nuovo ma che trova nuove fonti di alimento nella globalizzazione e nella finanziarizzazione dell’economia. Anche l’Italia è un caso di scuola se un partito populista come il M5S nel giro di una legislatura è riuscito ad arrivare al governo sia pure non da solo. Secondo Mounk che conosce bene l’Italia per esserci vissuto a lungo, “il sistema politico italiano è al tracollo perché combattere il populismo corrotto che ha prevalso in Italia per i venti anni della seconda Repubblica con un populismo che a parole si proclama meno corrotto gli darà solo il colpo di grazia”. La sequenza pericolosa che intravvede è la disgregazione della democrazia liberale che dà luogo in via intermedia alla democrazia illiberale (modello Polonia), al liberalismo antidemocratico della struttura sovranazionale dell’Unione europea e, infine, alla dittatura di Putin in Russia. Naturalmente si tratta di casi emblematici e/o di modelli a cui Mounk aggiunge il Canada come modello di democrazia liberale che ha saputo coniugare la immigrazione e, quindi, la democrazia multietnica con i diritti individuali.
Nella sua lunga analisi cita tante altre esperienze concrete dove il combinato disposto del populismo e dell’approccio neoliberista alla gestione degli affari pubblici ha portato alla instaurazione di regimi autoritari e/o di dittature più o meno soft. Non solo, in tutto il mondo gli esperimenti democratici più fragili sono stati repressi e le democrazie più fragili sono degenerate in dittature ma dopo l’avvento di Trump negli Usa e l’ascesa dei partiti populisti e sovranisti nell’Europa occidentale sta disgregando i presupposti fondamentali della democrazia liberale in questi paesi.
Mounk precisa che intende per democrazia liberale un sistema che: a) rispetta la libertà di parola; b) la separazione dei poteri; c) tutela i diritti individuali. Sono principi fondamentali su cui concordo ma che oggi non bastano più perché come lui stesso dimostra subito dopo ci sono democrazie senza diritti (cap. 1) e sistemi con diritti individuali ma senza democrazia (cap. 2). Vedi al riguardo quanto sostiene Axel Honneth, ora direttore della Scuola di Francoforte, che imputa il fallimento del trittico della Rivoluzione francese al fatto che nel corso del XIX secolo i partiti liberali dominanti la scena politica hanno inteso la libertà e le sue diverse dimensioni come fatto individuale e non come diritto sociale di pertinenza non solo del singolo individuo ma soprattutto delle classi sociali più deboli. PQM sarebbe opportuno che chiunque parla o scrive di diritti esplicitasse una loro articolata tassonomia.
Una spiegazione a parte merita la classificazione dell’Unione europea come liberalismo antidemocratico. Non è una novità. Che nelle istituzioni europee ci sia un deficit democratico è riconosciuto dagli osservatori più avveduti. Origina dall’idea di procedere con l’integrazione economica stabilendo prima un mercato comune e poi quello unico. Per altro verso il crollo del sistema dei cambi fissi ma aggiustabili (Bretton Woods) impose gradualmente l’attuazione del sistema monetario europeo e dopo la moneta unica – ovviamente perché un mercato unico chiede una moneta unica. Origina dal compromesso tra alcuni Paesi membri che avrebbero voluto una struttura schiettamente federale e quanti hanno accolto la posizione storica della Francia a favore dell’Europa delle patrie. E da ultimo dalla riluttanza dei governi dei Paesi membri a cedere ulteriore sovranità al centro perché in preda a rigurgiti nazionalistici. Si è quindi creata la Banca Centrale Europea elencata come istituzione (vedi art. 13 del TUE) ma che in realtà è una autorità amministrativa indipendente. Non è l’unica e, per giunta, Mounk classifica la Commissione europea come la più potente AAI. La combinazione di una serie di autorità amministrative indipendenti che svuotano il Parlamento e la Commissione del loro potere legislativo e regolamentare, che restano subordinati al via libera e all’approvazione definitiva del Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. Se poi si considera l’inestricabile reticolo di Trattati intergovernativi che disciplinano l’attività di organi appositamente previsti per cercare di risolvere problemi fuori dalla portata dei singoli paesi membri emerge un sistema di governance senza legittimazione popolare diretta ad un tempo farraginoso, lento, inefficiente, bizantino ed incomprensibile per la gente comune che lo percepisce come una imposizione dall’alto. Tutto questo e anche per come è stata gestita la grande crisi del 2008-13 (doppia recessione, riduzione del reddito e dell’occupazione, aumento delle diseguaglianze, mancata convergenza delle regioni periferiche, problemi dell’immigrazione, ecc.) ha creato forti elementi di disaffezione quanto non di ostilità nei confronti del progetto europeo su cui speculano i movimenti populisti e sovranisti ormai presenti in tutti i paesi membri compresi quelli scandinavi che avevano una tradizione consolidata di democrazia liberale.
La democrazia si sta deconsolidando è il titolo del cap. 3 a cui seguono paragrafi sui “cittadini che sono disamorati della democrazia”, che sono “sempre più aperti alle alternative autoritarie” per cui non si scandalizzano dei leader che non rispettano le norme della democrazia. Ancora più preoccupanti i dati che cita nel paragrafo “i giovani non ci salveranno”: “in tutto il mondo una persona su dieci ritiene che la democrazia sia un modo cattivo molto cattivo di guidare un paese”; in Polonia 1/6; tra i millennials USA quasi ¼”.
Tutto questo significa che l’attaccamento ai valori democratici di lungo termine si è indebolito tra la gente comune mentre i nuovi mass media hanno creato nuovi spazi per gli outsider della politica e/o politici antisistema che, ogni giorno, dispensano bugie e odio a man bassa. Gli standard di vita della gente comune si sono abbassati e soprattutto hanno perso la fiducia in un futuro migliore per se stessi e per i loro figli. In alcuni paesi le migrazioni – ampiamente sopravvalutate nelle dimensioni numeriche – stanno creando una transizione difficile da una società monoetnica a quella multietnica che viene abilmente sfruttata dai populisti e sovranisti. Da qui la rinascita delle spinte nazionaliste. Guardando ai rimedi, Mounk cita l’esperienza fondamentale dei leader integrazionisti negli USA – paese con lunga esperienza multietnica – i quali non ripudiavano i valori costituzionali e valorizzavano l’amore dei bianchi per essi. Al contrario, la sinistra in alcuni paesi europei ha abbandonato il patriottismo inclusivo lasciando spazio alla destra che lo occupa a scopi esclusivi, divisivi e xenofobi. In questi termini Mounk recupera l’ideale del nazionalismo inclusivo che a prima vista mi aveva lasciato interdetto. Afferma che il nazionalismo è animale mezzo selvatico e mezzo addomesticato. Bisogna addomesticarlo del tutto al meglio possibile e cita di nuovo il modello Canada.
Mounk dedica il cap. 8 al risanamento dell’economia. Cita alcuni dati significativi sulla crescita dell’economia USA: nel ultimi 30 anni, il PIL pro-capite è cresciuto del 59%; il patrimonio netto del 90%; i profitti aziendali del 283%; dal 1986 al 2012 solo l’1% della crescita totale della ricchezza è andata al 90% delle famiglie mentre il 42% è andato allo 0,1% delle famiglie più ricche. Potrei aggiungere altri dati di Atkinson, Piketty e Franzini & alios per l’Italia che dimostrano come la distribuzione fatta dal mercato abbia funzionato al contrario di come ci si aspetterebbe. Ma l’aspetto più impressionante di questa vicenda – ed io concordo con Mounk – è che a determinare questi risultati hanno largamente contribuito le scelte economiche e fiscali dei governi di centro-destra e centro-sinistra che si sono alternate al governo negli ultimi trenta anni. Si tratta di tendenze di fondo in parte fuori dal controllo dei governi nazionali afferma Mounk. Ma questa affermazione merita qualche precisazione. Ci sono vincoli esterni di carattere esterno che molti governi hanno recepito come leggi naturali mentre sono il frutto di scelte neoliberiste che ripongono una grande fiducia nella teoria dei mercati efficienti e che i governi non hanno voluto o saputo contrastare. Da questa constatazione, Mounk fa discendere un rimedio ovvio: se sono le politiche fiscali che hanno ridotto le tasse ai più ricchi è ovvio che la risposta sarebbe quella di aumentarle a chi ha maggiore capacità contributiva. Ma emblematicamente vediamo che la risposta che viene dal nostro governo giallo-verde di populisti e sovranisti: la flat tax e il reddito di cittadinanza. La prima si pone in perfetta continuità con alcune scelte scellerate dei governi precedenti: tassare di più i consumi e meno le persone; la seconda che, in teoria, si muoverebbe nella giusta direzione sarà ridimenzionata drasticamente dai vincoli di bilancio europei e non basterà a compensare neanche in parte gli effetti sperequativi della prima. Si tratta di problemi complessi che vengono presentati in maniera eccessivamente semplificata e per la cui soluzione vengono prospettate soluzioni semplici ma illusorie. Non di rado, gli stessi politici e la gente comune non riescono a squarciare il velo delle illusioni finanziarie che i primi producono.
Più in generale, è chiaro che se non si riesce ad affrontare sul serio e superare il regime di concorrenza fiscale a livello planetario ed europeo, gli Stati nazionali continueranno a incontrare forti limiti nel tassare i redditi e i patrimoni più alti. E da qui anche il limite di quanti sostengono che per rivitalizzare la democrazia liberale bisogna rivitalizzare il Welfare state. Non ci si rende conto che il regime di concorrenza fiscale è stato introdotto proprio con l’obiettivo di “affamare la bestia” – tipico slogan neoliberista – e abbattere lo Stato sociale. Ciò posto è chiaro che anche la proposta di Mounk sulla riforma radicale del welfare con il superamento del legame tra benefici e i contributi legati al lavoro soffre dello stesso limite. Occorrerebbe quindi abbandonare il sistema contributivo e tornare al sistema redistributivo classico finanziato attraverso imposte generali personali e progressive. Dato che cresce il numero delle persone che vivono con la ricchezza ereditata o accumulata grazie al malfunzionamento o alla cattiva regolazione del mercato e stante che il lavoro diventa sempre più discontinuo e mal pagato la proposta di nuove regole redistributive hanno un grosso fondamento logico ed etico ma non mi sembra che il dibattito politico in Italia e in Europa si stia muovendo in questa direzione. Sintomatica la freddezza e la disattenzione con cui è stata trattata la proposta di Bill Gates di tassare i robot.
A conclusione del capitolo viene ineluttabilmente in evidenza il legame tra risanamento economico e riforma del welfare. Il primo significa spingere l’economia verso la frontiera della produzione con il massimo impiego di tutte le risorse disponibili (capitale e lavoro) in uno scenario di economia sostenibile nel medio-lungo termine, risolvendo il problema della stagnazione ormai pluridecennale, alias, investendo intensivamente per migliorare la produttività del sistema produttivo, dei servizi pubblici e privati, risolvendo il problema della concorrenza fiscale a livello mondiale. E qui gli affari si complicano enormemente perché se è difficile tecnicamente la prima parte del lavoro, ancora più difficile è la seconda parte per via delle difficoltà politiche a quel livello.

Axel Honneth, L’idea di socialismo. Un sogno necessario, Campi del sapere, Feltrinelli, 2016

https://www.project-syndicate.org/commentary/lifelong-learning-cognitive-constraints-by-edoardo-campanella-2018-07
enzorus2020@gmail.com

La democrazia è malata terminale?

La crisi della democrazia, della politica, dei partiti strutturati di una volta, da una parte, l’affermarsi di partiti anti-sistema, di movimenti populisti in giro per il mondo e di quelli c.d. sovranisti all’interno dell’Unione europea alimentano un dibattito continuo tra costituzionalisti, politologi ed economisti che temono la degenerazione ulteriore della democrazia da Platone vista come anticamera alla tirannia o al mostro mite.
Nel 1975 avviene la svolta ideologica con il trionfo della Scuola di Chicago monetarista e neoliberista: i fallimenti dello Stato molto più gravi dei fallimenti mercato. Quindi: no alle manovre keynesiane sulla spesa pubblica in deficit per far crescere l’economia e l’occupazione perché esse producono alti deficit e alti debiti, inflazione e instabilità finanziaria. Le banche centrali devono annunciare un dato tasso della crescita monetaria e l’economia reale si deve adattare ad essa. Come sappiamo gli anni settanta del secolo scorso dopo il crollo del sistema a cambi fissi ma aggiustabili si caratterizzano per un forte conflitto distributivo tra i paesi ricchi e gli esportatori di petrolio (organizzati dall’Opec) e di altre materie prime. L’inflazione raggiunge livelli attorno al 20% e l’Italia che era rimasta indietro nell’attuazione del welfare state lo ha spinto in avanti anche con finanziamenti in deficit.
L’onda neoliberista nel 1979 raggiunge l’Inghilterra con la Thatcher e nel 1980-81 gli Stati Uniti co Reagan che aveva già guidato la California come governatore. Entrambi accreditavano l’idea che il governo grosso fosse il problema da risolvere e non la soluzione. Questo ha prodotto via via la delegittimazione dello Stato e delle istituzioni che lo compongono.
Dieci anni dopo nel 1989 arriva il crollo dell’Unione sovietica, l’Impero del male che Reagan aveva costretto ad aumentare fortemente le spese militari a danno dei consumi. Vince la corsa il sistema occidentale. Ormai le multinazionali operano su scala mondiale. I neoliberisti predicano il mantra dell’individuo miglior giudice di se stesso, alias, individualismo metodologico, dell’individuo razionale inteso come quello che massimizza il proprio interesse individuale. In sintesi un individuo che non ha bisogno delle mediazioni dei partiti e/o di altri corpi intermedi.
Per altro verso, gli effetti della globalizzazione portano alla verticalizzazione del processo decisionale verso livelli sovranazionali della c.d. governance per lo più priva di legittimazione democratica che tuttavia assume decisioni rilevanti. A livello statale resta una rappresentanza politica a cui in fatto non manca la legittimazione ma non può decidere niente di veramente importante e, quindi, va in crisi. Infatti, uno Stato nazionale di stampo ottocentesco rimane troppo piccolo per influenzare le decisioni a livello globale e troppo lontano dalla gente per capire bene i suoi bisogni. Si aggrava la crisi di identità e di legittimazione.
La reazione dei costituzionalisti più giovani è stata a livello europeo il rafforzamento del governo nazionale che nel contesto della nuova era della ICT (information e communication Technology) che ha annullato spazio e tempo dovrebbe poter decidere velocemente in linea con i tempi ragionando come se le decisioni dei governi fossero analoghe a quelle degli operatori di borsa e, soprattutto, trascurando che i tempi della democrazia sono necessariamente lunghi.
Secondo me la risposta dei costituzionalisti citati è stata sbagliata perché non ha senso decidere velocemente a livello sub-centrale se a Bruxelles i tempi medi per decisioni importanti calcolati dall’ex Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz vanno da 2,5 a 3 anni. Vedi il suo libro: Il gigante incatenato.
È in crisi lo Stato nazionale ma allo stesso tempo non sono migliorate le istituzioni sovranazionali aggravando il loro deficit democratico. Ultima opportunità per l’Europa’ Fazi Editore, 2014, recensito in questo blog.
È subentrata la sfiducia dei cittadini confronti dello Stato nazionale e delle organizzazioni sovranazionali e questo spiega l’abbassamento della partecipazione in corso in molti Paesi occidentali a partire dagli USA. La democrazia forse non è malata terminale ma di certo non sta bene.
Ho ricordato sopra come il trionfo della Scuola monetarista e neoliberista coincida con la fine dei c.d. trenta gloriosi (1945-75) durante i quali, soprattutto nell’Europa centro-settentrionale, si afferma il c.d. compromesso socialdemocratico, ossia, il compromesso tra capitalismo e democrazia, capitalismo e diritti sociali dei lavoratori che sono alla base dell’affermazione del Welfare State. Seguono i quaranta vergognosi in cui per i motivi visti sopra si registra non solo il declino della dialettica democratica e nell’ambito della globalizzazione, la finanziarizzazione più elevata dell’economia guidata dalla finanza rapace di Wall Street. Si dice che l’economia è prevalsa sulla politica ma su entrambe domina la finanza rapace attraverso le sue agenzie di rating che sistematicamente danno le pagelle di buona condotta non solo alle grandi imprese planetarie ma anche ai governi di Paesi grandi e medi per come gestiscono le loro economie e le loro finanze pubbliche. Riempiono il vuoto lasciato dalla governance sovranazionale e dall’incapacità dei paesi industriali di coordinarsi sul serio come gruppi informali: il G7, G8, G10, G20 e Gitanti.
L’UE nell’ultimo decennio da un sogno si è trasformato in un incubo. Molti osservatori con eccesso di semplificazione attribuiscono la causa all’euro. Non è così. La vera causa è intanto la crisi prima finanziaria e poi economica prodotta dalla finanza rapace di Wall Street e i suoi complici nelle banche europee che hanno dato mutui a gogo e costruito una montagna di prodotti derivati per assicurare le loro operazioni spericolate. Durante e dopo la crisi la vera causa è stata ed è avere imposto una ricetta unica per tutti con la politica economica dell’austerità che molti non distinguono dall’euro.
Ora se questo è vero – come ritengo – è chiaro che la via di uscita non sta nel ritorno allo stato sovrano, né nell’uscita dall’euro ma nella riforma del Patto di stabilità e crescita come novellato nel 2011con il concorso diretto del Parlamento europeo. Dopo la brutta performance del Patto durante e dopo la crisi si era creato un certo consenso perché l’argomento fosse trattato nel Consiglio europeo del 28-29 giugno scorso ma purtroppo ciò non è stato possibile per via della presunta crisi migratoria agitata dal Vice-presidente del Consiglio Salvini, ossia, da parte del rappresentante di uno dei paesi membri che più degli altri hanno bisogno di tale riforma per spingere la crescita del PIL e dell’occupazione.
Il ritorno allo Stato nazionale è l’unica via possibile? No, perché come detto sopra, lo Stato nazionale è troppo piccolo per potere affrontare da solo i problemi della globalizzazione senza subire l’egemonia dei paesi grandi come continenti.
Altri legano la via uscita al rilancio del welfare europeo. Anche se la proposta non è priva di logica essa al momento appare utopistica e incongrua perché come gli analisti più attenti sanno, nonostante gli attacchi sferrati attraverso la concorrenza fiscale, il welfare dei paesi membri dell’Unione resiste ed è identificato come modello sociale europeo. Tuttalpiù si tratterebbe di armonizzare i diversi sistemi e stabilire livelli essenziali di assistenza omogenei nei vari paesi membri. La costruzione di un welfare state intestato direttamente all’Unione, anche se auspicabile in teoria, non è nell’agenda politica nonostante il Manifesto di Goterborg 17-11-2017. Infatti la Germania e i suoi alleati del Nord si oppongono decisamente a tale obiettivo per via dell’alto contenuto redistributivo dei sistemi di welfare attraverso flussi consistenti di trasferimenti solidali dai paesi ricchi a quelli poveri. E sappiamo che sé l’eurozona non funziona come dovrebbe è perché non sono stati previsti e tuttora non sono all’ordine del giorno trasferimenti compensativi per aiutare le regioni periferiche a crescere, convergere con quelle centrali, ridurre i gap di infrastrutture materiali e immateriali, migliorando produttività e competitività di dette regioni con valore aggiunto europeo ed esternalità positive per tutti. E purtroppo le nubi che si addensano sulle elezioni europee della Primavera 2019 con una probabile maggiore presenza di forze populiste e sovraniste di destra non promettono niente di buono.
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