Perché il Presidente della Repubblica ha revocato l’incarico al prof. Conte?

Il Presidente della Repubblica ha agito così perché doveva salvaguardare le sue prerogative (il ruolo di garanzia) e i risparmi degli italiani. Il secondo obiettivo è stato confermato dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ieri 29 maggio nelle sue Considerazioni finali alla relazione della Banca d’Italia. C’è del vero e del falso nell’affermazione del Presidente della Repubblica. C’è del vero perché una eventuale improbabile uscita dall’Italia provocherebbe danni a tutti non solo alle famiglie più ricche che magari investono solo in attività finanziarie che alimentano la classe dei possessori di rendite (rentiers) ma anche agli italiani che non riescono a risparmiare alcunché vuoi perché sono disoccupati, inattivi o perché guadagnano redditi talmente bassi che non consentono loro di risparmiare o di curarsi. Per questi ultimi la crisi ridurrebbe le risorse che potrebbero essere spese per creare nuovi posti di lavoro.
L’argomento è che la fuga di capitali nazionali e le vendite di titoli pubblici da parte di investitori esteri provocherebbe – come sta provocando in questi giorni – un aumento dello spread e/o differenziale dei rendimenti sui BTP rispetto al bund tedesco in prospettiva con forte aumento del costo del servizio del debito pubblico. La scelta del Presidente Mattarella sarebbe stata motivata da scritti del prof. Savona circa una eventuale uscita dell’Italia dalla moneta unica. In tale ipotesi, l’Italia resterebbe senza lo scudo europeo del meccanismo salva Stati. Il paese rischierebbe di rimettere in moto la spirale inflazionistica con aumenti dei prezzi, tentativi di recuperi salariali e svalutazioni competitive che caratterizzarono la situazione italiana degli anni settanta dopo il crollo (1971) del sistema di cambi fissi definito a Bretton Woods (New Hampshire) nel 1944. L’abbandono di detto sistema per iniziativa USA ci portò ad un aspro conflitto distributivo non solo interno ma anche internazionale vedi i due shock petroliferi del 1973 e 1979 e l’aumento dei prezzi di altre importanti materie prime. Lo ripeto fuori dall’euro, la nuova lira potrebbe contare solo sull’assistenza del FMI e sappiamo come questa organizzazione si comportò nel 1963-64 e nel 1974. Nella seconda crisi avevano usufruito di tutte le forme di assistenza del FMI e della Commissione europea e fummo costretti a chiedere un prestito di due miliardi di dollari alla Germania che a garanzia chiese l’equivalente in oro. In un contesto – ora come allora- in cui la stessa classe dirigente italiana e i grandi risparmiatori italiani non hanno fiducia nel futuro del Paese. In un contesto ancora diverso rispetto a quello degli anni ’70 perché oggi c’è l’intreccio diabolico (diabolic loop) tra un sistema bancario debole, burocratizzato con 350-400 miliardi di titoli del debito pubblico nei loro portafogli e con centinaia di miliardi di sofferenze. Con riguardo a questo aspetto Il governatore della Banca d’Italia Visco ci ha ricordato che le banche italiane hanno ridotto i titoli dello stato e le sofferenze ma la media di queste ultime è tuttora doppia rispetto a quella degli altri paesi europei. Anche le perdite dei titoli bancari in questi giorni di forte tensione in borsa sono doppie rispetto a quelle dell’indice generale. E sappiamo che i famigerati mercati sono animati anche da speculatori che stanno in agguato e aggrediscono con speculazioni al ribasso o al rialzo quelli che con elementi di debolezza nei loro sistemi economici finanziari si affacciano nei mercati. Giustamente nei giorni scorsi il Presidente di Confindustria ha sottolineato che una economia forte ha bisogno di una politica forte e viceversa. L’Italia ha un debito pubblico molto alto (il terzo a livello mondiale) ed un terzo di esso è nelle mani di investitori esteri. Si possono biasimare quanto si vuole gli speculatori (i raider) ma è chiaro che nel momento in cui gli investitori esteri cominciano a dubitare della credibilità del governo di un paese e della sua capacità di onorare il debito cominciano a vendere i titoli che avevano acquistato precedentemente e mettono in moto un meccanismo perverso secondo cui, prima o poi, il governo avrà difficoltà a piazzare nuovi titoli nel mercato secondario o sarà costretto a pagare interessi alti ed insostenibili. E il solo rinnovo dei titoli esistenti comporta operazioni di rinnovo per circa 400 miliardi euro all’anno.
La sola vendita affrettata dei titoli da parte degli investitori esteri comporta una svalutazione del valore nominale degli stessi e ridurrebbe anche il valore delle attività finanziarie delle banche e la necessità di ricapitalizzarle in condizioni molto difficili, in casi gravi, con interventi diretti da parte dell’operatore pubblico.
Non c’è dubbio che rispetto alla crisi italiana degli anni 2011-12 e a quella greca degli anni successivi, l’Eurozona oggi sia più dotata di regole e strumenti di assistenza per fronteggiare la crisi come il Fondo salva Stati e il meccanismo di risoluzione ma è chiaro che ciò richiede la cooperazione più fattiva tra le autorità comunitarie e quelle dei paesi interessati dalla crisi. È chiaro che se questi progettano più o meno surrettiziamente l’uscita dal sistema della moneta unica e se il paese che lo pensa è la terza economia dell’Unione verrebbe meno la necessaria fiducia per una cooperazione costruttiva a difesa degli interessi comuni. È vero che l’economia italiana è troppo grande e fortemente interdipendente con quella tedesca, francese ecc. e che gli altri partner non hanno alcun serio motivo per spingerla al fallimento o ad uscire dalla moneta unica ma se lo chiedesse sul serio lo stesso governo italiano, prima o poi, gli altri paesi sarebbero costretti a prenderne atto come è avvenuto con l’Inghilterra che non esce dall’eurozona perché non ne faceva parte ma dall’Unione e dal mercato unico e ora cerca disperatamente accordi c.d. di libero scambio.
Per concludere questa breve analisi, è vero che nel Contratto di governo stipulato da Di Maio e Salvini non c’è scritto in nessun modo che la maggioranza di governo avrebbe chiesto l’uscita dal sistema della moneta unica ma ha scritto – secondo me erroneamente – che vuole ridiscutere i Trattati dell’Unione (p. 17) e che vogliono “salvaguardare la sovranità alimentare” (p. 9) – non quella monetaria. Che poi improvvidamente abbiano insistito per fare nominare Paolo Savona ministro dell’economia e delle finanze, secondo me, si è trattato di decisione inopportuna e frutto di inesperienza o di un disegno non proprio oscuro di Salvini. Se questo è vero, è chiaro che ha sbagliato anche il Presidente della Repubblica facendo il processo ad intenzioni non manifeste e, comunque, non scritte nel contratto.
Per quanto mi riguarda la riforma dei Trattati è strettamente necessaria per superare il deficit democratico della governance politica ed economica dell’Unione ma Di Maio e Salvini forse non sanno che, in questa congiuntura politica, non è questione all’ordine del giorno. Non la chiedono i grandi partiti europei e, paradossalmente, neanche il Parlamento europeo che avrebbe tutto da guadagnare. Per la verità il PE ha analizzato parzialmente la problematica in tre Rapporti ma poi li chiusi nei cassetti. Vedremo nelle prossime elezione europee se la questione verrà dibattuta come merita. Tutti i documenti degli organi esecutivi mirati a rafforzare la governance economica, a completare l’Unione bancaria e dei mercati dei capitali, a rafforzare gli strumenti di stabilizzazione non solo finanziaria ma anche macro-economica, a riformare il Patto di stabilità e crescita 2011 partono dalla premessa – da me non condivisa – che i Trattati non si modificano anche perché se si condizionasse il perseguimento di detti obiettivi alla riforma dei Trattati tutto si sposterebbe in avanti almeno di cinque anni. E tutti sanno che ci sono problemi che vanno risolti prima possibile.

Populisti della peggiore risma o liberi servi?

Il capitolo 11 del programma di governo concordato da Di Maio e Salvini prevede in premessa la sterilizzazione dell’aumento automatico dell’IVA nel caso il deficit superi i limiti concordati con la Commissione europea e il riassetto delle accise. La proposta a prima vista ragionevole perché vaga appare campata in aria se uno considera il fabbisogno di risorse addizionali che emerge, da un lato, dalla proposta del reddito di cittadinanza e, dall’altro, dalla riduzione del gettito che deriverebbe dalla introduzione della presunta flat tax che nelle stime più prudenti farebbe venire meno 50 miliardi di entrate. Se questi calcoli sono corretti è chiaro che il gettito dovrebbe essere recuperato dalle principali imposte indirette (IVA e Accise) secondo una linea strategica a suo tempo enunciata da Giulio Tremonti: dalla tassazione del reddito delle persone fisiche alla tassazione dei consumi delle cose.
Il titolo del capitolo è flat tax e semplificazione. Intanto bisogna precisare che la corretta definizione in inglese è flat rate tax, in italiano, imposta ad aliquota nominale costante e se è costante significa che non cambia, cioè, è unica. Se invece si prevedono due aliquote significa che non siamo più in presenza di una imposta ad aliquota costante. Bisogna inoltre precisare che anche in presenza di quest’ultima, l’aliquota media effettiva varia in relazione alle deduzioni e detrazioni che spettano al singolo contribuente e/o unità impositiva – nel nostro caso il documento propone la tassazione del nucleo familiare. Va ancora precisato inoltre che l’imposta ad aliquota costante (d’ora in poi: IAC) in termini di effettivo prelievo non è una imposta proporzionale perché quello che si versa all’Erario dipende non solo dall’aliquota ma anche dalla definizione della base imponibile e dal gioco delle deduzioni e detrazioni. E’ un’imposta progressiva e, definendo la progressività nei termini più semplici, si ha progressività quando l’aliquota media effettiva aumenta all’aumentare del reddito prodotto. Si dimostra che con aliquota nominale costante nei primi scaglioni di reddito l’aliquota media effettiva aumenta all’aumentare del reddito ma poi, dopo i primi 3-4 scaglioni di reddito (più o meno ampi), anche l’aliquota media effettiva diventa in buona sostanza proporzionale perché l’insieme delle deduzioni, detrazioni ed eventuali trasferimenti integrativi incidono sempre meno. In questi termini, se la IAC prevede la progressività solo per gli scaglioni e/o fasce di reddito più bassi e sostanziale proporzionalità per quelli più alti, una simile imposta in linea di principio si pone in contrasto con l’art. 53 comma 2 della costituzione il quale esplicitamente prevede: “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Ma non è della questione di costituzionalità della IAC che voglio occuparmi in questa breve nota.
Sto cercando di capire perché due partiti populisti come il Movimento 5 Stelle e la Lega che, al di là dell’ambiguità del termine populista, non sembrano essere espressione immediata dei poteri dominanti e/o delle classi sociali più ricche. Ma proprio per questo motivo appare singolare e non convincente la loro proposta di introdurre una imposta a due aliquote nel nostro sistema tributario e non convincono i motivi che adducono a giustificazione della loro scelta. Infatti a p. 20 del c.d. contratto di governo sostengono che “la finalità è quella di non arrecare alcun svantaggio alle classi a basso reddito, per le quali resta confermato il principio della “no tax area”, nonché in generale di non arrecare alcun trattamento fiscale penalizzante rispetto all’attuale regime fiscale. Una maggiore equità fiscale, dunque, a favore di tutti i contribuenti: famiglie e imprese”. Come se quelli che rientrano nella fascia di esenzione fossero tutti benestanti. Tradotto: le famiglie con i redditi più bassi restano nella situazione attuale, ossia, niente penalizzazioni e vantaggi perché stanno bene come stanno. Molti sono abituati a soffrire e dovranno continuare a soffrire. I proponenti non spiegano come – con dette operazioni – ne risulterebbe nell’insieme una maggiore equità fiscale. Quest’ultima risulta davvero improbabile perché se tagli le imposte dirette sulle persone fisiche e giuridiche e non vuoi tagliare il welfare sarai costretto ad aumentare le imposte indirette come detto sopra. Ma sia che aumenti le imposte indirette sia che riduci il welfare non v’è dubbio  che la regressività del sistema fiscale aumenta. Non senza menzionare che una imposta a due aliquote produrrà inevitabilmente un salto di imposta nel passaggio dalla prima alla seconda e che se volessero evitarlo dovranno introdurre un marchingegno alquanto complicato con buona pace della semplificazione. Non senza menzionare la stranezza dell’accostamento tra il trattamento delle famiglie e quello delle imprese che non può valere per tutte le imprese.
Storicamente la IAC è stata proposta in paesi dove la propensione al risparmio è bassa e, più recentemente, nei paesi dell’Est europeo in transizione dal regime di stampo sovietico a quello liberal democratico di stampo occidentale, ma l’Italia è in fatto un paese ad alta propensione al risparmio e ad alta concentrazione della ricchezza finanziaria oltre che immobiliare. Il problema più grave del sistema tributario italiano resta quello della lotta all’evasione e della perequazione secondo opportuni criteri di giustizia sociale e tributaria. Se poi penso che le altre misure fiscali proposte tendono a disarmare l’Agenzia delle entrate e a legittimare l’evasione fiscale, ritengo che i capi populisti dei due movimenti o non sanno di che cosa parlano o sono dei liberi servi.

I socialisti e il sindacato

Il Prof. Ciccarone presidente della FGB che ha presentato la collana diretta dal prof. Bartocci ha detto che non si tratta di una nuova storia del PSI. Secondo me, ha ragione nel senso che non è solo una storia del sindacato italiano ma anche di tutti i partiti e, quindi, dell’Italia 1943-83 con particolare riguardo al periodo in cui si sviluppa il travagliato processo unitario. Un processo difficile perché, in fatto, al di là delle prese di posizione ufficiali, l’obiettivo dell’unità sindacale aveva tutti i partiti contro (28) (tranne il PSI). E perché li aveva contro? Perché in un periodo in cui infuriava non solo la guerra fredda ma anche quella calda (Vietnam) il processo unitario del sindacato, secondo alcuni, implicava lo sconvolgimento degli equilibri politici e sociali del paese.
Enzo Bartocci, curatore del volume, vede i seguenti sotto-periodi: il periodo dell’immediato dopoguerra 1946-56 dei governi centristi; il periodo 1957-76 che vede i tentativi e, poi l’effettiva apertura a sinistra della DC con tutte le traversie che lo hanno caratterizzato e, quindi, la fine del centrosinistra; il terzo sotto-periodo 1977-83 che va oltre il centro-sinistra e il governo di solidarietà nazionale per arrivare al c.d. CAF (intesa tra Craxi, Andreotti e Forlani) durante il quale si abbandona il processo unitario.
Come noto, già durante l’occupazione e l’amministrazione da parte degli alleati delle amlire e, in tutto il dopoguerra, anche per iniziativa degli Americani, viene rilanciato il discorso prima di piani settoriali per potere importare materie prime necessarie alla ripresa dell’attività produttiva e, poi, programmi economici generali per potere fruire degli aiuti prima del Piano Marshall e poi dalle Agenzie specializzate delle Nazioni Unite.
Non casualmente venivano formulati nell’ottobre 1948 il piano Tremelloni (1949-53) e, alla sua scadenza, il c.d. Schema Vanoni decennale 1954-63. Nel 1949 anche la CGIL presentava il suo Piano del Lavoro. Ricordo questi fatti per confermare la tesi che, in quella fase storica, la programmazione come metodo di governo non era solo “una imposizione dall’esterno e/o dall’alto ma un fatto importante della cultura di governo che aveva solidi agganci nella politica e nelle forze sociali – ovviamente non senza contrasti e contraddizioni circa gli obiettivi di medio e lungo termine che la programmazione dell’economia doveva conseguire.
Nella prefazione e nella lunga introduzione del ponderoso volume Enzo Bartocci dà conto, in modo articolato e approfondito, del dibattito che si sviluppò nel Paese e nel sindacato e che vide un ruolo di primo piano dei sindacalisti socialisti all’interno prima del sindacato unitario e poi delle tre Confederazioni.
Sulla base dei documenti esaminati Bartocci ci racconta come Riccardo Lombardi e Fernando Santi vedevano il sindacato come interlocutore privilegiato della politica della programmazione democratica. E, attraverso il ruolo attivo della CGIL nella elaborazione del programma, pensavano a “un coinvolgimento, sia pure indiretto, del PCI nella politica di rinnovamento, trasformazione e sviluppo del paese ….17
Bartocci cita anche Sergio Turone che nel suo saggio sulla storia del sindacato (1992: 74) riprende una lettera di Lombardi del 1946 in cui l’esponente socialista esorta il movimento sindacale ad uscire dalla politica rivendicativa del “giorno per giorno” e darsi un programma di ampio respiro nel quadro di una visione economica generale” (pp.92-94). Bartocci illustra quindi la posizione di Lombardi sulla programmazione sulla base di un suo intervento al Convegno organizzato dalla Commissione nazionale del lavoro di massa del 14-15 settembre 1955 dove prende posizione sul Piano Vanoni nel quale il Congresso di Torino del PSI aveva riconosciuto “il terreno più adeguato per una più chiara impostazione dell’apertura a sinistra” e sulla contrattazione aziendale . Vedi p. 94 del volume.
E così ci si avvicina ai primi anni ‘60 quando in vista della scadenza del Piano Vanoni si istituisce la Commissione nazionale per la programmazione economica prima presieduta dal prof. Ugo Papi con il compito di elaborare una proiezione dell’economia al 1970 e poi con il compito di elaborare il primo piano quinquennale di sviluppo. La Commissione era partecipata dalla presenza di rappresentanti delle parti sociali e il suo compito fu ispirato dalla Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa presentata il 22 maggio 1962 come appendice alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese. Le condizioni necessarie per la partecipazione al governo erano state precisate da Lombardi nel suo discorso al Comitato Centrale del PSI del 9-11 gennaio 1962.
Quindi arrivano le elezioni politiche del 1963 ma prima ancora c’è la nazionalizzazione delle industrie elettriche-commerciali del dicembre 1962. Un’operazione di mera razionalizzazione del sistema di produzione e distribuzione dell’energia che, però, in vista delle elezioni politiche del 1963, viene strumentalizzata per sostenere la tesi della bolscevizzazione dell’economia italiana.
Il 1963 è anche l’anno in cui si manifesta un forte deficit nella bilancia commerciale per via di grosse importazioni di beni di consumo durevole dagli altri paesi della Comunità europea con la necessità di fare ricorso all’assistenza del FMI e, subito dopo, a quella della Commissione europea. A fronte dei ritardi e delle resistenze di quest’ultima la Banca d’Italia impone una forte stretta creditizia che interrompe il lungo processo di sviluppo dell’immediato dopoguerra e di tutti gli anni ‘50 e provoca anche un primo arresto del processo di accumulazione. Tra le misure correttive la Banca d’Italia propone il ricorso alla politica dei redditi come strumento per frenare la dinamica salariale che era alla base della forte crescita della domanda interna anche di beni importati. In quella fase del dibattito di politica economica, la politica dei redditi veniva percepita da alcuni esponenti della maggioranza come mero strumento di politica anticongiunturale e da parte dei sindacati come strumento lesivo della loro autonomia contrattuale. I risultati delle elezioni impongono alla DC una pausa di riflessione con il c.d. governo balneare di Giovanni Leone ma, già a dicembre, si ricostruisce il Centrosinistra con il primo governo Moro-Nenni (1963-64) e si riprende il discorso della programmazione.
Il 12 gennaio 1964 si formalizza la scissione dell’ala sinistra del PSI e la nascita del PSIUP. Ciononostante, (133) ancora sull’ Avanti dell’1-03-1964 Lombardi sosteneva sull’argomento della programmazione una posizione corretta come riferita da citazione di Bartocci, ossia: “una politica dei redditi, purché articolata e realistica, sia indispensabile in una economia che voglia mantenere un ritmo elevato di sviluppo al riparo dai fenomeni recessivi e inflazionistici”.
È quello che ho sempre sostenuto anche io: che le autorità di politica economica e finanziaria non hanno mai saputo conciliare il giusto bilanciamento tra le esigenze del processo di accumulazione e il controllo della congiuntura come non hanno mai saputo spingere l’economia verso il pieno impiego e la crescita sostenibile .
Ma il 1964 è l’anno in cui si sviluppa una forte reazione delle correnti democristiane contrarie alla politica della programmazione e al Piano proposto da Giolitti nella Primavera del 1964. La situazione si inasprisce anche per le difficoltà del governo di ottenere ulteriore assistenza dal FMI e dalla Commissione europea e dalle voci insistenti circa manovre e operazioni che preludono a un tentativo di golpe, ordito dal Presidente della Repubblica Antonio Segni. Si apre la crisi che viene prontamente risolta prontamente con il ritiro di Giolitti e la sua sostituzione con Giovanni Pieraccini al ministero del bilancio che viene chiamato a riscrivere il primo piano quinquennale.
In questi termini è fondata la tesi secondo cui il libro non è solo una nuova storia del PSI, e del ruolo dei socialisti all’interno del movimento sindacale ma anche un storia dell’Italia per l’ovvia ragione che occupandosi di programmazione e/o contrattazione salariale o di piattaforme rivendicative ad alto contenuto di riforme strutturali in realtà condizioni tutta l’attività e i programmi del governo. E d’altra parte nelle loro campagne rivendicative i sindacati non possono prescindere dalla situazione economica del Paese e dai programmi del governo che con il bilancio dello Stato ha gli strumenti fondamentali per condizionare le tre funzioni del bilancio dello Stato, ossia, l’efficiente allocazione delle risorse, la stabilizzazione del ciclo economico e la redistribuzione.
Alla presentazione del libro nella sede della Enciclopedia Treccani a Roma hanno partecipato Fausto Bertinotti, Gian Primo Cella, Piero Craveri, Adolfo Pepe. Vale la pena riportare alcune delle loro valutazioni sul libro.
Bertinotti
Definisce utile la ricerca ma parla di storia conclusa. Perché c’è stata la rottura di un modello. Partiti e sindacati del 900 sono finiti. Particolarmente preso dal discorso sulla sinistra operaista, afferma che questo capitalismo sarebbe sostanzialmente incompatibile con la democrazia. Il conflitto sociale era alla base delle lotte di quei tempi. Per questi motivi, è utile tornare ad arare quel terreno. Non è solo questione di memoria.
Elogia la CGIL come crogiolo di diverse culture sindacali. Parla di fase straordinaria degli anni 60. Parla di due invasori: 1) la cultura del primato della contrattazione e 2) il sindacato unitario FLM. Poi aggiunge anche il discorso dell’autonomia sindacale e delle proposte sulle forme di organizzazione della democrazia.
Cella
Dice che iI libro è leggibile ed importante. Chiede scusa per avere sottovalutato nel passato Il ruolo dei sindacalisti socialisti. Cita il libro omonimo di Forbice e Favero, Palazzi editore, Varese 1968, ed afferma che si è prestata troppa attenzione a Di Vittorio e Foa e troppo poco interesse per Fernando Santi, Piero Boni e Giacomo Brodolini. Secondo Cella quella del ruolo dei sindacalisti socialisti nel movimento sindacale non è stata una storia di successo.
Loda Bartocci per come ha ricostruito le vicende del sindacato socialista nella UIL e
Gabaglio per il pezzo sul distacco della CGIL dalla Federazione sindacale mondiale a guida sovietica FSM. Un travaglio durato 40 anni. Cita Giorgio Benvenuto per le sue osservazioni sulla cancellazione di Buozzi. Ricorda di aver visto ritratti di Bruno Buozzi più nelle sezioni sindacali della CISL che in quelle della CGIL. Definisce Giugni il protagonista fondamentale del sindacalismo socialista per 50 anni. Poi cita Momigliano per le sue approfondite analisi sulla programmazione e il ruolo dei sindacati. La cultura socialista non è riuscita a imporsi solo all’interno della CGIL ma è divenuta patrimonio di tutto il movimento sindacale. Parla di manuale Cencelli nell’assegnazione delle cariche.
Craveri
Parla della coda marxiana di Bertinotti. Cita un aneddoto che all’Orientale di Napoli. Tutti avevamo studiato Marx. Ma questi aveva sotto gli occhi la II rivoluzione industriale.
Oggi le imprese informatiche non si ricapitalizzano con i profitti accantonati ma attraverso la borsa che rivaluta il capitale iniziale. Tutte le tematiche operaiste del controllo operaio avevano a riferimento un modello di capitalismo che non c’era più. Dissente su diversi passaggi del libro.
Cita Loreto e anche il mio pezzo. Cita biforcazione tra la linea riformista e quella “massimalista”, ossia, quella che riteneva insuperabili le profonde contraddizioni del capitalismo e, quindi, inevitabile la sua fine.
Definisce il libro lombardiano. Perché R. Lombardi concepisce un riformismo rivoluzionario se il “piano che possiamo accettare ….è quello che dimostri di essere uno strumento adeguato per influire nel processo di accumulazione in modo da spostare, gradualmente, certo, ma lungo una linea di sviluppo irreversibile, i poteri decisionali trasferendoli dalla classe capitalistica alla collettività dei lavoratori” (citazione da Bartocci, p. 135).
Osserva che i modelli ante e post 1968 sono modelli di democrazia diretta. I quali funzionano bene in ambiti ristretti e nel breve termine.
Sull’unità sindacale dice che fu fenomeno limitato alla FLM.
Critica anche il saggio di Treu e dice che CISL e UIL erano organizzazioni fortemente anticomuniste. Ricorda che quando Benvenuto gli propose di presiedere il CREL (centro ricerche sull’economia e il lavoro) chiese consiglio a Carniti e questi gli disse di accettare per rafforzare la componente anticomunista. Ma Italo Viglianesi sindacalista all’americana, non poteva creare un sindacato sulla base di due piccoli partiti socialisti.
Pepe
Loda il libro e la cultura riformista socialista perché da un lato la dirigenza confederale della CISL era guidata dalla gerarchie ecclesiastiche, dall’altro lato, la CGIL era fortemente influenzata dal PCI. Cita l’ultima frase della prefazione di Bartocci: “Con il collasso della prima Repubblica e con il coinvolgimento di molti dirigenti socialisti – ad iniziare dal segretario – nelle inchieste giudiziarie, si chiudeva, ad un secolo dalla nascita, la parabola del PSI e si concludeva il suo rapporto con il mondo del lavoro e con la sua rappresentanza sindacale”. Prima il socialismo era doppiamente rappresentante del mondo del lavoro. I socialisti avevano la rappresentanza politica e quella sociale.
Riprende il saggio di Loreto che parla di tradeunionismo militante ma il modello inglese è diverso. Nel Regno Unito le Trade Unions erano egemoniche nel mondo del lavoro..
Cita programma di Modena 1908 che riprendeva le raccomandazioni del Congresso della II internazionale, Stoccarda del 1907, secondo cui gli strumenti del movimento operaio erano due: il partito e il sindacato. Partito del lavoro poi non si farà. Ma questo è nel codice genetico socialista.
Bartocci
Ringrazia i 4 relatori. Dice che le loro suggestioni evocano questioni non solo italiane nella fase attuale del capitalismo. Il sindacato nasce nella società industriale dei paesi dell’Europa occidentale. Si sofferma anche sulle posizioni contraddittorie interne al PSI. Ad esempio, sul programma della socialdemocrazia tedesca, Lombardi non demonizza le decisioni del Congresso Bad Gotersborg 1959 ma lo fa Nenni paradossalmente vedi l’Avanti! del 18 e 22 novembre 1959.
Cita di Marx una frase del libro sulle lotte operaie in Francia secondo cui, in quella fase storica, si stava rafforzando non solo il mondo del lavoro ma anche il capitale. E questa osservazione la dice lunga sulla capacità di analisi di certa sinistra in Italia nel periodo considerato.
Circa i ruoli rispettivi dei Partiti e dei sindacati, la mia valutazione è che anche questa affermazione va valutata nella prospettiva storica. Nei primi decenni del XX secolo dopo la forte crescita dei movimenti radicali e della forza del sindacato che si era realizzata nella seconda parte del XIX secolo in Europa la prospettiva rivoluzionaria aveva ancora un certo fascino. Infatti nel 1917 si realizza la rivoluzione sovietica. Nella fase storica del secondo dopoguerra si poteva concepire anche l’esistenza di una partito rivoluzionario ma difficilmente in Europa e negli Stati Uniti si poteva realisticamente pensare ad un sindacato rivoluzionario. Il sindacato per sua natura deve agire nel presente o, meglio, nel breve e medio termine anche se nessuno gli impedisce di avere una visione di medio lungo termine. Se l’obiettivo fondamentale è quello di migliorare le condizioni delle classi lavoratrici e di quelle diseredate deve sapere valutare come certi obiettivi fondamentali non sono realizzabili di un colpo solo e adottare, inevitabilmente, una strategia riformatrice che eviti la scelta tra tutto e il niente. Il sindacato quindi non può che essere riformista.
Lo ripeto, secondo me, il libro non è solo storia del sindacato italiano. È storia della Repubblica perché, come noto, si intreccia con la storia della DC e del PCI oltre che con quella del PSI e di altri partiti. Aggiungo ancora che non si può capire la storia del sindacato e della politica italiana in quel periodo se non si tiene conto della divisione del mondo in due blocchi, della Guerra fredda, e della collocazione geopolitica dell’Italia, della presenza nel Paese del più forte Partito comunista dell’Occidente, della posizione americana che consideravano i socialisti compagni di viaggio e/o alleati dei comunisti a livello locale e che volevano traghettarli anche nel governo nazionale. Da qui le pressioni per la delimitazione della maggioranza nei primi anni ’60, il rinvio dell’attuazione delle regioni a statuto ordinario deciso durante la crisi del 1964 e la tensione negli anni ’70 e i ricorrenti interventi per dividere il movimento sindacale.
Oggi non ci sono più i partiti di una volta che avevano visioni della società di largo respiro. Abbiamo leader dalla veduta corta il cui vero obiettivo è quello di prolungare il loro potere personale oltre una-due legislature. Oggi anche nel mondo del lavoro ci sono in corso processi di cambiamento molto veloci dovuti all’accelerazione della globalizzazione e alla rivoluzione digitale. Oggi più che mai vale la frase di Riccardo Lombardi (1946) sul ruolo del sindacato che non poteva limitarsi alla politica rivendicativa del “giorno per giorno” o di contratto in contratto. A fronte del forte declino della sinistra in Europa e negli Stati Uniti non so se sia il caso di tornare a teorizzare un partito del lavoro ma, di certo, anche il sindacato deve avere una veduta lunga se vuole veramente proteggere gli interessi e i diritti dei lavoratori. Negli anni 70 e 80 del secondo scorso fiorivano le analisi e le previsioni a lungo termine della società – megatrends, futuribili, ecc. – oggi prevale lo shortism. Ma accogliere la veduta corta è come navigare senza bussola, a vista. Finché le condizioni meteo sono buone e ci si limita alla navigazione sotto costa va bene ma quando si va in alto mare e si incontra una tempesta non solo serve la bussola ma bisogna essere adeguatamente attrezzati per resistere alle intemperie.
L’ultima osservazione riguarda la questione della compatibilità tra capitalismo attuale e la democrazia citata da Bertinotti. E’ innegabile che la democrazia sia sotto attacco continuo soprattutto dalla finanza rapace e dalle imprese capitalistiche fortemente finanziarizzate che non disdegnano di imporre le loro scelte ai governi e alle società in cui operano.
Wall Street – scrive Robert Reich – può comprarsi la maggioranza del Congresso e può essere determinante nella elezione diretta del Presidente degli Stati Uniti. Ma il capitalismo e il potere della finanza sono riformabili. I paesi veramente democratici hanno tutti i poteri per farlo.

Viene prima il programma di governo o il Presidente del Consiglio dei ministri?

Anche i sapientoni che intervengono in tutti i talk show sostengono che prima del governo bisogna conoscere il nome del Presidente del Consiglio (d’ora in poi: Pdcdm). A prima vista, l’affermazione sembra ragionevole ma bisogna essere consapevoli che essa è coerente con il modello autoritario in Italia fortemente voluto da Berlusconi e dal Partito democratico di Veltroni e Renzi: un leader, un programma e una maggioranza parlamentare bloccata. In Italia tale schema può funzionare con un sistema elettorale maggioritario coatto o forzato che assicura la vittoria ad un partito o ad una coalizione. Non funziona con il proporzionale che i partiti governativi e quelli di centro-destra hanno voluto e studiato per impedire una eventuale vittoria del M5S. Ma quando dai risultati elettorali non viene fuori un partito nettamente vincitore né una coalizione con un programma preventivamente concordato, bisogna formare una coalizione e questa si forma più stabilmente attorno ad un programma di governo condiviso e negoziato.
Che cosa significa questo? Semplicemente che il Pdcdm non decide da solo ma promuove e coordina l’attività dei ministri per l’attuazione del programma. Non è il primo decisore né quello di ultima istanza perché gli obiettivi sono già fissati nel programma. Se questo è vero, non è detto che i capi di partito che hanno avuto i maggiori consensi debbano diventare Presidente del Consiglio. Questo potrebbe o dovrebbe essere un facilitatore o una personalità con la maggiore attitudine a coordinare l’attività dei ministri appartenenti o scelti dai diversi partiti che formano la coalizione e accettati anche dal Presidente della Repubblica. Se – come affermano politologi di fama – siamo nella fase storica della mancanza di fiducia non solo da parte dei cittadini nei confronti delle istituzioni ma anche tra i politici stessi, è essenziale che il programma sia condiviso e sottoscritto in un documento e/o contratto. Ma resta sempre il dilemma tra organo monocratico e quello collegiale – questione discussa già nell’Assemblea costituente che alla fine ha approvato l’art. 95 che disciplina la posizione sia del Presidente del Consiglio che quella dei ministri. Dice il comma 1 di detto articolo che “il Pdcdm dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Se è accolto il paragone, mi sembra che qui dirigere significa svolgere una funzione analoga a quella del direttore d’orchestra il quale anche lui, di norma, segue lo stesso spartito, salvo sfumature diverse.
Il comma 2 dell’art. 95 esplicita che: “i ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Comma non immune di qualche ambiguità ma che prevede gradi diversi di responsabilità, secondo me, privilegiando opportunamente quella del Consiglio.
40 anni dopo arriva la legge n.400/1988 che precisa e dettaglia le competenze della Presidenza, del Consiglio e dei singoli ministri ma che, in buona sostanza, conferma le linee guida dell’art. 95 Cost: in nessun caso dice: decide. Quello che specifica è che il Pdcdm: “indirizza ai ministri le direttive politiche e amministrative “ma queste in un governo di coalizione non possono essere diverse da quelle che discendono dal programma concordato. Ovviamente ci saranno margini di discrezionalità più o meno ristretti a seconda che l’accordo di governo sia articolato in modo più o meno preciso. PQM l’idea che il Pdcdm decide di sua iniziativa, motu proprio, è fuori dalle previsioni dell’art. 95 Cost e della legge n. 400/1988.
Vale la pena di ribadire che in una Repubblica parlamentare come la nostra, in un contesto realmente democratico e di governo di coalizione, il coordinamento si attua meglio attorno ad un programma concordato – come fanno da decenni i tedeschi. Se invece l’accordo fosse imposto surrettiziamente dal leader “unto dal Signore” saremmo sulla via di un sistema presidenziale e comunque autoritario. Non casualmente il sistema maggioritario che ha caratterizzato la c.d. II Repubblica da alcuni analisti è stato definito maggioritario coatto e imposto su una società pluralista con preferenze molto differenziate che inevitabilmente richiedono un costante e paziente lavoro di mediazione per poterle aggregare.