Le caratteristiche inquietanti di Silicon Valley.

La Valle oscura, Adelphi Edizioni 2020,  è un memoriale piuttosto inquietante di Anna Wiener, una giovane donna newyorkese che ha lavorato in un’impresa editoriale e che, di sua iniziativa, si trasferisce in California per andare a lavorare nella favolosa Silicon Valley, seguendo la solita moda in vigore già negli anni ’70 del secolo scorso nota come California dream – creata dalla protesta giovanile di quegli anni contro la Guerra del Vietnam, dalla ricerca di modelli di vita alternativa (a quella imposta dal consumismo opulento) da parte dei ragazzi dei fiori, del movimento degli yippies (un pseudo movimento politico giovanile di impronta pacifista, con venature anarchiche, internazionalista e a un tempo comunitario, e dal fiorire della letteratura anti-capitalistica.

Si potrebbe dire che quel movimento contrastava Ronald Reagan prima come Governatore della California dal 1967 al 1975 e, successivamente 1981-89, Presidente degli Stati Uniti d’America. Ma ne è uscito battuto e forse, non casualmente, il nuovo capitalismo della sorveglianza trova le sue radici più profonde a Silicon Valley.  

C’è una prima parte del libro che descrive l’esperienza di Anna Wiener come quella della persona innocente (ingenua) che stenta a capire il contesto in cui sta lavorando ma probabilmente finge di essere tale trattandosi di persona che ha lavorato in una industria editoriale i cui componenti normalmente tengono gli occhi aperti sulla società in cui vivono per registrarne i fenomeni nuovi che vi si manifestano. Ma Lei non cita nessuno che prima di lei ha lavorato in ruoli diversi nella Silicon Valley o gli scritti di autori che hanno osservato e studiato il fenomeno, il venture capital, la finanza rapace patrimonio non solo di New York ma anche della California.   Qui avviene qualcosa di simile alla storica corsa all’oro della seconda parte del 19mo secolo con pochi protagonisti che si arricchiscono e i molti che riescono a guadagnarsi appena da vivere. Solo che questa volta l’oro non è la materia prima da scavare nelle miniere o da setacciare dall’acqua dei fiumi. Ora si tratta di raccogliere tutti i dati comportamentali – il surplus comportamentale della Shoshana Zuboff, mai citata, autrice di un altro libro di successo: Il capitalismo della sorveglianza. Sono i big dati che rilevano i social Networks come Google, Facebook, Microsoft, Amazon e via di seguito. I big data raccolti ed analizzati da algoritmi appositamente costruiti che profilano i comportamenti delle persone ed elaborano modelli predittivi che, letteralmente, sbaragliano le vecchie indagini di mercato sulle preferenze dei consumatori, e vengono venduti alle imprese di produzione e distribuzione. Naturalmente non si limitano a questo. Utilizzando i like, gli emoji, la lettura delle mail, la registrazione delle telefonate, degli spostamenti, dell’appartenenza a gruppi politici e non. Filmano città e campagne, strade e monumenti, tutto quello che vedono. L’aspirapolvere Roumba, elementare esempio dell’internet delle cose, elabora la mappa degli appartamenti in cui lavora e, se c’è un computer o un cellulare acceso, la invia a Google.

Dai big data si individuano non solo le preferenze per i consumi privati ma anche per i beni pubblici, le preferenze politiche, sessuali, e in generale, tutti i comportamenti. Le tradizionali indagini di mercato – anche di quello politico – rilevano di volta in volta quelle che sono le risposte e le preferenze espresse in seguito a specifiche domande proposte dai computer. A pag. 59 Wiener parla di “modalità di Dio” implicitamente una citazione del concetto dello “sguardo di Dio” come elaborato della Zuboff.  lo ripeto mai citata perché nel libro non ci sono citazioni di libri, saggi o articoli di giornale; non ci sono neanche i titoli dei numerosi capitoli sulla fauna umana che anima la Valle Oscura – raggruppati in tre parti: Incentivi, crescita, epilogo.

A p. 118 la Wiener afferma che gli ingegneri e/o esperti di computer science – spesso neanche laureati – che definiscono gli algoritmi, i codici, che progettano robot si comportano o si riducono a robot essi stessi. Si interessano solo alle macchine che stanno costruendo e niente altro. La cultura umanistica non li interessa con disappunto della Wiener. Tutt’al più vogliono capire i principi fondamentali del management aziendale e la finanza del venture capital.  La Wiener sembra non capire perché i giovani rampanti delle start up non amano i libri e la cultura umanistica che Lei occasionalmente proponeva loro. Sono individui razionali secondo il vincente paradigma neoliberista. E sono razionali quelli che massimizzano il proprio interesse, non temono il giudizio degli altri perché loro credono di essere i migliori giudici di sé stessi. È l’essenza del credo neoliberista e la California è il primo Stato della Federazione a recepire la rivoluzione di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia, e della sua scuola di Chicago.         

Tranne un accenno a pag. 98 e 143 nella prima parte di oltre 200 pagine non approfondisce il discorso sulla sorveglianza. Descrive in forma maniacale la vita ordinaria nella start up di analisi dei dati in cui lavora per circa tre anni per poi passare ad un’altra start up open source. Lei si occupa delle relazioni con i clienti. Scrive della predominanza di giovani uomini che elaborano gli algoritmi che godono di stipendi elevati e di generose opzioni sulle azioni della società. Scrive della scarsa considerazione in cui vengono tenute le donne e delle varie forme larvate o meno di molestie sessuali. Descrive tutte le feste aziendali dentro e fuori i locali dell’azienda, i vestiti indossati, le felpe con il marchio aziendale, i cibi e le bibite consumati, le strade che percorrono, i bar che frequentano, le case in condominio, gli appartamenti condivisi anche con uomini, i week end al lago Tahoe, il car sharing, le biciclette utilizzate, il degrado di certi quartieri di S. Francisco.    

Forse avrebbe capito meglio quello che era già successo prima che vi arrivasse Lei se si fosse informata meglio. Sempre in maniera anonima, la Wiener cita il caso Snowden dell’Estate 2013, scoppiato poco dopo il suo arrivo a Silicon Valley, il quale ha rivelato le attività di sorveglianza di massa della National Security Agency con il massiccio utilizzo dei big data prodotti e messi a disposizione da Google e dagli altri social networks.

Non cita quanto era successo dopo l’11 settembre 2001 giorno dell’attacco alle due Torri a New York  e al Pentagono a Washington quando il governo USA scopre che le imprese high tech della Silicon Valley avevano una massa di informazioni ben superiore a quelle a disposizione delle agenzie di sicurezza nazionale per cui queste ultime organizzano delle robuste sinergie con  le imprese high tech – sinergie ovviamente favorite dalla convenienza reciproca e anche da affinità elettive, di volta in volta, adattate ai Presidenti vincenti. Quello che era già avvenuto è che la sorveglianza di massa dei cittadini era passata dalle imprese high tech della Valle Oscura – che la svolgevano in primo luogo a scopo di lucro – alle agenzie di sicurezza di un grande paese formalmente democratico.  È evidente che dette tecnologie di controllo sociale e politico in democrazie deboli consolidano il potere dei governanti e possono condurre a veri e propri regimi totalitari. Vedi al riguardo le riforme costituzionali in Cina, Russia, Turchia, ecc. che estendono ad libitum il mandato presidenziale.   

Che dire di un’autrice come Anna Wiener e dello straordinario successo del suo Memoir? Ella appartiene a quel novero di scrittori che probabilmente non leggono quello che è stato scritto prima da autori che hanno trattato la stessa materia in modo approfondito e con cognizione di causa. Un fenomeno colto bene da Giovanni Sartori sul Corriere Cultura del 5-10-2004. L’eminente politologo attribuisce detto comportamento ai giovani autori che si occupano di teoria della democrazia – e i big data accumulati e utilizzati illegalmente da imprese private e agenzie pubbliche mettono a rischio la democrazia e i diritti alla privacy delle persone – “i nuovi autori più giovani, scrivono sempre più libri senza bibliografie inventati dal loro genio sorgivo. Le loro letture (scarse) risalgono, con poche eccezioni, a venti anni, e più che altro citano coetanei e compagnucci di cordata altrettanto sprovveduti di loro”.   La Wiener non cita neanche i suoi coetanei che, probabilmente, non conosceva, ma rispettando una buona prassi americana ringrazia 68 persone tra cui tre familiari che l’hanno aiutata a scrivere e commercializzare il libro.

Nuova serie della telenovela sulla riforma elettorale. E la riforma della PA?

Un articolo del costituzionalista Enzo Cheli sulla Rivista il Mulino del 9-12-2020 e un editoriale d Paolo Mieli sul Corriere della Sera del 28-12-2020, in qualche modo, rilanciano il dibattito sulla riforma del sistema elettorale. Dopo che il Parlamento ha approvato la riforma della drastica riduzione del numero dei parlamentari, in effetti, è necessario rivedere il sistema elettorale c.d. Rosatellum ed occorre anche ridisegnare i collegi elettorali. Si tratta di regole importanti: collegi ampi espandono il numero dei voti necessari per eleggere un rappresentante ma rendono più problematico il rapporto diretto tra agente e principale se all’ampiezza del collegio corrisponde una maggiore eterogeneità delle preferenze. Il sistema elettorale si traduce in un meccanismo che, in un modo o nell’altro, traduce i voti in rappresentanti.  Dico subito che non si tratta di meccanismi neutrali e semplici. Entrambi possono essere manipolati ad arte per favorire il partito o i partiti di maggioranza e rendere più difficile l’alternanza.

Enzo Cheli che ha studiato a lungo i sistemi elettorali sulla Rivista l Mulino 9-12-2020 afferma che per 45 anni (1948-19939) in Italia si è utilizzato stabilmente “un sistema elettorale di tipo proporzionale puro sia per la Camera che per il Senato che poggiava su un assetto di partiti stabili e bene organizzati”. È vero ma io aggiungo il vincolo esterno imposto dalla Guerra Fredda (1). In generale, è chiaro che se hai un partito egemone che anche con un sistema elettorale proporzionale raccoglie una maggioranza relativa elevata, il sistema funziona anche se non garantisce l’alternanza.

Il secondo periodo (27 anni) di Cheli è quello dell’ultimo trentennio; è quello che vede le riforme elettorali di stampo maggioritario: elezione diretta dei Sindaci, dei presidenti delle province e dei Presidente delle Regioni nonché di tre importanti leggi elettorali per la Camera e per il Senato. La prima del 1993 che porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica Mattarella che prevedeva l’assegnazione dei seggi per 2/3 con il metodo proporzionale e per 1/3 con il sistema maggioritario.    La seconda è la legge Calderoli del 2005. La terza è la legge Renzi del 2015 mai sperimentata. La quarta e la legge Rosato del 2017 attualmente in vigore anche se censurata in parte dalla Corte Costituzionale. Secondo Enzo Cheli, il primo periodo sarebbe stato caratterizzato da stabilità, il secondo da forte instabilità. Secondo Paolo Mieli, storico e in parte politologo, le riforme degli anni 90 sarebbero state provvidenziali e per 15 avrebbero assicurato un’alternanza addirittura virtuosa. Sostiene inoltre che il mandato diretto delle urne al Presidente del Consiglio garantirebbe maggiore legittimazione all’esecutivo.

Dagli anni 90 del secolo scorso il leit-motive delle riforme elettorali propalato dalla destra ma anche dal Centro-sinistra seppure con minore enfasi è stato ed è riforme elettorali di stampo maggioritario, abbandono della Repubblica parlamentare e introduzione del Presidenzialismo o quanto meno del semipresidenzialismo alla francese con esplicito rafforzamento del ruolo dell’esecutivo.  È da chiedersi se le continue modifiche del sistema elettorale sono fatte per contribuire a migliorare il funzionamento della democrazia o per altri motivi.

Tra i costituzionalisti di professione e altri esperti si discute se le riforme elettorali costituiscano vere e proprie riforme costituzionali. Il distinguo in Italia viene basato sul tipo di legge che le due riforme richiedono: le riforme costituzionali richiedono le procedure speciali previste di cui all’art. 138 Cost.  mentre le riforme elettorali si mettono in atto con legge ordinaria.  Ma questo criterio formale, secondo me, non racconta tutta la storia perché se con legge ordinaria e con certe modifiche ai regolamenti parlamentari si compromette il gioco istituzionale e si consente al governo, in linea di prassi, di espropriare il Parlamento del potere legislativo si viola in fatto il principio fondamentale della separazione dei poteri dello Stato. Se una delle Camere – sulla carta paritaria – tra Natale e Capodanno è costretta ad approvare la legge di bilancio senza avere il tempo di esaminarla attentamente, in fatto, si è attuato il bicameralismo imperfetto è in maniera spuria il Presidenzialismo. Si può sostenere fondatamente ancora che la forma di Stato è una Repubblica parlamentare come previsto dalla Costituzione del 1948?  Al di là dei principi costituzionali non sono i comportamenti dei governanti che contano?

Una seconda osservazione riguarda l’appropriatezza di un sistema elettorale maggioritario ad una società pluralista al limite della frammentazione dove sono diffusi la faziosità e il particolarismo. Secondo me, detto sistema non funziona in un Paese a bassa coesione sociale specialmente in una fase storica di polarizzazione del dibattito politico, in un sistema politico in cui i partiti populisti si dividono persino sull’appartenenza all’Europa, sull’euro, sull’Alleanza atlantica, sulla preservazione della Repubblica parlamentare e quant’altro. Paolo Mieli parla di virtuosa alternanza realizzata dal sistema maggioritario. E’ vero l’alternanza c’è stata ma chiamarla virtuosa mi sembra del tutto esagerato se penso che le coalizioni che si sono alternate al governo non hanno assicurato continuità in politiche fondamentali come la lotta alle diverse organizzazioni criminali che imperversano nel paese, alla corruzione, alla politica di consolidamento dei conti pubblici, a quella della ricerca e dell’innovazione necessaria per il rilancio della produttività e competitività del sistema, ecc.. Il Governo di centro-destra del 2001 cancella l’imposta sulla prima casa togliendo un cespite fondamentale per l’autonomia tributaria dei Comuni e l’imposta di successione. Il successivo governo di centro-sinistra reintroduce quest’ultima ma con quote esenti eccessive che ne riducono il gettito a 6-700 milioni all’anno come se l’Italia non fosse il quarto paese più ricco d’Europa ed il nono nel mondo. Il governo di centro-sinistra riduce la progressività dell’Irpef fissando l’aliquota marginale al 43% mentre il centro-destra vuole la flat tax e condoni a go go con buona pace della lotta all’evasione fiscale. Lo schieramento di destra vuole lo spostamento del carico fiscale dalle persone alle cose che penalizzerebbe i redditi medio bassi e un sistema tributario che continui ad alimentare le rendite parassitarie come lo spiega bene Luca Ricolfi nel suo ultimo libro sulla società signorile di massa recensito anche in questo blog. Che cosa significa tutto questo? Che l’Italia è un paese a bassa coesione sociale dove non c’è un principio condiviso di giustizia sociale e, di conseguenza, non ci sono politiche importanti condivise come quelle menzionate sopra. In una situazione di forte aumento delle diseguaglianze sociali servirebbe una politica tributaria maggiormente redistributiva ma questa non è priorità del centro-destra né del centro sinistra. E allora ecco l’elettore comune rimane frastornato. Non sa per chi votare – e non a caso gli vengono proposte liste bloccate – o vota per movimenti politici improvvisati come il M5S.

              L’ascesa del M5S e della Lega al governo del Paese e la crisi degli altri partiti liquidi si può dire che abbia migliorato il funzionamento del sistema politico italiano? In Parlamento prevalgono i competenti o gli incompetenti? Si può dire che abbiamo visto un’alternanza virtuosa? Voglio sottolineare di nuovo questa questione dell’alternanza in un contesto di polarizzazione delle posizioni politiche che porta al ribaltamento o sostanziale modifica delle politiche del governo precedente in un contesto in cui i governi di centro-destra hanno fatto di tutto per delegittimare la magistratura e la pubblica amministrazione. La riforma della giustizia si è ridotta alla complicazione dei codici delle procedure civili e penali certo a maggiore garanzia degli imputati e alla proposta di separazione delle carriere dei pubblici ministeri e dei giudici giudicanti finora non ottenuta ma mai ad una valutazione attenta dell’adeguatezza del numero dei giudici e del personale tecnico che li assiste e/o della efficienza della sua organizzazione.

La riforma della pubblica amministrazione è un’altra telenovela senza fine. Da 70 anni si va avanti con provvedimenti puntuali che mai hanno portato ad un serio miglioramento della sua capacità di implementare le leggi confuse ed incerte che tutti i governi hanno fatto approvare nelle diverse legislature. Il discorso su dette leggi sarebbe lungo e complesso. Qui mi basta ricordare che dagli anni ‘80 il discorso sulle riforme amministrative a livello europeo prevedeva il rafforzamento delle capacità amministrative delle regioni tendenzialmente sul modello dei Lander. In Italia il Partito dei sindaci (per lo più irresponsabili) forti della nuova legge sulla loro elezione diretta negli anni ‘90 temeva il un nuovo centralismo di stampo regionale e riusciva a ottenere che tutte le funzioni amministrative con il nuovo art. 118 del Tit. V Cost.  passassero ai Comuni salvo il potere delle regioni di esercitare la sussidiarietà verticale.  Ma 7000/8103 comuni sono piccoli ed hanno scarsa o nulla capacità amministrativa. Resistono alle fusioni pure incentivate e, tuttora, non comunicano tra di loro nonostante ci siano state diverse leggi che ne prevedono la messa in rete. Da 20 anni il paese è il mezzo al guado non sa se andare verso un assetto maggiormente decentrato (federale) con perno sulle regioni – magari anche esse accorpate – oppure verso una ricentralizzazione delle funzioni assegnate alle regioni dall’art. 117 Cost. novellato nel 2001.  Allo stato attuale non è chiaro quali siano le strutture di amministrazione attiva ai vari livelli di governo sub-centrale. E la questione non si risolve con la istituzione di cabine di regia al livello della Presidenza del Consiglio dei ministri. Semmai dette cabine dovrebbero essere collocate a livello dei diversi ministeri e dei competenti assessori regionali per guidare e controllare da vicino le strutture di amministrazione attiva che hanno l’esperienza di gestione di progetti pubblici e privati e sanno cosa funziona e non funziona nella fase attuativa. Questo per dire che in una fase storica in cui andiamo incontro a grandi trasformazioni come la digitalizzazione e la conversione verde dell’economia, lo sviluppo sostenibile abbiamo bisogno di condivisione piena di detti obiettivi che difficilmente può venire da governi instabili e politicamente contrapposti. È chiaro che le politiche appena menzionate e le riforme legislative che ci chiede la Commissione europea in relazione al Recovery Plan non sono politiche attuabili nel breve termine ma richiedono piani a medio e lungo termine da affidare a strutture amministrative stabili e, allo stesso tempo, flessibili. Una volta definiti e scelti i progetti, una loro congrua attuazione può venire solo da strutture di amministrazione attiva altamente professionalizzate e stabili che attuino sul serio quel sacrosanto principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa – previsto nel d.lgs. n. 29/1993 di attuazione della legge n. 421/1992 voluta da Giuliano Amato e Sabino Cassese.  La nostra pubblica amministrazione è vecchia e di formazione prevalentemente giuridica. C’è l’occasione per ammodernarla e attrezzarla per le nuove esigenze con ingegneri, economisti e tecnici vari. Le biblioteche sono piene di studi ed analisi che indicano come farlo ma la nostra classe governante ai vari livelli sembra ignorarne persino l’esistenza.               

  1. vedi Giorgio Galli, Dal bipartitismo imperfetto alla possibile alternativa, universale Paperbacks, il Mulino, Bo, 1975. Il sistema politico italiano era bloccato e quando per necessità – per la fine del primo Centro sinistra, la crescita elettorale del PCI all’elezioni amministrative del 1975 e poi a quelle politiche del 1976, il Presidente della DC  Moro chiede  l’appoggio esterno al governo di solidarietà nazionale, l’operazione fu fortemente osteggiata dal governo USA e in particolare da Henry Kissinger allora segretario di Stato – da sempre contrari alla partecipazione diretta del PCI al governo di un Paese membro della NATO. Quando nel 1979 il PCI chiese apertamente sdetta partecipazione, la richiesta fu prontamente respinta dalla Democrazia Cristiana. La possibile alternativa prospettata da Giorgio Galli non si concretizzò.