Non bastano le Costituzioni scritte per salvare la democrazia.

Steven Levitsky e Daniel Ziblatt, Come muoiono le democrazie, Introduzione di Sergio Fabbrini, traduzione di Fabio Galimberti, Editori Laterza, 2019 (ed. orig. 2018).

Per capire quello sta succedendo, per capire perché la democrazia arretra dappertutto dove più e dove meno bisogna studiare la storia. È quello che fanno i due professori di Harvard.  Essi riprendono l’idea di Juan J. Linz che a Yale ha impegnato gran parte della sua carriera di scienziato politico a capire perché muoiono le democrazie e ha enfatizzato il ruolo dei dirigenti politici. Levitsky e Ziblatt (il primo esperto di America Latina, il secondo dei paesi europei), fanno un’analisi storica comparata che non si limita ad alcuni paesi di questi due continenti ma, all’occasione, studiano altri paesi, sviluppano l’analisi di Linz sui dirigenti politici e ci aiutano a capire quali sono quelli pericolosi. “Dobbiamo preoccuparci quando un politico 1) rigetta, con le parole e con i fatti, le regole del gioco democratico; 2) nega legittimità agli avversari; 3) tollera o incoraggia la violenza; o 4) si dimostra pronto a limitare le libertà civili degli avversari, mezzi di informazione inclusi”. Individuano nei partiti le sentinelle della democrazia. Oggi sappiamo che in molti paesi democratici i partiti sono molto deboli e ridotti a simulacri di quello che erano una volta per via del prevalere del populismo, del leaderismo e della personalizzazione della politica. Ai partiti strutturati spetta il compito di opporsi all’emergere di politici autoritari nel loro seno ma sappiamo come in Italia si è teorizzato il partito liquido, il partito come mero strumento elettorale. E quando gli stessi politici e i cittadini invocano l’uomo forte la frittata è fatta. Richiamano il nuovo contesto mediatico che consente ai politici demagoghi e/o aspiranti autocrati ampi margini di manovra che occupano gli spazi vuoti lasciati dai partiti in fase di dissolvenza. Un contesto dove fioriscono gli esperti di comunicazione che insegnano a tutti come trasmettere velocemente (in tempo reale) i loro messaggi. E quando la competizione si fa dura non rifuggono dall’utilizzo di fake news o comunicazioni mirate a screditare in ogni modo gli avversari visti come nemici veri e propri da distruggere. Naturalmente dal loro punto di osservazione hanno davanti agli occhi il caso di Trump ed osservano che come candidato non aveva l’appoggio dei maggiorenti del partito repubblicano (d’ora in poi GOP great old party) che c’erano ma che, a loro giudizio, hanno abdicato al loro ruolo non facendo nulla per fermarlo.

 Levitsky e Ziblatt intitolano il cap. IV come sovvertire l democrazia. Premettono che far funzionare bene una democrazia è un compito sfibrante che richiede grande impegno non solo da parte dei politici in generale e spirito di leale collaborazione da parte di maggioranza e minoranza. Gli aspiranti autocrati invece si impegnano a controllare quelli che loro chiamano gli arbitri: il sistema giudiziario, le forze dell’ordine, i servizi di intelligence, le autorità fiscali, e le autorità di regolazione.  Richiamano anche la tesi generale di Ilya Somin sul ruolo dei giudici e lo judiciary scrutiny che le corti supreme possono esercitare sulle leggi e gli atti del governo. Un altro modo di svuotare dall’interno la democrazia è quello di manipolare le leggi elettorali e i regolamenti connessi al fine di raggiungere il loro scopo.  Citano l’esempio storico degli Stati del Sud della federazione dove il PD manipolò le leggi sui requisiti soggettivi e le modalità di esercitare il voto per cui l’abolizione della schiavitù ottenuta con la Guerra di secessione non produsse cittadini con diritti politici pieni. Furono approvate ad iniziativa del PD una tale congerie di restrizioni, poi raccolte nel famigerato Compromesso del 1877, che impedirono agli afroamericani di esercitare a pieno i loro diritti politici sino al 1964 e 1965. In pratica uccisero la democrazia negli ex Stati della Confederazione. Una volta messi in riga gli arbitri, gli aspiranti autocrati si rivolgono agli avversari politici del proprio partito e dell’opposizione, agli imprenditori, agli organi dell’informazione, a figure religiose popolari, a intellettuali, personalità note cercando di attirarli nella loro cerchia oppure screditandoli anche con accertamenti fiscali. Citano una serie di esempi che vanno da Chavez e Maduro in Venezuela, Fujimori in Cile, Peron in Argentina, Orban in Ungheria, Putin in Russia, Erdogan in Turchia, ecc.. In altre parole, invece di gestire veri e propri colpi di stato con fucilazioni, confino ed esilio, gli aspiranti autocrati per lo più preferiscono agire comprando l’opposizione ed emarginando quelli che rifiutano di fiancheggiarli nascondendo le varie operazioni sotto una facciata di legalità. Eccezione clamorosa quella del turco Erdogan che in fatto ha operato l’epurazione di 100.000 funzionari pubblici, la chiusura di diversi giornali, 50.000 arresti tra cui centinaia di giudici, pubblici ministeri, e due giudici costituzionali.  “Per i demagoghi a cui vanno stretti i vincoli costituzionali – affermano Levitsky e Ziblatt – una crisi può rappresentare un’opportunità per cominciare a smantellare gli scomodi, e a volte pericolosi, controlli e contrappesi che sono parte integrante della politica democratica”. Elencano i diversi presidenti democratici e repubblicani che hanno colto dette opportunità: Bush padre e figlio hanno raggiunto il massimo dei consensi durante la prima guerra all’Iraq e dopo l’11 settembre 2001, lo stesso Franklin Delano Roosevelt e molti altri ancora.    

Nel cap. 5 Levitsky e Ziblatt si occupano delle barriere di sicurezza della democrazia distinguendo tra norme scritte e quelle consuetudinarie non meno importanti delle prime. Premettono che la Costituzione degli Stati uniti in generale viene considerata una delle migliori anche se costituzionalisti come Robert Dahl, altri e loro stessi non la identificano con la democrazia; affermano inoltre che essa è stata “copiata” da quasi tutti i paesi dell’America latina ma quasi sempre aggirata clamorosamente. PQM essi si concentrano sul debole tessuto della consuetudine, ossia, sulle regole informali che non si trovano scritte nel testo costituzionale. È vero che l’importanza di una norma scritta è di norma rivelata dalla sua assenza ma sappiamo che l’Inghilterra una delle più antiche monarchie costituzionali non ha una costituzione scritta eppure il sistema funziona proprio grazie a norme consuetudinarie. La prima di queste norme è la tolleranza reciproca tra le forze politiche che competono per il governo del Paese. Se i nostri avversari politici rispettano le regole costituzionali non possono essere considerati nemici da combattere – come prevedono le categorie del politico di Carl Schmitt che i nostri non citano neanche. Quando questa basilare norma di tolleranza reciproca è fragile la democrazia fa fatica a sopravvivere. La seconda regola è la temperanza (forbearance), il self restraint, il paziente autocontrollo e/o moderazione dei politici che animano e governano le istituzioni.   L’opposto della temperanza o moderazione istituzionale è lo sfruttare senza alcun freno le proprie prerogative istituzionali. Tolleranza reciproca e moderazione sono norme di comportamento strettamente collegate   e si alimentano a vicenda. I due autori tra gli altri citano il caso del Cile 1973; pur menzionando il ruolo della CIA negli affari cileni sottolineano come le due principali forze di allora i socialisti e i democristiani non rispettarono le norme di sicurezza e la democrazia cilena cadde in maniera violenta. Su questa linea gli autori riprendono di nuovo il discorso della tolleranza reciproca al ribasso operata con il famigerato compromesso del 1877 che ha consolidato per circa un secolo l’egemonia del PD razzista negli Stati del Sud e, quindi, il governo suddiviso del paese. Non senza osservare che la costruzione di un clima di confronto civile e collaborazione tra GOP e PD in quel lungo periodo ha contribuito l’esclusione razziale degli afroamericani.   D’altra parte ricordano Levitsky e Ziblatt durante la Convention di Filadelfia tutti i costituenti a parole volevano una repubblica, in fatto, poi per via degli ampi e indeterminati poteri attribuiti al Presidente hanno legiferato una nuova monarchia come ebbe a dire George Washington – o una “presidenza imperiale” come l’ha definita lo storico Arthur M. Schlesinger Jr. consulente del presidente Kennedy. Come noto, i costituenti americani hanno stabilito una separazione netta tra i tre poteri dello Stato per cui il Congresso può non approvare le leggi proposte dal Presidente e viceversa questi può mettere il veto sulle leggi approvate dal Congresso. Nella prassi costituzionale USA il Presidente passa la maggior parte del suo tempo a confrontarsi con esponenti del Congresso per concordare le leggi da approvare e viceversa. Ma quando la politica si polarizza – specialmente negli ultimi decenni – diversi presidenti che non apprezzano la collaborazione con l’opposizione che controlla una o entrambe le Camere hanno fatto ricorso  ad atti esecutivi tipo comandi ai militari, “decreti”, ordinanze esecutive per le agenzie pubbliche, circolari e memorandum esecutivi (una specie di circolare presidenziale), sino ad arrivare ad accordi esecutivi come quello che Obama stipulò con l’Iran in materia nucleare che formalmente non è un Trattato internazionale e, quindi, non richiede la ratifica del Senato.   Nei rapporti tra maggioranza ed opposizione è previsto il filibustering o ostruzionismo come potere informale dell’opposizione che portato agli estremi può bloccare una legge della maggioranza ma viene usato raramente.  Storicamente molti presidenti hanno fatto ricorso a questi poteri indeterminati specialmente in situazioni di crisi o presunte tali o per evitare di collaborare con l’opposizione. La violazione delle norme in materia elettorale non avviene solo a livello federale ma anche a livello degli stati federati che hanno competenza sulle modifiche dei collegi elettorali che per legge dovrebbero avvenire dopo un censimento ma che in non pochi casi avviene prima giustificandola con la forte mobilità che caratterizza gli spostamenti delle persone e quindi su dati meno affidabili.   

Se non si rispettano le regole precedenti avviene lo sfilacciamento del tessuto democratico buone o cattive che siano le norme scritte nelle Costituzioni. Gli autori citano il ruolo del senatore Newt Gingrich che sposando esplicitamente la logica amico-nemico negli anni ’90 contribuì notevolmente a spostare a destra il GOP più di quanto il PD si fosse spostato a sinistra. In fatto contribuì a creare una situazione per cui non c’è più terreno comune tra i due storici partiti americani che oggi si dividono su pericolose linee integraliste di razza e religione così favorendo la polarizzazione.  A questa ha contribuito un cambiamento epocale prima nella società e poi nella composizione dei due partiti. Nel 1950 i non bianchi erano appena il 10%, nel 2014 il 38%, nel 2044 secondo previsioni dell’Ufficio del Censimento saranno la maggioranza.  Il GOP è diventato un partito a stragrande maggioranza composto da bianchi; il PD raccoglie i voti di tutte o quasi le minoranze etniche; nel GOP c’è una forte presenza di evangelici; per converso nel PD si riscontra più laicità. A questa grande trasformazione hanno contribuito i media di destra che castigano pubblicamente i politici repubblicani dialoganti con il PD. E molti donatori privati che non mancano di chiedere adeguate contropartite.

Levitsky e Ziblatt dedicano l’ottavo capitolo al primo anno del mandato di Trump anche se non hanno mancato di citarlo in quelli precedenti. Ha provocato le dimissioni del direttore dell’Ufficio etico del governo; ha fatto molti tentativi di modificare le leggi sui diritti civili e quelli elettorali. Lo definiscono un mentitore seriale nonostante che la norma informale preveda che il presidente debba dire sempre la verità. Un comportamento questo molto grave se si pensa che il buon funzionamento della democrazia servono cittadini bene informati. Naturalmente i suoi seguaci filtrano con lenti di parte le sue esternazioni e questo spiega come l’abbia fatta e continua a farla franca. Eppure il diritto ad una informazione corretta è diritto elementare per i cittadini e senza di essa viene meno la fiducia tra governanti e governati. Se così si erodono le basi della democrazia rappresentativa. Da qui la rilevanza di una stampa indipendente ed autorevole. Ma Trump va avanti sulla sua strada: ha attaccato il New York Times, il Washington Post, la CNN e singoli giornalisti ad alcuni dei quali ha proibito l’accesso alla Casa Bianca, si è scagliano contro presentatori TV in pubblico. Neanche Nixon era arrivato a tanta arroganza del potere.

Levitsky e Ziblatt concludono il loro lavoro con una specie di appello su come uscire dalla recessione democratica e salvare la democrazia in particolare quella americana su cui disegnano due scenari. Il primo ottimista che ipotizza il mancato rinnovo del mandato a Trump che darebbe slancio ai democratici che potrebbero cancellare alcuni provvedimenti del loro avversario e assumerne di nuovi per migliorare la qualità della democrazia come avvenne dopo le dimissioni di Nixon.

Il secondo scenario è pessimista e prevede la rielezione di Trump e dei repubblicani che cavalcando l’onda del suprematismo bianco si assicurerebbero la maggioranza in entrambe le Camere e nella Corte Suprema e così aprirebbero la strada a modifiche delle leggi elettorali per fabbricare maggioranze durature. Ed il gioco costituzionale potrebbe farsi molto pesante con ulteriori restrizioni alla identificazione degli elettori, espulsioni di immigrati clandestini o presunti tali, riduzione degli strumenti a disposizione delle opposizioni, ecc.. Disegnano uno scenario da incubo che gli stessi autori ritengono poco probabile.

Il terzo scenario che Levitsky e Ziblatt ritengono più probabile è quello in cui aumenta la polarizzazione e, di conseguenza, le rotture con le buone pratiche politiche e il gioco costituzionale pesante; se così la democrazia resta senza barriere di sicurezza affidabili. Con o senza Trump tolleranza reciproca e temperanza politica declinano. La Costituzione – ripetono i due autori – non è un’opera di ingegneria meccanica. Senza i partiti strutturati, senza regole di comportamento per gli uomini che animano le istituzioni (tolleranza reciproca e temperanza istituzionale) la Costituzione rimane un pezzo di carta – come ebbe a dire Piero Calamandrei – che giace inerte in un cassetto o per terra se non trova le gambe sulle quali farla camminare.

“Le istituzioni – continuano Levitsky e Ziblatt – sono qualcosa di più delle regole formali, richiedono anche una visione comune di quali sono i comportamenti appropriati che vi devono sovraintendere”. Al riguardo citano Gunnar Myrdal 1944 che vedeva nel credo americano due principi fondamentali: “libertà individuale ed egualitarismo” ma aggiungono che detti principi “scritti nei documenti fondanti, ripetuti nelle scuole, nei discorsi, negli editoriali dei giornali si giustificano da soli, ma non si applicano da soli”. Da americani sono preoccupati del fenomeno Trump e affermano che il trumpismo ha costruito il suo potere su una polarizzazione preesistente, per sconfiggerlo bisogna andare oltre Trump. L’alternativa è imparare a collaborare nonostante la polarizzazione, è superare la polarizzazione”.

 Il libro è del 2018 ma è di estremo interesse perché non si occupa solo degli USA ma sviluppa un’analisi comparatistica e storica di grande rilevanza. Quanto mai opportuno leggerlo nel 2020 in vista delle elezioni presidenziali di novembre.   

 http://enzorusso.blog/2020/01/15/non-bastano-le-costituzioni-scritte-per-salvare-la-democrazia/

L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia.

Tom Nichols, La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia, La Repubblica, 2019 (edizione originale Oxford University Press, 2017).

 A scanso di equivoci, Nichols asserisce che “la fine della competenza non è il crollo delle capacità professionali dei tecnici, dei medici, ingegneri, scienziati…., è il rifiuto della scienza e della razionalità obiettiva che costituiscono le fondamenta della civiltà moderna”. Il problema grave – continua Nichols – è l’emergere di una ostilità assoluta nei confronti dei saperi”. Premesso che trovo il libro un ottimo lavoro – ricco di aneddoti anche divertenti – che spiega i rischi che la democrazia corre, in prima istanza, osservo che la locuzione “fine della competenza” mi sembra alquanto inappropriata perché può far pensare che prima di questa ondata populista la competenza fosse diffusa o altamente rispettata o tenuta in grande considerazione da parte del popolo. Non mi sembra che sia mai stato così. Platone non casualmente teorizzava la repubblica dei filosofi anche in un cotesto in cui i diritti di cittadinanza erano molto ristretti. Forse nel Rinascimento e nel secolo dei Lumi gli scienziati sono stati tenuti in notevole considerazione. Né mi sembra appropriato sostenere che ci sia una correlazione diretta tra innalzamento del livello di istruzione delle masse e approfondimento delle tematiche della politica. Ilya Somin nel suo libro del 2013 ha affermato, anche sulla base di analisi statistiche anche dei sondaggi, come non sia dubitabile che nel ventesimo secolo il livello generale di istruzione sia consistentemente migliorato ma questo non ha portato ad un notevole miglioramento delle conoscenze dei complessi problemi politici. Né mi sembra appropriato teorizzare una correlazione tra il populismo degli ultimi decenni e l’adozione del suffragio universale che ha generalizzato il diritto di voto prima per gli uomini e poi per le donne. Non a caso Nichols pone in testa all’introduzione del suo pregevole libro la seguente frase di Isaac Asimov: “Negli Stati Uniti c’è un culto dell’ignoranza, e c’è sempre stato. Le sollecitazioni dell’anti-intellettualismo sono un filo rosso che si snoda attraverso la nostra vita politica e culturale, nutrito dalla convinzione che la democrazia significhi che “la mia ignoranza vale quanto la tua ignoranza”. È un fatto che questo slogan è ora fortemente valorizzato dai populisti nostrani quando affermano: “uno vale uno”. In ciò favoriti dalla presente era delle comunicazioni di massa. I populisti procedono per continue ed insistite semplificazioni dei problemi complessi e accreditano l’idea che “ogni parere va preso come verità” e che non c’è alcuna differenza tra il parere dell’uomo della strada e quello di scienziati, professionisti, tecnici, intellettuali ed esperti.  Questo porta all’effetto Dunning-Kruger al “fenomeno per cui più si è ottusi più si è convinti di non esserlo”, alias, “tutti ci sopravvalutiamo ma i meno competenti lo fanno più degli altri”. In barba alla “metacognizione che è la capacità di sapere quando non si è bravi in qualche cosa, di arretrare di un passo, osservare ciò che si sta facendo e così rendersi conto che lo si sta facendo male”.

Il miglioramento del livello generale dell’istruzione non lascia senza colpe colleges ed università americane che competono per accaparrarsi le risorse che le famiglie impiegano nella formazione dei loro figli, ed anche grazie al diffuso meccanismo dei prestiti agli studenti. Secondo Nichols, l’aspra competizione si svolge non tanto sulla qualità dell’insegnamento ma vieppiù sulla qualità dei servizi collaterali alla istruzione vera e propria: comodità degli alloggi, offerta di servizi ricreativi, sportivi, ecc.  tutti mirati a rendere maggiormente confortevole il soggiorno degli studenti nei collegi e nelle università.  Nichols cita anche Bernie Sanders che commentando la situazione dell’istruzione superiore ha avuto modo di dire che il voto massimo di oggi non è uguale a quello del 1960. Non è affatto comparabile ed ha aggiunto che una laurea di oggi equivale a suo giudizio a un diploma di scuola secondaria di 60 anni fa. Si arriva anche al fenomeno dei genitori elicottero, quelli che spostano la loro residenza nelle città dove studiano i figli dopo aver fatto lunghi viaggi e confronti tra sedi universitarie diverse quanto a gradevolezza dei campus e dotazione di attrezzature.   Genitori e studenti pagano rette molto alte e se spendono molto pretendono anche voti più alti.  Negli USA si è affermato un modello di istruzione industriale di massa con buona pace della missione storica ed ideale dell’università che è quella di produrre pensiero critico che – aggiunge Nichols – non è critica incessante (o aprioristica).

Nel cap. IV Nichols si occupa con grande maestria del ruolo di Google e dell’informazione illimitata che ci rende più stupidi. Il 90% di quello che trovi su internet è spazzatura cita da Sturgeon. E aggiunge “internet permette ad un miliardo di fiori di sbocciare ma la maggior parte di loro puzza”. E continua: “non è quello che non sai che ti fa male, è quello che sai e che non è vero”. E torna sull’effetto Dunning-Kruger: “le persone meno competenti tra coloro che navigano il web sono quelle che hanno meno probabilità di rendersene conto”. Il web ci sommerge di fake news e “purtroppo pensare di essere intelligenti perché si è cercato qualcosa su internet è come pensare di essere bravi nuotatori perché ci si è bagnati camminando sotto la pioggia”.

Nel cap. V Nichols tira in ballo il “nuovo new journalism”.  Via internet la disinformazione si diffonde molto più velocemente e resta in circolazione molto più a lungo producendo effetti deleteri tipo: l’ho letto sul giornale e quindi è vero. Poi si sono diffuse forme di informazione (come anche molti talk shaw italiani), ossia, “un misto di intrattenimento, notizie, saccenteria e partecipazione dei cittadini che sono un garbuglio caotico che non informa la gente ma crea l’illusione di essere informati”. In Italia simili trasmissioni si protraggono per 2-3 ore e anche oltre durante le quali è difficile mantenere viva l’attenzione anche perché quando sembra che qualcuno cerca di entrare nel merito dei problemi analizzati, non di rado, i conduttori interrompono il discorso propinando un servizio dall’esterno o introducendo uno stacco pubblicitario. Per difendersi dal bombardamento di notizie false o poco attendibili Nichols propone una “dieta equilibrata di notizie” non senza notare che, non di rado, i cittadini più disinformati si trasformano negli hooligans di Mounk (2018) quelli che difendono il gruppo politico a cui appartengono come i tifosi tifano per la propria squadra di calcio a prescindere.

Come abbiamo visto sopra, Nichols distingue tra scienziati, tecnici, professionisti ed esperti. Nel cap. VI si chiede che cosa succede quando gli esperti sbagliano. Cita un aforisma di Bertrand Russell il quale dice che “allorquando gli esperti sono tutti d’accordo, potrebbero benissimo sbagliarsi”. Succede quando si cercano soluzioni o spiegazioni a problemi molto complessi di teoria e pratica e succede molto più spesso quando gli esperti vengono chiamati a predire sviluppi futuri di certi problemi. Nichols giustamente precisa che scopo della scienza è quello di spiegare, non di predire. D’accordo, gli esperti non sono infallibili ma screditarli in tutto e per tutto è sbagliato. Ma è anche erroneo e dannoso per la società che gli sbagli e le previsioni che non si avverano siano spesso utilizzati dai populisti per screditare scienziati ed esperti. In questo modo viene meno la fiducia tra esperti e cittadini e quando questo avviene sono guai per il processo democratico. Il processo degenera sino al tal punto che “le persone sentono quello che vogliono sentire e poi smettono di ascoltare…”. Aumentano i rischi per la democrazia: se a furia di semplificazioni votano gli incompetenti, è più alta la probabilità che coerentemente con le semplificazioni che hanno propalato i leader populisti e sovranisti assumano le decisioni sbagliate e aprano la strada o all’isolazionismo e alla politica di potenza – vedi il caso di Trump – oppure a soluzioni tecnocratiche e/o autoritarie che tendenzialmente possono fare a meno del voto. In Italia questo è successo nei primi anni 20 e in Germania negli anni 30 del secolo scorso, ma quanta gente comune ha memoria storica di quegli eventi?  Al riguardo Nichols sostiene che gli USA sono una Repubblica e non una democrazia. Come noto, una repubblica è una forma di Stato che in prima istanza è succeduta alle monarchie assolute e/o costituzionali con suffragio limitato. Nichols precisa che “i profani dimenticano fin troppo facilmente che la forma repubblicana di governo sotto cui vivono non è stata pensata perché fossero le masse a prendere decisioni sui problemi complicati. Ovviamente – continua Nichols – non è stata pensata neppure perché a governare fosse un minuscolo gruppo di tecnocrati o di esperti, ma per essere il veicolo attraverso cui un elettorato informato – e “informato” è la parola chiave – poteva scegliere altre persone che lo rappresentassero o prendessero decisioni in sua vece”. Quindi stiamo parlando di una democrazia rappresentativa dove si assume che la rappresentanza sia altamente qualificata e non composta da persone che vengono selezionate sulla base della fedeltà al leader del gruppo a cui aderiscono e i cittadini bene informati.  Quindi leaderismo e personalizzazione della politica sono segnali forti della malattia di uno assetto democratico. Si tratta di un serpente velenoso che si annida nel seno della democrazia, prima o poi morde e uccide la democrazia. Né il problema si risolve creando delle reti più o meno ampie e consultando la rete attraverso sondaggi che scimmiottano strumenti di democrazia diretta. Per fare l’esempio della piattaforma Rousseau adottata dal M5S, è noto che non c’è trasparenza, non è detto che tra i componenti della rete prevalgano persone qualificate ed esperti della materia su cui si praticano i sondaggi. Inoltre non va dimenticato che oltre a organizzare la difesa e l’ordine pubblico, l’operatore pubblico ai vari livelli organizza la produzione di beni pubblici essenziali come istruzione, sanità, previdenza e svolge una complessa attività di regolazione di certe attività private. Prendere delle decisioni ponderate in tutte queste materie è affare ben diverso di fare un sondaggio per sapere quale l’opinione prevalente di un gruppo (o di una rete) su un certo problema da risolvere. I sondaggi e/o le consultazioni dirette – vedi referendum sulle cellule staminali embrionali del giugno 20025 a cui partecipò solo il 25% dei cittadini – non si addicono alla democrazia di massa basata sul suffragio universale e a contesti di forte interdipendenza tra i paesi impegnati in tortuosi processi di integrazione economica e politica come nel caso dell’Unione europea dove notoriamente si registra un forte deficit democratico e, di conseguenza, una spinta tecnocratica e autoritaria, dove il Parlamento ha limitati poteri legislativi, dove la Commissione cumula in modo inappropriato poteri legislativi, esecutivi e giudiziari e il tutto è sottoposto al via libera del Consiglio europeo composti da Capi di Stato e di governo dei paesi membri.

Nelle conclusioni Nichols osserva che negli Stati Uniti la gente vota i personaggi che le piacciono a prescindere da quello che essa stessa e i candidai vogliono. È chiaro che in questo modo il modello agente-principale che alcuni sociologi adottano per spiegare il mandato parlamentare non può funzionare. Non ultimo, gli americani pensano alla democrazia come ad uno stato di effettiva uguaglianza. Nichols cita il politologo inglese C.S. Lewis che in un saggio del 1959 aveva già chiarito che la gente comune non distingue tra uguaglianza politica ed uguaglianza effettiva a tutto tondo che include la capacità di pensiero critico ed autocritico che abbiamo visto sopra. Cita anche Traub che richiama la situazione in cui ci si viene a trovare quando la gente si illude che il compito della leadership è disilluderla”. Ma quali leader politici contemporanei – specialmente se anche loro incompetenti – sono capaci di fare una cosa del genere? Non ultimo bisogna considerare che gli esperti non possono costringere i cittadini a prestare attenzione al mondo che li circonda. E anche per questo motivo si registra un’ascesa di politici demagoghi ed ignoranti negli USA e in Europa che in parte significativa condizionano il processo democratico al di qua e al di là dell’Atlantico. Nichols resta ottimista sul futuro perché conta su un ruolo più attivo delle elites che, però, devono ricordare che ogni voto è uguale, non ogni opinione. Anche gli esperti dovrebbero ricordare che sono i servitori non i padroni di una società democratica, che non sempre i loro pareri possono essere accolti dai legislatori e – aggiungo io – che far funzionare bene una democrazia richiede grandi sforzi di attenta analisi dei problemi da parte di tutti i cittadini. E purtroppo molti di questi o non hanno il tempo o la voglia di occuparsene.

Ilya Somin, Democracy and political ignorance. Why smaller government is smarter, Stanford Law Book, Stanford University Press, 2013. Mia recensione in http://enzorusso.blog/2018/08/10/democrazia-malata-2/

Yascha Mounk, Popolo vs Democrazia. Dalla cittadinanza alla dittatura elettorale. Feltrinelli, Serie Bianca, 2018. http://enzorusso.blog/wp-admin/post.php?post=905&action=edit

Incompatibile la democrazia con l’ignoranza degli affari politici.

Ilya Somin, Democracy and political ignorance. Why smaller government is smarter, Stanford Law Book, Stanford University Press, 2013

La democrazia è sinonimo di governo del popolo dall’antica Grecia a oggi passando anche per Lincoln. Il problema è l’accountability dei rappresentanti. Quello tra elettori ed eletti è un rapporto di agenzia: c’è un principale che è l’elettore e c’è un agente che è l’eletto.  Perché il rapporto di agenzia funzioni, si devono verificare alcune condizioni fondamentali. Che ci sia un rapporto di fiducia, che gli elettori si occupino del bene comune, che siano sufficientemente informati, che votino in modo razionale, che gli eletti rispettino la volontà e/o le preferenze dei loro elettori, che le preferenze si aggreghino per formare una maggioranza chiara e magari molto ampia, ecc..   Alcuni modelli economici invece spiegano il funzionamento della democrazia assumendo che gli elettori votino o non votino in modo razionale nel primo caso per massimizzare il proprio interesse, nel secondo caso, perché non ritengono che il loro voto possa in alcun modo influenzare l’esito della votazione.

In via principale, il libro si occupa di uno di questi problemi quello della ignoranza politica, non sempre tenuta nella debita considerazione da parte di filosofi, politologi e teorici della democrazia.  È spontaneo pensare che il rimedio all’ignoranza sia l’istruzione generale. Ma Somin sulla base di indagini empiriche che negli Stati Uniti hanno una storia ormai secolare conferma la persistenza dell’ignoranza politica a fronte di un innalzamento del livello di istruzione e di una drastica riduzione dei costi di acquisizione dell’informazione. È un fatto che anche la gente istruita dedica poco tempo e scarsi sforzi a migliorare il suo sapere politico.

Emerge subito che la tesi principale del libro è quella di individuare modi e metodi per ridurre considerevolmente l’ignoranza politica, ma che questo obiettivo possa essere conseguito viene ritenuto poco probabile. L’autore propone quindi di ridurre almeno l’impatto degli effetti negativi dell’ignoranza politica. Secondo Somin, ciò può essere ottenuto attraverso due modalità principali: la judicial review e la decentralizzazione congiunta alla limitazione delle competenze del governo.

Premesso che l’ignoranza politica inquina il funzionamento della democrazia, Somin cita Madison (quaderni federalisti 62 e 63)  per la proposta di  un Senato eletto indirettamente ma altamente qualificato che potesse correggere gli errori dell’ignoranza politica della Camera bassa. Quindi passa alla definizione di questo concetto che è intuitiva per cui l’Autore passa alla definizione di sapere politico (political knowledge) come consapevolezza dei problemi fattuali reali connessi alla politica in generale e alle politiche pubbliche in particolare. Il tema non è nuovo. È vecchio quanto è vecchio il dibattito sulla democrazia. Mi basta citare Platone ed Aristotele. Più recentemente mi basta il riferimento al Nobel dell’economia  Herbert Simon  che distingue opportunamente tra modello olimpico  (di perfetta informazione) e modello di razionalità limitata che dipende in primo luogo dalla disponibilità di informazioni adeguate rispetto ai problemi da risolvere. Vedi in particolare il suo volume edito dal Mulino (1984) La ragione nelle vicende umane.

D’altra parte non manca chi sostiene la scarsa rilevanza dell’ignoranza politica sulla base dell’assunto secondo cui non è lecito valutare i valori-obiettivo perseguiti da una democrazia con standard esterni e/o diversi da quelli propri degli elettori della democrazia che, di volta in volta, viene presa in considerazione.

Il libro raccoglie e sviluppa alcuni saggi che affrontano diversi problemi non solo sulla base di ragionamenti astratti ma analizza i risultati di indagini empiriche condotte in diverse fasi della storia degli Stati Uniti. La maggior parte dei casi considerati nel libro sono casi in cui si controverte sugli strumenti alternativi con i quali perseguire obiettivi comuni e/o condivisi. Ovviamente il problema risulta più complicato se le soluzioni proposte non sono condivise e, addirittura, vengono presentate come scelte di civiltà – come purtroppo avviene in Italia.

Se gli elettori non sanno per che cosa e per chi votano e se, come sostiene   Brian Caplan (citato da Somin),   gli elettori non solo sono incentivati a rimanere ignoranti ma sono piuttosto incentivati a sposare interpretazioni partigiane delle informazioni che ricevono e se gli stessi eletti,  non di rado, non hanno piena contezza delle leggi che approvano , il modello decisionale che ne emerge può essere definito,  come fa Caplan,  dell’”irrazionalità razionale”.

E tuttavia la Costituzione americana prevede un sistema di pesi e contrappesi che cercano in via principale di rimediare al problema. Uno di questi è la judicial review  (scrutinio giudiziario)  delle leggi che è operata dal potere giudiziario che , secondo i sostenitori della c.d. countermajoritarian difficulty,  mina la democrazia in quanto lede il principio maggioritario o la sovranità popolare che attraverso di esso emerge.

Per garantire la corretta applicazione del Principio della Supremazia della Costituzione vigente occorre un organo politico imparziale, un organo giudiziario di cui sia garantita l’indipendenza e l’inamovibilità dei suoi componenti, un organo che sia dotato dei poteri di annullamento delle leggi e dei provvedimenti amministrativi che si rivelino in contrasto con la costituzione.

Ne  nasce un trade off , un problema di bilanciamento tra quella che gli americani chiamano la countermajoritarian difficulty e la necessità della revisione giurisdizionale delle leggi  per ridurre il rischio che maggioranze assolute adottino leggi che in realtà possono risultare in conflitto con l’interesse generale e/o che discrimino le minoranze  in un contesto in cui, a causa dell’ignoranza politica, la maggior parte degli elettori non sono in grado di valutare correttamente le finalità delle leggi . Somin cita i due casi importanti di iniziativa legislativa degli anni ’90: la riforma sanitaria di Clinton (bocciata nel 1994) e il Contratto con l’America proposto dai Repubblicani nel 1995 che non furono compresi dagli elettori. Come non fu compresa parte della legislazione del New Deal negli anni ’30, per cui i politici di allora furono “costretti” alla manipolazione dell’opinione pubblica.  Occorre quindi operare un bilanciamento tra l’esigenza di rispettare per quanto possibile il diritto della maggioranza a tradurre in leggi le sue proposte programmatiche e il rischio di consegnare tutto il potere ai giudici.  In ogni caso, molti studiosi concordano che  lo scrutinio giudiziario delle leggi  contribuisce a ridurre l’ignoranza politica. Questa in grossa parte è alimentata dalla oscurità con la quale le leggi sono scritte e dalla complessità dei problemi che provano a risolvere.

Negli Stati Uniti la letteratura contraria alla revisione costituzionale delle leggi ha una lunga tradizione ed è molto diffusa ma Somin non l’accoglie perché la judicial review può contribuire in maniera considerevole a mitigare le conseguenze delle decisioni assunte nell’ignoranza politica.

Il secondo rimedio fondamentale che Somin propone per combattere l’ignoranza politica è il federalismo accompagnato da una riduzione dei compiti dello Stato.  Sostiene la superiorità del voto con i piedi, di un sistema federale, di un governo con compiti limitati. Se applicata correttamente, la decentralizzazione riduce l’ignoranza politica, migliora il funzionamento del rapporto di agenzia, consente di rispettare meglio le preferenze dei cittadini che peraltro sono più omogenee, rende i politici maggiormente responsabili.

Per chi come me, per  22 anni,  ha insegnato  un corso sulla teoria economica del federalismo,  l’idea di Somin non è nuova e infatti riprende il modello di Tiebout. Oggi è teoria condivisa anche se non praticata in Italia. È facile commentare la tesi del sottotitolo “why smaller government is smarter”: c’è un numero limitato di problemi da risolvere. In realtà la teoria adottata dai padri costituenti americani è che la tripartizione dei poteri individuata da Montesquieu era insufficiente perché non garantiva abbastanza i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini.  Gli americani erano anche contrari al governo grosso che in America avrebbe assunto dimensioni gigantesche.   Si può dire che la federazione è stata costruita sul modello dello Stato minimo. Anche   PQM, dopo 11 anni di dibattiti, la Convenzione sceglie il governo suddiviso, ossia, caratterizzato da una doppia suddivisione dei poteri, non solo quella orizzontale ma anche verticale. Al di là della scelta iniziale, poi lo sviluppo economico conseguente alla forte industrializzazione ha imposto in fatto un crescente intervento da parte dello Stato. Questo però non implica un accrescimento delle competenze del solo governo centrale ma soprattutto degli Stati federati.  Oggi possiamo dire che una corretta applicazione del principio di sussidiarietà aiuta ad individuare il livello di governo più adatto a svolgere le nuove funzioni.

In questi giorni sto seguendo il tormentato dibattito al Senato sulla riforma costituzionale. Non ho potuto seguire tutti gli interventi ma da quanto ho sentito e da quello che ho letto nello stesso DDL presentato dal governo, non mi sembra che emerga una architettura istituzionale che tenga nella minima considerazione i problemi sopra accennati. Anzi, sul terreno del federalismo, sembra emergere un chiaro trend verso la centralizzazione.

Postato il 21 agosto 2014