Quattro ore di guerriglia urbana a Roma.

I novax e alcuni partiti di centro-destra che li assecondano vedono il green pass come uno strumento a sostegno della dittatura sanitaria. Falso. Il green pass come la mascherina, il distanziamento, la limitazione degli ingressi in locali piccoli, ecc.. sono  accorgimenti pratici consigliati al Governo dal Consiglio Tecnico scientifico che mirano ad evitare la vaccinazione obbligatoria ma, allo stesso tempo, assicurare il massimo di mobilità consentito dalla Pandemia. Ma questo i novax  non lo capiscono. Il problema da risolvere è quello di coniugare sicurezza sanitaria della collettività e sicurezza del lavoro. Come già detto, la via più diretta sarebbe stata quella di stabilire il vaccino obbligatorio ma per via  dell’opposizione di Salvini e della Meloni (che difendono a spada tratta un malinteso principio di libertà individuale) si è scelto uno strumento intermedio come il green pass per agire in modo graduale ed in parallelo con i progressi della vaccinazione. Si noti che  graduali sono state le riaperture di tante attività dopo la chiusura generalizzata di tutte quelle attività che non erano strettamente necessarie per la sopravvivenza quotidiana.Come succede spesso in materia di scelte collettive si condividono gli obiettivi ma non si è d’accordo nella scelta degli strumenti per perseguirli. Ora in democrazia e in condizioni normali si confrontano i meriti e i demeriti delle varie proposte, i costi e i benefici dei vari strumenti, si raggiunge un accordo e si va avanti. Normalmente si vota a maggioranza. L’Italia non è un paese normale e, alla emergenza pandemica strada facendo si è aggiunta una emergenza politica che il Presidente Mattarella ha risolto ricorrendo al Governo tecnico di Mario Draghi a cui hanno aderito tutti i principali partiti tranne Fratelli d’Italia. Salvini gioca a fare il partito di lotta e di governo e, in una situazione di permanente polarizzazione delle forze politiche, il governo stenta ad ottenere il consenso per varare provvedimenti largamente condivisi. Specialmente se alcune forze politiche fingono di resistere ad una presunta dittatura sanitaria cianciano di gravi violazioni delle libertà individuali.  In un Paese a bassa coesione sociale e con partiti in permanente campagna elettorale, incapaci di formare una nuova maggioranza dopo la caduta del Governo Conte-2, è da registrare positivamente anche il fatto che le parti sociali hanno trovato una convergenza con il governo sul green pass che, in forma più allargata di quella attuale, entrerà in vigore il 15 ottobre p.v..

Detto accordo non va bene a frange estremiste che ieri (sabato 9 ottobre) a Piazza del Popolo a Roma si sono ritrovate – non casualmente insieme – a forze neofasciste che perseguono ben altri scopi del tutto illegittimi. Va detto e ribadito che la dimostrazione del dissenso in democrazia è del tutto legittima e garantita dalla Costituzione purché non utilizzi la violenza e non miri a sovvertire le istituzioni. Quello che è successo ieri a Roma è che, dopo i comizi a Piazza del Popolo, la manifestazione non si è spontaneamente sciolta e tutti sono tornati a casa. È successo che un primo grosso gruppo di manifestanti si è diretto verso Palazzo Chigi e Montecitorio sedi del Governo e della Camera dei Deputati. Hanno sfiorato l’obiettivo ed è stato prontamente allontanato dalla polizia in assetto anti sommossa ma lo scontro non è finito perché la guerriglia si è solo sposata nelle strade vicine con barricate improvvisate, lanci di bombe lacrimogene, utilizzo di idranti e qualche pestaggio. Per fortuna senza morti perché la polizia non ha accolto tante provocazioni.

Un secondo gruppo di manifestanti ha seguito un percorso diverso prima a Piazzale Flaminio con il tentativo di rovesciare un furgone della Polizia e poi proseguendo fuori delle Mura Aureliane ha raggiunto indisturbata la sede nazionale della CGIL a Corso d’Italia dove sfondando  la porta di ingresso , buttando giù un cartellone con l’immagine di Luciano Lama che richiamava il centenario della sua nascita, fracassando i vetri di alcune finestre sono entrati nel  piano rialzato dove c’è la portineria e altri uffici con i server e i collegati computer della CGIL. In diretta TV in molti abbiamo visto scene di bestiale violenza contro tre agenti della polizia con spranghe e bastoni fasciati dal tricolore nazionale e lancio di una grossa telecamera ed altri pesanti oggetti. Anche qui sono prevalse le azioni dei neofascisti di Forza Nuova costretti a sgomberare e a cessare le devastazioni quando in ritardo sono sopraggiunti i rinforzi della Polizia.

Seguendo questi eventi in diretta TV, mi si è consolidato il convincimento che le autorità di polizia non hanno saputo gestire bene i percorsi dei due gruppi di in cui si sono divisi i partecipanti alla manifestazione di Piazza del Popolo in particolare il secondo. Hanno lasciato arrivare il primo gruppo sino a Palazzo Chigi. Non hanno sorvegliato affatto il secondo specialmente dopo il primo scontro a Piazzale Flaminio. Non potevano pensare che andassero a passeggiare a Villa Borghese. Il secondo gruppo non ha avuto alcuna difficoltà a fare quello che ha fatto profanando la sede nazionale della CGIL sguarnita, di una Confederazione che ha una storia gloriosa di difesa dei diritti di tutti i lavoratori e della democrazia. Alcuni commentatori hanno visto una prima analogia con gli assalti alle Camere del lavoro da parte delle squadracce fasciste del 1921 a fronte di una classe politica liberale che pensava che l’accesso al governo di Mussolini avrebbe fatto cessare la violenza fascista. Certo l’analogia è forte ma ingannevole come il paragone con l’assalto al Congresso deli Stati Uniti non ostacolato dal Presidente Trump.   In Italia oggi la situazione è molto diversa. Quasi tutte forze politiche per quanto deboli sono antifasciste e nella storia di questa Repubblica e nelle varie crisi degli anni ’60 e ’70, della strategia della tensione, negli anni del terrorismo nero e rosso degli anni ’70 e ’80, la CGIL e le altre Confederazioni da protagoniste hanno saputo fare barriera con le altre forze democratiche a difesa della Repubblica e della democrazia. Non molleremo e questa volta non siamo soli. Abbiamo dietro anche la maggior parte dei Paesi dell’Unione europea.        Enzorus2020@gmail.com

   Post scriptum: Sabato 9 ho potuto seguire la diretta Rai News 24 solo dopo che si era conclusa la manifestazione di Piazza del Popolo. Nei giorni scorsi tutti abbiamo appreso che Giuliano Castellino uno dei leader di Forza Nuova già dal palco aveva annunciato che era loro intenzione di andare all’assalto della CGIL.  Anche a Piazzale Flaminio lo stesso Castellino interloquendo con un poliziotto chiedeva che gli venisse consegnato Landini altrimenti sarebbero andati a prenderselo direttamente. Quindi la polizia e i suoi capireparto in loco erano bene al corrente di quali fossero le intenzioni di Forza nuova ma  hanno fatto  poco o niente per fermarli o per mandare 50 poliziotti a difesa della sede nazionale della CGIL.  Quindi si conferma quello che ho scritto sopra.   

Spigolature storiche sulle imposte di successione.



Nel post del 2 dicembre 2020 prima che si approvasse la legge di bilancio 2021, ho scritto: anatema a chi propone di introdurre imposte patrimoniali magari solo razionalizzando quelle già esistenti. Il riferimento era alla proposta degli On. Fratoianni e Orfini che avevano presentato un emendamento per introdurre una imposta patrimoniale ordinaria nel nostro sistema tributario. Come avevo detto ripetutamente negli anni scorsi in Italia non ci sono le condizioni politiche per fare una riforma fiscale di ampio respiro a causa della rigida polarizzazione delle posizioni delle forze politiche che dovrebbero approvarla. Il Centro-destra è più o meno compatto sulla linea di una riduzione generalizzata delle imposte che è ritenuta l’unica misura adatta anche a rilanciare la crescita economica omettendo ogni altra considerazione relativa al macigno del debito pubblico, alla riduzione delle diseguaglianze, alla necessità di aumentare la spesa pubblica per la sanità, l’istruzione, la lotta alla povertà, alla politica per la piena e buona occupazione. Il Centro-sinistra e/o le forze politiche che si collocano in quell’area dello schieramento parlamentare è diviso tra quanti vorrebbero una riforma che perequasse la distribuzione degli oneri tributari e quanti puntano ad una redistribuzione più spinta utilizzando la spesa pubblica anche in deficit.
Il governo Draghi che fin dal suo insediamento aveva puntato ad una delega per la riforma richiesta anche dalla Commissione europea come strumento necessario per l’attuazione del Piano nazionale di rilancio e resilienza, sta incontrando crescenti difficoltà a concordare una legge delega di riforma persino minimale – altro che di ampio respiro – e abbiamo visto che la recente ventilata introduzione dell’argomento di un aggiornamento del catasto ha subito incontrato la becera opposizione del capo della Lega Salvini. Ha detto che revisionare il catasto significherebbe fare aumentare la base imponibile del catasto sarebbe equivalente all’introduzione surrettizia di una patrimoniale. È vero che in fatto l’aumento del gettito di una vecchia imposta è equivalente ad una nuova imposta. Ma la revisione del catasto si impone anche per perequare la distribuzione del gettito di una o delle vecchie imposte che gravano su fabbricati e terreni che vedono forti squilibri tra immobili localizzati nei centri cittadini e quelli nuovi delle periferie urbane.
Visto che siamo in tema di equivalenze dobbiamo premettere che di queste se ne possono vedere tante: tra imposta patrimoniale ordinaria (annuale e ricorrente) e quella straordinaria (una tantum); tra imposte ordinarie patrimoniali prelevate in percentuale del valore capitale del bene e imposte ordinarie sui corrispondenti redditi di natura patrimoniale; tra imposte sul reddito definito come base imponibile onnicomprensiva che include anche il reddito derivante da cespiti patrimoniali e imposte che tassano questi ultimi separatamente. Ma quello che conta in buona sostanza è la determinazione della capacità contributiva a cui commisurare l’imposta che il cittadino deve pagare. Come noto a chi ha studiato un po’ di storia del pensiero economico e nozioni introduttive di scienza delle finanze, gli economisti classici distinguevano bene tra redditi fondati – che avevano sotto cespiti patrimoniali – e redditi prodotti dal solo sforzo lavorativo diretto. Questi ultimi dovevano essere trattati più favorevolmente perché avevano maggiore necessità di risparmio per provvedere ai bisogni quando i titolari si ritiravano dall’attività lavorativa. Anche se con l’affermazione dei sistemi avanzati di welfare nei paesi europei la funzione previdenziale e assistenziale è pubblica allora diventa rilevante guardare alle modalità di finanziamento del welfare. Se il finanziamento resta totalmente o quasi a carico dei lavoratori e delle imprese aumenta il costo del lavoro e questo può costituire un limite all’aumento dell’occupazione. Studi fatti da economisti di vario orientamento politico confermano che i tartassati sono nell’ordine: pensionati, lavoratori dipendenti e alcune categorie di lavoratori autonomi. Questi contribuenti sono sottoposti a progressività; gli altri pagano per lo più imposte proporzionali.
Ora sappiamo che un’applicazione rigorosa del principio di progressività deve tener conto della diversa capacità contributiva di soggetti che oltre ad alti redditi godono di cospicui patrimoni mobiliari ed immobiliari. Questo fondamentale principio di giustizia fiscale sfugge a quanti sconsideratamente propongono imposte ad aliquota costante (Flat Tax). Queste ultime coniugate con deduzioni dalla base imponibile e detrazioni dall’imposta lorda dovuta (crediti di imposta) limitano la progressività ai redditi medio-bassi. Al di sopra di certi livelli, i redditi pagano imposte sostanzialmente proporzionali. Un tale esito viola drasticamente il principio della progressività di cui all’art. 53 della Costituzione. Ci si può chiedere perché le forze politiche neoliberiste e populiste insistono nel proporre simili ricette di politica tributaria e fiscale. Secondo me, in parte detta posizione discende dalle loro scarse conoscenze della materia finanziaria e in parte perché pur di conquistare il potere si alleano con i padroni del vapore (Ernesto Rossi) così tradendo gli interessi del popolo.
Nel post del 2 dicembre 2020 ho scritto di anatema o scomunica di coloro che propongono imposte patrimoniali di qualsiasi tipo. Nel post citato ricordavo due precedenti storici molto significativi: 1) il progetto Meda del 1919 che portava all’adozione di una imposta straordinaria con rateazione decennale (RDL 24-11-1919, n. 2169); 2) il secondo precedente è del 1939 – inizio della II guerra mondiale – che istituiva una imposta ordinaria allo scopo di attuare la discriminazione qualitativa del reddito – poi abrogata o riscattata nel 1947. Ovviamente il dibattito sulle imposte patrimoniali risale alla notte dei tempi. Nell’antico Egitto le imposte sui redditi prodotti della terra venivano accertati sulla base di presunzioni fondate sulle piene più o meno alte del Nilo misurate dall’apposito nilometro ancora visibile. Ovviamente niente di nuovo sotto il sole perché il dibattito sulle imposte di successione si può far risalire alle posizioni contrapposte di Platone e Aristotele e alle loro visioni della società e della democrazia. Il primo nella Repubblica auspicava la socializzazione delle eredità in coerenza con la sua idea di socializzare la paternità. I genitori secondo Platone non dovevano sapere quali erano i loro figli. Tutti hanno diritto ai prodotti della terra, l’unico limite è dettato dalla diversità dei bisogni. E poiché ogni bisogno e ogni diritto cessano con la fine dell’esistenza, non debbono esservi atti di ultima volontà né successioni legittime, sull’esempio di Sparta, «la meglio ordinata società». Così, senza interventi violenti, si può «ridurre a giustizia» il sistema di proprietà ed eliminare fonti di oppressione incompatibili con la democrazia. Aristotele nella Politica contestava tale idea perché temeva l’indifferenza generalizzata dei genitori se i figli dovevano essere considerati come di tutti.
Più recentemente ho trovato riferimenti molto attuali in Vincenzo Russo martire della rivoluzione napoletana del 1799. A scanso di equivoci preciso che si tratta di omonimia e di un intellettuale che insieme a Vincenzo Cuoco ed altri sull’onda della spinta originata dalla Rivoluzione francese propugnavano analoga rivoluzione in Italia. Cito dalla sintesi della sua opera principale operata da Anna Maria Rao per il Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 89 (2017). A partire dal XIV capitolo dei Pensieri Politici (prima edizione Roma, agosto 1798), Russo esamina punto per punto le condizioni dell’uomo in società: libertà, eguaglianza, sicurezza, proprietà, tributi, commercio, agricoltura. La libertà sociale, non diversamente da quella individuale, è il calcolo di ciò che è meglio per l’uomo, conformemente alla legge. La libertà è conformità alla legge, non solo esterna ma interna. Solo un popolo di cittadini morali può essere interamente libero, senza costumi non vi è libertà e per questo è necessaria l’istruzione. L’eguaglianza intesa come parità individuale in natura non esiste: l’esistenza è uguale in tutti, ma i bisogni sono diversi. L’eguaglianza è indipendenza e possibilità per tutti di accedere agli impieghi politici, in base al merito. Cause di disuguaglianza sono le successioni ereditarie e la mancanza di istruzione. La sicurezza risiede nella impossibilità di ciascun membro della società di fare un uso illegittimo delle sue forze. Ma la «maggioranza del popolo che si muove non è mai una sedizione antipopolare» (p. 291). https://www.treccani.it/enciclopedia/vincenzo-russo_(Dizionario-Biografico)/
È un fatto storico che con la grande restaurazione successiva alla Rivoluzione francese ed il fallimento dei moti rivoluzionari del 1848, tutto il costituzionalismo moderno è tornato a sacralizzare la liberà individuale dei più forti anche a scapito di quella dei più deboli e il diritto della proprietà privata. Il diritto al lavoro di cui all’art. 1 e la funzione sociale della proprietà privata di cui all’art. 42 comma 2 sono rimasti disattesi – totalmente il primo ed in gran parte la seconda.
Venendo a teorizzazioni più recenti e ragionando sul principio di capacità contributiva è chiaro che nel rispetto dei principi di equità orizzontale e verticale bisogna tassare la maggiore capacità contributiva che risulta da donazioni e quote ereditarie e, al limite, dalle manne che cadono dal cielo. Successioni e donazioni sono viste come equivalente o alternativa ad una imposta annuale sul patrimonio netto; il problema dell’imposta di successione va visto come uno strumento che risponde all’esigenza di chiudere il sistema dell’imposizione sul reddito; se si abroga l’imposta di successione bisognerebbe includere l’eredità nella base imponibile ai fini Irpef, ma questo comporterebbe inasprimenti forti delle aliquote dell’imposta personale; va vista come uno strumento per incoraggiare i trasferimenti vita naturale durante e questo comporta però che pur dovendo integrare e coordinare l’imposta sulle successioni con quella sulle donazioni le aliquote di quest’ultima dovrebbero essere più basse. Secondo molti economisti non è vero che l’imposta di successione non disincentivi il risparmio; la gente comune risparmia anche perché vuole lasciare ai propri eredi un certo patrimonio. Vedi al riguardo Pedone (1971: 139) il quale afferma che “si può ritenere, in linea di principio, che una delle forme di prelievo tributario che possono contribuire maggiormente a ridurre la diseguaglianza senza danneggiare molto l’”efficienza del sistema” (cioè senza ridurre gli incentivi a produrre e ad accumulare) sia l’imposta sulle successioni”. Su questo punto e sugli effetti delle imposte di successione sul processo di accumulazione e concentrazione della ricchezza vedi Russo 2002.
In conclusione di queste brevi e sommarie spigolatore storiche su questioni che vengono dibattute da circa tre mila anni mettono in risalto la povertà e lo squallore culturale di certi politici italiani che ignorano queste tematiche, mentono spudoratamente ed ingannano i propri elettori.
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Pedone Antonio (1971), “Limiti dell’azione redistributiva affidata a correttivi di natura tributaria”, nel volume a cura di i Bruno De Finetti “Requisiti per un sistema economico accettabile in relazione alle esigenze della collettività”, Atti del Convegno Cime di economia matematica, Urbino 20-25 settembre 1971, Franco Angeli Editore Milano, 1973, p. 133-148;
V. Russo, “De Profundis per l’imposta di successione”, in Rivista dei Tributi Locali, n.1/2002, pp. 33-51.
Enzorus2020@gmail.com

Come salvare la democrazia politica con quella economica

Laura Pennacchi, Democrazia economica. Dalla pandemia a un nuovo umanesimo, Castelvecchi, febbraio 2021.

Nei primi due capitoli Laura Pennacchi – d’ora in poi LP – passa in rassegna la letteratura sulla democrazia in generale. 

Nel primo, en passant, cita Blair che tra le altre malefatte riteneva la governance addirittura superiore al governo democratico per non parlare della terza via che si è poi rivelata meno di una minestra riscaldata.  Imputa questo atteggiamento al neoliberismo imperante in Inghilterra durante e dopo la Thatcher e poi in Europa. Naturalmente concorda con gli altri economisti che vedono la bassa crescita europea come il risultato di uno scarso flusso di investimenti. Osserva che il rallentamento della crescita contribuisce all’aumento delle diseguaglianze e questo indebolisce la democrazia in quanto riduce la coesione sociale e l’accettazione del sistema. 

Osserva che da questo punto di vista l’allenamento monetario va a finanziare gli investimenti in attività finanziarie, nei fondi, nelle operazioni di buyback, nelle operazioni di fusione e acquisizioni messe in atto da manager predoni. La finanziarizzazione dell’economia accentua l’instabilità del sistema come messo in evidenza da Keynes, Minsky,  Stiglitz, Krugman e tanti altri economisti. Il cattivo funzionamento del sistema capitalistico porta alla stagnazione secolare con bassi investimenti, alta disoccupazione, bassa produttività, crescenti diseguaglianze. Ma non basta, l’assolutizzazione dell’homo oeconomicus operata dal neoliberismo – l’individuo miglior giudice di sé stesso, l’individuo razionale quello che massimizza il proprio interesse hic et nunc ubique et semper porta alla scissione tra etica ed economia, tra il singolo e le altre persone. Il neoliberismo assurto a stato di natura – secondo i suoi fautori.

L’accelerazione della globalizzazione e l’ulteriore apertura dei mercati intervenuta nella metà degli anni 90 accentuano enormemente il ruolo dei mercati stessi e la creazione delle catene globali del valore. LP cita il trilemma della globalizzazione di Dani Rodrik: l’impossibilità   della coesistenza tra iperglobalizzazione (alias globalizzazione non governata), lo stato nazionale e la democrazia. Ma i neoliberisti al governo in Europa, in America e in altri paesi riescono a consolidare l’idea che there is no alternative (TINA): le cose stanno andando come devono andare. I mercati competitivi sono in grado di risolvere quasi tutti i problemi economici e il ruolo dello Stato deve essere ridotto al minimo perché portatore di inefficienze e distorsioni rispetto alle preferenze dei cittadini-consumatori secondo le leggi di natura. 

Nel cap. 2 “Patologie della modernità e capitalismo come forma di vita” LP allarga il discorso. Prende le distanze da filosofie come il decostruzionismo di Derrida e dal pensiero di Foucault per recuperare un discorso neoumanistico e, in particolare, il discorso sull’alienazione di Rousseau, Marx, Fromm, Marcuse. Scompare il soggetto sul quale LP ha curato un altro importante libro. Scompare il futuro. Attraverso la pubblicità la gente comune è indotta a massimizzare i consumi presenti e tra i politici prevalgono quelli della veduta corta. 

Quindi passa ad esaminare il trittico della rivoluzione francese di cui Axel Honneth – il successore di Habermas alla direzione Scuola di critica sociale di Francoforte – ha dichiarato il fallimento. LP riprende Nancy Fraser e Rahel Jaeggi “le quali sostengono che nessuna pratica economica è neutrale e, pertanto, scissa dalla normatività, e che il capitalismo non va visto come semplice sistema economico ma come ordine sociale istituzionalizzato”.  Riprende le tesi della Jaeggi, quarta generazione della Scuola di Francoforte, sulle “Forme di vita e capitalismo” e le contraddizioni interne a quest’ultimo caratterizzato da qualcosa di intrinsecamente sbagliato nei limiti in cui produce una scissione netta tra etica ed economia che non trova precedenti nella storia.

Sulla libertà cita Hannah Arendt: “libertà è primariamente libertà di dialogare con gli altri “, è interazione soggettiva, richiede di stare con gli altri. Mi permetto di dissentire sull’avverbio primariamente. Va da sé che senza libertà non c’è democrazia ma, secondo me, specialmente guardando all’universo intero, al primo posto va messa la libertà dal bisogno. Se debbo pensare a alimentare me e la famiglia, a avere una casa, a vestirmi, ad avere un mezzo di trasporto per andare a lavorare lontano da casa allora non ho molto tempo per stare con gli altri e per occuparmi di politica.

Scrive Calamandrei che “La funzione dei diritti sociali è essenzialmente quella di garantire ad ognuno, a integrazione delle libertà politiche, quel minimo di “giustizia sociale”, ossia, di benessere economico, che appare indispensabile a liberare i non abbienti dalla schiavitù del bisogno e a metterli in condizioni di potersi valere anche di fatto di quelle libertà che di diritto sono proclamate come uguali per tutti”.  Ovviamente Laura Pennacchi recupera questi bisogni “all’interno di un equilibrio tra bisogni individuali e collettività, motivazioni auto-interessate e motivazioni sociali, autoconsiderazione e cura degli altri, sfera privata e sfera pubblica, l’esplorazione del quale è alla base della spinta morale” (p. 48). 

A p. 65 e segg. LP spiega le condizioni che fanno fiorire e deperire la democrazia: “se la democrazia, regime politico primariamente caratterizzato da governi aperti a tutti, non esalta l’insopprimibile valore degli esseri umani come soggetti capaci di discorso ragionato, argomentazione, dialogo, intercomunicatività, deperisce e muore”. 

Ma tornando specificamente ai diritti sociali il problema non è solo quello di elencarli come fanno alcuni giuristi italiani ma quello di indurre l’operatore pubblico a trovare le risorse pubbliche per soddisfarli – come sostiene Calamandre. In altre parole, il problema della libertà individuale e il problema della giustizia sociale sono un problema solo, perché se non c’è libertà dal bisogno non ci può essere esercizio effettivo delle libertà politiche.

Nel Cap. 3 entra nel vivo del discorso sulla democrazia economica come istituzione indispensabile per un nuovo modello di sviluppo a fondamento neoumanistico. Questo è fondato sul lavoro, i bisogni sociali, lo sviluppo della domanda interna. 

Sottolinea i limiti della proposta di Rawls sulla property owning democracy (76/77) dove già serpeggia l’idea di un modello autogestionario e/o stato cooperativo, alias, di un modello che vede i lavoratori nella scelta di cosa, come e per chi produrla. LP insiste a ragione sulla buona e piena occupazione. Anche Rawls e Freeman accennano a vite autodirette e se questo è vero siamo dentro il modello autogestionario dove i lavoratori sono ad un tempo proprietari e dipendenti; si alternano nei ruoli direttivi ed esecutivi. Il problema è che questo modello può funzionare meglio nelle PMI gestite da cooperative o da società di persone. Nelle grandi e specialmente nelle c.d. public company che sono sempre meno public e sempre più sotto il controllo dei manager predoni (l’aggettivo e mio), è probabilmente necessario percorrere vie intermedie che prevedono la rappresentanza come nella cogestione alla tedesca e si possono determinare anche problemi di rappresentatività. Si possono prevedere distribuzioni di azioni ai dipendenti e partecipazione di stakeholders.

La risposta generale mi sembra che stia nella democratizzazione della gestione delle imprese- come sostiene LP – e nel passaggio dai manager predoni a quelli statisti portatori di un’etica pubblica condivisa e di una conseguente teoria e pratica di giustizia sociale. E per le imprese è innanzitutto questione di controlli interni ed esterni, in sintesi, di controllo sociale.

LP vede nelle nuove tecnologie (innovazione) grosse istanze cooperative e la cosa non deve sorprendere se si pensa che senza cooperazione non si producono beni pubblici di sorta.

Per costruire il nuovo modello di sviluppo – afferma LP – “non bisogna lasciare le problematiche democratiche al di qua dei cancelli delle fabbriche “e, aggiungerei io, degli uffici pubblici e privati, delle start up, degli enti di ricerca, di innovazione e di formazione.

Se il lavoro deve diventare il primo obiettivo del nuovo modello di sviluppo allora bisogna affermare coerentemente che il diritto al lavoro viene prima del diritto di proprietà. Una considerazione che voglio fare al riguardo è che non basta scrivere nella costituzione che la Repubblica è fondata sul lavoro. Cito di nuovo Calamandrei che ha affermato che la Costituzione è un pezzo di carta che giace inerte per terra o dentro un cassetto se non trova le gambe per camminare. Più recentemente Wladimiro Zagrebelsky ha scritto un saggio sulla “solitudine” dell’art. 1 Cost che afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro e che meriterebbe maggiore attenzione. Ecco le gambe per camminare sono innanzitutto quelle dei lavoratori, degli imprenditori e dei loro sindacati che – possibilmente insieme – dovrebbero esercitare pressioni sui vari livelli di governo per adottare misure e investimenti mirati a perseguire la piena e buona occupazione e, quindi, uscire da posizioni difensive dell’esistente che, nella migliore delle ipotesi, salvaguardano alcuni posti di lavoro qui e li ma che non ci fanno uscire da una situazione di alta disoccupazione. Non solo, ma se come hanno sostenuto anche esponenti illuminati di Confindustria, se l’impresa è “una comunità di interessi e di destino”, allora si tratta di premere anche sulle organizzazioni datoriali per verificare la possibilità di fare passi avanti verso la democrazia economica – vedi in particolare Carlo Callieri. Viene da sé che per fare tutto questo, per fare avanzare la conversione ecologica, la digitalizzazione dell’economia e della società, per rimediare agli squilibri territoriali, per perseguire la buona e piena occupazione, in sintesi per promuovere lo sviluppo sostenuto e sostenibile, per passare ad un nuovo modello di sviluppo, bisogna avere piani a medio e lungo termine, bisogna riesumare la programmazione strategica e il metodo PPBS (planning, programming, budgeting system).  Governi ai vari livelli e parti sociali devono muoversi in sintonia e promuovere le migliori sinergie. È illusorio e ingannevole pensare che problemi di tanta rilevanza e complessità possano essere affrontati e risolti creando alcune cabine di regia o coll’assunzione di alcune centinaia di esperti esterni – supposto che ci siano. 

Il discorso sui sindacati merita un ulteriore piccolo approfondimento. Se lasciamo da parte l’esperienza dei consigli immediatamente dopo la II guerra mondiale e prendiamo in considerazione i comportamenti degli ultimi 70 anni e dividiamo questo lasso di tempo in due sottoperiodi, vediamo che nel primo periodo all’ingrosso è l’approccio conflittuale almeno nella percezione diffusa.  Con il referendum sulla scala mobile 1985 e con il protocollo Ciampi-Giugni del luglio 1993 – rimasto inattuato nella parte più significativa – i comportamenti sembrano essere cambiati anche se gli esiti non sono soddisfacenti anche a causa delle divisioni all’interno dei sindacati dei lavoratori e tra di essi.  Ma non c’è stato alcun passaggio netto ad un approccio cooperativo. Tenendo conto che l’auspicato nuovo modello di sviluppo chiama direttamente in causa non solo le organizzazioni datoriali ma anche le stesse forze politiche tra le quali prevale un becero approccio conflittuale, credo che introdurre in Italia strumenti sostanziali di democrazia economica sarà molto difficile se non impossibile. Per costruire la democrazia economica serve un forte spirito cooperativo che purtroppo in Italia manca.

Naturalmente queste difficoltà attuative nulla tolgono alla qualità dell’analisi e delle proposte che LP ha elaborato. Dobbiamo tutti augurarci che il suo libro ben scritto e accattivante diventi innanzitutto oggetto di dibattito pubblico e che coinvolga nella discussione non solo le parti sociali ma anche le forze politiche se vogliono avere una visione del futuro e rafforzare, attraverso la democrazia economica, la traballante democrazia politica.        

Alcune indicazioni bibliografiche:

Laura Pennacchi, De Valoribus Disputandum Est. Sui valori dopo il neoliberismo, Mimesis Edizioni, 2018, mio post 31marzo2019;

Laura Pennacchi (a cura di), Il soggetto dell’economia. Dalla crisi a un nuovo modello di sviluppo, Ediesse, 2015;

Riforma del capitalismo e democrazia economica. Per un nuovo modello di sviluppo, a cura di Laura Pennacchi e Riccardo Sanna con il coordinamento dell’Area delle politiche di sviluppo della CGIL, Ediesse, Roma, 2015;

Zagrebelsky G. (2013), Fondata sul lavoro. La solitudine dell’art. 1, Einaudi, Torino; in S-5; recensione sul blog130624;

Paolo Bagnoli, Piero Calamandrei. L’uomo del ponte, fuori/onda, novembre 2012;

https://fondazionenenni.it/wp-content/uploads/2015/12/15-Callieri-1.pdf

L’imbroglio degli indici sintetici di affidabilità fiscale.

Mentre si discute di una improbabile riforma fiscale di ampio respiro, pochi addetti ai lavori sanno che in realtà, da circa due anni a questa parte, è in corso un radicale cambio di paradigma culturale circa le modalità di attuare il vecchio sistema tributario e, probabilmente, quello che uscirà dalla riforma fiscale di cui al programma del Governo Draghi.

Questa nota prende lo spunto dalla pubblicazione di un comunicato stampa del MEF in data 14-07- 2021 sulle dichiarazioni fiscali dell’anno di imposta 2019 – il secondo anno di vigenza degli ISA entrati in vigore l’anno prima. L’acronimo ISA sta per indici sintetici di affidabilità fiscale che hanno sostituito gli studi di settore che, a loro volta, hanno sostituito gli indici presuntivi di reddito per diversi settori produttivi. Siamo nel campo degli ausili all’attività di accertamento dei redditi e del fatturato da parte dei verificatori della Guardia di Finanza- come noto corpo militare – e dei verificatori civili ora dipendenti dell’Agenzia delle entrate – d’ora in poi ADE. L’elaborazione di detti ausili era mirata ad aiutare nel loro lavoro i verificatori militari e civili non potendo questi avere competenze specifiche nei più disparati settori produttivi, della distribuzione all’ingrosso e al consumo.

Alla fine essi furono introdotti con decreto legge 30 agosto 1993 n. 331, convertito con modificazioni dalla legge 29 ottobre 1993 n. 427; l’effettivo utilizzo degli studi di settore avveniva gradualmente via via che si elaboravano gli studi e che essi venivano “coonestati” da una commissione in cui erano presenti membri esperti delle categorie interessate.  Prassi non usuale nei Paesi anglo-sassoni. Vedi il caso USA dove la c.d. funzione discriminante che utilizza l’Internal Revenue Service (IRS) è mantenuta segreta. Gli studi di settore richiesero un decennio di studi, di raccolta di dati ed elaborazioni da ultimo da parte della SOSE un’apposita società di studi partecipata dal MEF (88%) e dalla Banca d’Italia (12%) costituita in base all’art. 10 della legge n. 146/1998 che si avvale di 64 statistici, 33 economisti, 27 informatici e 38 unità di staff.

Ma in Italia l’introduzione degli SDS ha incontrato subito una forte ostilità  non solo da parte dei contribuenti ma soprattutto dalla giurisprudenza di merito delle Commissioni tributarie e  di quella di legittimità della Suprema Corte di Cassazione che, incapace di entrare nel merito  della complessa metodologia dei cluster gruppi di operatori omogenei in diverse parti del territori urbani e non e all’interno dei primi a sua volta suddivisi in aree centrali, periferiche, semiperiferiche e delle regressioni statistiche che calcolavano gli indici, si limitavano ad affermare che non si potevano fare accertamenti dei redditi e dei ricavi per medie.

Tale opposizione portò il ministro V. Visco di ritorno al MEF nel governo Prodi-2 a promuovere una revisione della metodologia all’interno della legge finanziaria 2007 (art. 1 comma 17) che riduceva le modalità di utilizzazione degli SDS in sede di accertamento, il livello delle sanzioni applicabili e introduceva incentivi in caso di adeguamento di ricavi o compensi pari o superiori ai livelli di congruità definiti con gli SDS.        

Per effetto di tale novella, in sede di rettifica del reddito d’impresa o dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione, è precluso l’utilizzo di presunzioni semplici[5] – anche se gravi, precise e concordanti – qualora il contribuente destinatario dell’accertamento abbia dichiarato, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello di congruità rilevante ai fini dell’applicazione degli studi di settore, anche tenendo conto degli specifici indicatori definiti a norma del citato comma 2 dell’articolo 10-bis della legge n. 146 del 1998”.

Dieci anni dopo il governo Gentiloni – Pier Carlo Padoan al MEF – viene attuato il passo più decisivo di “abbandono” degli SDS per passare agli ISA. Cambio radicale di paradigma? Si e no. Per chiarire il significato di questo passaggio ho trovato utile la lettura dell’audizione del prof. Vincenzo Atella presidente della SOSE davanti alla VI Commissione finanze del Senato in data 16-07-2019. Ha presentato numerose tabelle che dimostrerebbero l’eccezionale successo degli SDS con statistiche che coprono il periodo 1997-2018 e il sotto-periodo 2011-2017. Ironicamente, uno potrebbe dire proprio perché avevano avuto successo alla fine se n’è decretato l’abbandono o meglio il loro utilizzo come gli insulsi ISA. Come si spiega questo apparente paradosso? Secondo una mia lettura maliziosa dell’operazione, si spiega con l’ulteriore ricerca di un nuovo rapporto (di cooperative compliance) tra Fisco e contribuenti adottato e propalato dai ministri delle finanze dei governi degli ultimi 15 anni. Non più trattamento severo degli evasori più renitenti come propone un Rapporto OCSE sull’amministrazione finanziaria italiana del 2016 ma solo “spinta gentile” all’adeguamento, non più controlli approfonditi dei loro comportamenti ma aumento degli incentivi all’adesione. Debbo precisare che anche l’OCSE propone la cooperative compliance ma non esclude anzi raccomanda la severità con gli evasori incalliti – in Italia incentivati o diseducati dai ricorrenti condoni.  Con l’adozione degli ISA in qualche modo viene giustificato il calo di controlli, delle indagini bancarie e finanziarie, del mancato utilizzo delle banche dati che il governo Monti aveva incrementato. Si tenga conto che negli stessi anni per via del blocco del turnover la sola ADE ha perso 11 mila unità lavorative e non sono state rimpiazzate.

 E per altro verso, va tenuto presente che per via degli aiuti erogati a famiglie e imprese i compiti di controllo dell’AdE e della GdF sono considerevolmente aumentati.  Ragionando più freddamene, se uno prende sul serio che la metodologia di costruzione degli ISA – a detta del prof. Atella – altro non è che uno sviluppo ed affinamento della metodologia degli SDS, allora appare chiaro un importante effetto collaterale del passaggio: 1) un minor numero di controlli approfonditi; 2) maggiori incentivi all’adesione – entrambi giustificabili dalla cooperative compliance. In un modo o nell’altro anche in materia di lotta all’evasione fiscale si sta perseguendo non il rigore necessario per attuare la giustizia fiscale – grossa parte della giustizia sociale – ma l’allargamento dell’area dell’impunità. Anche in questo campo si può riscontrare lo stesso approccio seguito con la riforma della giustizia penale laddove con la improcedibilità automatica all’interno del processo si riducono i tempi della prescrizione. Da decenni ormai il MIFIN non pubblica gli elenchi degli evasori. Con gli ISA e i maggiori incentivi avremo statistiche che evidenzieranno numeri crescenti di contribuenti fiscalmente affidabili mentre pensionati e lavoratori dipendenti soggetti a ritenuta alla fonte rimarranno tartassati come purtroppo prevedono certe simulazioni (anche di fonte ministeriale) di alcune proposte di riforma fiscale.

Note bibliografiche.  

https://www.mef.gov.it/ufficio-stampa/comunicati/2021/Analisi-e-statistiche-sulle-dichiarazioni-fiscali-2020-Indici-Sintetici-di-Affidabilita-fiscale-Irpef-titolari-di-partita-Iva-e-per-reddito-prevalente/

https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/016/301/Audizione_SOSE.pdf audizione del prof. V. Atella presidente SOSE VI Comm Senato 16-07-2019.

OECD (2016), Italy’s Tax Administration, Paris

https://www.finanze.gov.it/export/sites/finanze/it/.content/Documenti/Varie/Rapporto_OCSE_Eng.pdf

Debolezza della informatica delle pubbliche amministrazioni.

L’informatica delle pubbliche amministrazioni italiane come, da ultimo ha detto il ministro Colao, non solo è nel caos ma è anche un colabrodo rispetto a probabili attacchi esterni da parte degli hacker.  Vedi da ultimo il caso del sistema informativo della sanità della Regione Lazio. Più in generale, vedi il caso del collegamento degli Uffici anagrafe dei 8.103 comuni italiani in atto solo per alcune centinaia di essi – secondo quanto risulta da alcune indagini giornalistiche.

Provenendo io dal settore pubblico prima lo stipendio e poi la pensione erano gestiti dall’INPDAP. Da quando l’INPS ha incorporato il primo ente non ricevo alcun riscontro cartaceo della mia pensione. Mensilmente posso verificare solo la somma netta versata dall’INPS e posso farlo perché uso con frequenza la banca on line. Nella Primavera volendo ritirare la delega a riscotere la pensione ad una banca per darla ad un’altra prima mi dicono che bisognava scaricare dal sito web dell’INPS un apposito modello con cui fare la richiesta. Non c’è stato verso di farlo perché nel frattempo quel modello mi hanno spiegato successivamente era stato abrogato.    Bisognava però scaricare un codice identificativo della pensione mai ricevuto dall’INPS e che bisogna darlo alla nuova banca scelta che può avanzare direttamente la richiesta. Inutili i miei diversi tentativi di ottenere suddetto codice on line.

Nella frustrazione che ti prende in questi casi, mi sono ricordato di avere un amico importante dentro l’INPS e superando la mia ritrosia a sfruttare le amicizie personali per ottenere qualcosa che dovresti ottenere da solo, mi sono rivolto a lui. Ha ammesso che la situazione del sito web è molto problematica e che mi avrebbe fatto fare l’operazione d’ufficio. In secondo luogo, mi ha spiegato che il motivo per cui l’INPS non manda agli interessati alcuna documentazione è il risparmio di carta ma che, in teoria, si può entrare nel sito e trovarlo da soli. Ho provato a farlo ma non ci sono riuscito. Devo dire che le schermate che illustrano quello che puoi fare nel sito non sono né chiare né semplici. E’ un problema frequente degli informatici italiani mi ha spiegato un esperto. Anche quando i nostri riescono a mettere in piedi una buona procedura non di rado non la sanno spiegare bene ad un utente comune che non ha studiato informatica. Se aggiungi poi che il sito web è spesso congestionato succede che la procedura poco chiara che stai seguendo si blocca e devi ricominciare tutto da capo.  La prova provata è che la procedura di ufficio di cui ho potuto avvantaggiarmi grazie all’amico VIP per diventare operativa ha richiesto oltre due mesi di tempo.

Mi è stato spiegato che i dirigenti dell’INPS e suppongo anche il Presidente sono al corrente del malfunzionamento del sito e sono in corso lavori per renderlo più efficiente. Per ora resta il fatto che un pensionato non digitale non può sapere come è stata calcolata la sua pensione, quanta Irpef, quante addizionali regionali, locali e ambientali sono state trattenute alla fonte in modo non trasparente.  

 ANPR – Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente|Agenzia per l’Italia digitale (agid.gov.it)   

@enzorus2020

Storie di ordinaria follia burocratica anche nel privato: il caso Aruba

Il ritornello neoliberista è che il pubblico è inefficiente mentre il privato è efficiente. Da anni pago un modesto canone ad Aruba per avere una casella PEC che utilizzo poche volte all’anno. Da ultimo ho avuto bisogno di scrivere una lettera certificata. Provo ad accedere alla mia casella e il sistema mi consiglia di modificare la PSW perché usurata, non del tutto sicura. Procedo al cambiamento, il sistema mi da l’OK ma quando provo ad accedere alla casella per scrivere la mia lettera il sistema mi risponde: identità e password errate. Il sistema mi invita a ritornare sulla procedura di cambio della PSW. Lo faccio ripetutamente anche in giorni diversi ma l’esito è sempre negativo: accesso negato perché identità e password sono errate. Il sistema mi consente di colloquiare in chat con un robot che si limita a rinviarti alla procedura di cambio della PSW. Analogo risultato se scrivi allo Staff Aruba ti inviano la stringa per seguire la stessa procedura. Il sito web di Aruba prevede in maniera mendace la possibilità di parlare con un operatore.  Ci provo diverse volte ma non riesco a parlare con alcuna persona fisica. Ti risponde una voce registrata che ti rinvia sempre alla procedura di cambio della password. Avanzo una ipotesi che mi è capitata in altri siti italiani: il continuo cambio della password dal sistema (nel caso il “cretino veloce” ) come un tentativo di entrare illegalmente nella casella e molti server fanno scattare una procedura di blocco dell’accesso. Non è possibile verificare tale ipotesi con Aruba perché nessuno ti risponde. In compenso Aruba mi invia il resoconto giornaliero del mio utilizzo della casella bloccata.  Questa è la efficienza di certe strutture private di cui fornirò altri esempi ancora più gravi. Credo che se Aruba continuerà solo con la comunicazione automatica con i suoi clienti prima o poi ne perderà una buona parte.

Rivitalizzare l’Unione europea e l’Italia

Luigi Paganetto, Rivitalizzare un’Europa (e un’Italia) anemica, Eurilink University Press, novembre 2020. Seguendo l’impostazione dell’Autore elenchiamo alcuni problemi globali: 1) competizione con la Cina ormai definita come la “fabbrica del Mondo”; 2) debolezza dell’UE su crescita economica, demografia, produttività e ruolo marginale nello scacchiere mondiale; 3) rischi di guerre commerciali; 4) rischi di guerre commerciali e focolai di terrorismo, insurrezioni e guerre vere e proprie in alcuni continenti; 5) diseguaglianze crescenti    all’interno dei paesi ricchi e di quelli in via di sviluppo; 6) ambiente e climate change; 7) governance  politica ed economica mondiale del tutto inadeguata ad affrontare i vari problemi, ecc.

 In qualche modo e per alcuni aspetti, detti problemi si ritrovano nella UE: ambiente, bassa produttività e bassa crescita, conversione verde, clima, demografia, digitalizzazione, disuguaglianze, innovazione, squilibri territoriali, necessità di riformare il welfare, ecc. Ovviamente l’UE si ritrova anche in una fase di incertezza da almeno 20 anni perché non si decide se restare ancora in mezzo al guado oppure andare avanti ed approfondire il processo di integrazione spingendo la governance verso un vero e proprio assetto federale. La Pandemia sta mettendo in evidenza i limiti dell’attuale assetto e giustamente Paganetto evidenzia che oltre il virus l’altro nemico da battere è l’incertezza.  

Citando il Rapporto della Commissione europea Ageing Report (2018) Paganetto (18) mette in evidenza i dati impressionanti del declino demografico dell’UE e dell’Italia: riduzione della fertilità, aumento degli anziani e, quindi, aumento della spesa previdenziale – spesa per le pensioni in Italia al 15,6% del PIL rispetto all’11,3% media UE –  e di quella sanitaria ridotta negli anni antecedenti la Pandemia e ora in forte aumento senza fare ricorso alla facility stabilita all’interno del Fondo Salva Stati (ESM). E tutto questo mentre aumenta il tasso di dipendenza, ossia, il numero degli anziani inattivi oltre 65 anni e gli occupati nella fascia di età tra i 15-64 anni.

Fin qui si è privilegiata la spesa pensionistica a scapito di quella per la istruzione e la sanità ma ora quest’ultima deve aumentare non poco e questo pone un problema serio per la spesa da destinare all’istruzione e alla formazione permanente in un paese che ha una disoccupazione giovanile pari al 29,6% a livello nazionale e al 36% nel Mezzogiorno. L’evidenza statistica a livello globale dimostra che i Paesi con popolazione più giovane riescono ad aumentare la produttività totale dei fattori più velocemente di quelli con popolazione vecchia. È quello che capita all’Italia che si colloca all’ultimo posto tra i paesi europei per aumento della produttività negli ultimi 15 anni (19).   

Il cap. 2 ripercorre le problematiche che si sono determinate nei primi 20 anni dell’euro con osservazioni e commenti sempre statistical evidence based. L’era dell’euro si inserisce nel più ampio periodo di 35-40 anni del neoliberismo imperante a Bruxelles dove prevale molta ideologia, sfiducia reciproca tra i Paesi membri (d’ora in poi PM) e da qui il ricorso a regole fiscali automatiche ed eccesso di fiducia nell’efficienza del mercato unico nonostante che Tommaso Padoa Schioppa, Ivo Maes e lo stesso  Robert Mundell, teorico dell’ottima area valutaria, ci avessero avvertito che l’eurozona non era e non è tuttora un’area ottimale e che mercato unico, moneta unica e piena libertà dei movimenti di capitale non potevano funzionare senza robusti meccanismi allocativi e di stabilizzazione rispetto a shock simmetrici e asimmetrici e, a maggior ragione, se si vuole promuovere sul serio la convergenza  delle regioni periferiche dell’Est e del Sud con quelle del Centro-Nord.  Non solo ma dopo Maastricht si abbandona la politica di armonizzazione fiscale e si dà il via libera alla concorrenza fiscale con l’obiettivo dichiarato di contenere il continuo aumento della spesa per il welfare – a giudizio dei neoliberisti non sostenibile.

Quanto alle politiche industriali abbiamo visto che i timidi tentativi di rilanciarle da parte della Commissione europea degli ultimi 30 anni sono caduti tutti nel vuoto. Ma la politica della concorrenza, con connessa rigida disciplina degli aiuti di Stato, assegnava alle imprese più forti responsabilità   di definire e gestire le appropriate politiche industriali che, in particolare, non erano alla portata delle piccole e medie imprese come quelle italiane. Paganetto (81) accenna ad un trade-off tra concorrenza e politica industriale che, in realtà, non è un bilanciamento ma dà una priorità alla concorrenza.   Un’ autorevole conferma politica di questa mancato bilanciamento viene da un recente Rapporto dell’Assemblea nazionale francese che conferma l’assenza di una politica industriale erroneamente sostituita con la politica della concorrenza: “uno squilibrio normativo codificato nei Trattati”. E sappiamo che quando imprese forti e quelle deboli concorrono su un mercato di dimensioni continentali con diversi squilibri territoriali, deficit infrastrutturali, distanze dai mercati centrali, disuguaglianze di produttività, di investimenti pubblici e privati è chiaro che sono le prime che vincono la gara. Non senza trascurare i livelli di istruzione terziaria e nella spesa per la formazione permanente. Rispetto ad una media UE del 40% l’Italia registra un 27,8% davanti alla Romania con il 24,6%.   

Le crisi economiche e finanziarie richiedevano un maggiore ruolo espansivo dell’operatore pubblico che non c’è stato perché non solo si sono ridotti gli investimenti pubblici ma le politiche di austerità che, nei paesi ad alto debito hanno tagliato la domanda aggregata, hanno impedito a molte imprese di avvalersi dei bassi tassi di interesse che pure l’euro aveva prodotto, per fare nuovi investimenti in nuova capacità produttiva essendo che non utilizzavano a pieno quella esistente.  Si spiega così anche la mancata convergenza tra le regioni centrali e quelle periferiche.

Con il suo bel libro ricco di grafici colorati e tabelle, Paganetto dà un quadro complessivo dei problemi, delle possibili soluzioni e degli strumenti – attualmente del tutto inadeguati – per perseguire i complessi obiettivi di sviluppo sostenibile, di conversione verde, di digitalizzazione dell’economia e della società, di maggiore benessere non solo per i cittadini europei ma anche per quelli del resto del mondo consapevole che la globalizzazione c’è e resterà a lungo specialmente se si riuscirà a governarla meglio di quanto si è fatto finora.    

C’è un grosso problema di dimensione del bilancio e di governo dell’economia a livello europeo. Non si può avere sovranità assoluta o autonomia strategica a livello UE e dei suoi PM. Si può condividere la sovranità sapendo che il ruolo dell’UE non può essere solo di supporto (per lo più morale), integrazione e coordinamento. Il supporto e il coordinamento non funzionano più. Il primo perché il supporto presuppone che i governi siano veramente sovrani in materia di politica economica e finanziaria e ciò non è più vero da quando con la moneta unica e il Patto di stabilità e crescita – reso progressivamente sempre più rigido – si è rovesciato il ruolo della politica monetaria rispetto a quello della politica fiscale. Prima in uno Stato unitario aveva l’iniziativa la politica fiscale e la politica monetaria doveva essere accomodante. Oggi nell’assetto incongruo dell’UE la fa da padrona la politica monetaria.   Le politiche fiscali dovrebbero essere coordinate con la politica monetaria ma sappiamo che il coordinamento delle politiche fiscali non funziona e abbiamo visto che, negli anni delle politiche dell’austerità, nei paesi mediterranei gli effetti espansivi della politica monetaria venivano neutralizzati dagli effetti restrittivi delle politiche fiscali imposte dalla Troika – BCE, Commissione UE e FMI – ai paesi che dovevano consolidare i conti pubblici e difendere la sostenibilità del loro debito pubblico magari sotto attacco dalla speculazione internazionale. Per altro verso, paesi come la Germania con i conti pubblici in ordine ma con grossi surplus commerciali nella bilancia dei pagamenti non li correggevano violando anche essi le regole del PSC.   Da qui le Proposte prima dei quattro e poi dei cinque Presidenti (PE, BCE, CE, Commissione, Eurogruppo) e più recentemente del Fiscal Board di andare avanti non solo con il completamento dell’Unione economica e monetaria ma con l’Union fiscale e, soprattutto, con quella politica.

Paganetto ripercorre tutte queste tappe (stazioni della via crucis) dell’UE e del loro fallimento. Gli incontri franco-tedeschi di Meseberg, di Aquisgrana, l’idea di un bilancio separato dell’Eurozona, il lancio del Pilastro sociale. Quest’ultimo è, allo stato, un progetto utopico, un Manifesto di buone intenzioni in una UE che in alcuni PM vede sistemi avanzati di welfare e in altri poco sviluppati per via delle condizioni generali delle loro economie in transizione. Implementare il Pilastro sociale in questi PM implicherebbe massicci trasferimenti di aiuti che i PM ricchi non intendono mettere in atto.

Un bilancio separato dell’eurozona potrebbe aiutare ad attuare a livello centrale due significative funzioni del bilancio comune: quella di stabilizzazione del ciclo economico e l’altra allocativa di sostegno alla crescita economica delle regioni meno sviluppate. Il che richiede ovviamente un bilancio comune molto più consistente di quello attuale – per cominciare almeno nell’ordine del 5% del PIL. Al riguardo Paganetto (95) cita il dato dei fondi di coesione – 351,8 miliardi pari a 1/3 del bilancio UE, pari allo 0,3% del PIL UE a 28. Anche considerando il Recovery Fund l’attuale bilancio non supera il 2% del PIL che si confronta con bilanci pubblici nei paesi federali veri e propri nell’ordine del 20-25% del PIL. Consapevole della gravità di questi problemi la Commissione aveva risposto – rispondendo anche al FMI 2014 – con un piano che prende il nome del suo presidente pro-tempore Juncker. Veniva creato un Fondo europeo di investimenti strategici (122), rectius, un fondo di garanzia di 21 miliardi – di cui sei provenienti dalla BEI e 15 miliardi che la Commissione stornava da altri programmi a cui si collegava un effetto leva (pari a 15) molto elevato secondo il parere di esperti. Peraltro questo Fondo – precisa Paganetto- non aveva basi legali ben definite come quelle di un vero e proprio Trattato intergovernativo alla base del Fondo Salva Stati. Come si legge in un recente documento della Commissione, Il Piano Juncker ha mobilitato 500 miliardi nel periodo 2015-20 e ne potrebbe mobilitare altri 376 nel periodo 2021-27 se collegato con un preciso indirizzo di politica industriale (223). Non è un fallimento ma un successo limitato del tutto insufficiente per rilanciare una crescita sostenuta e sostenibile in grado di rilanciare la convergenza. 

Con questi dati e queste decisioni, non si può dire che la Commissione che non ha fatto niente ma le decisioni assunte non cambiano significativamente il quadro di insieme.  E’ chiaro che non si può parlare di vera coesione sociale a livello europeo e, per questi motivi – checché se ne dica- senza un consistente bilancio comune l’UE resta un’anatra zoppa perché tuttora non c’è un vero governo democratico dell’economia che risponda al PE e non al Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo dei PM. Si va avanti, non di rado, con accordi intergovernativi e approccio puntuale, ossia, si isola un problema, si costituisce un fondo con limitate risorse e si stabilisce un’autorità che lo amministra autonomamente o in collaborazione con la Commissione ma con regole molto restrittive come nel caso del Fondo Salva Stati.        

 Paganetto conferma l’inadeguatezza della governance economica mondiale (G-7, G-8, G-20) e di quella europea. Con riguardo a quest’ultima osserva che nonostante la moltiplicazione degli strumenti successivamente alla crisi 2008-09 (Nuovo PSC, Fiscal Compact, Six Pack, Two pack, Europlus, MES,) il governo dell’economia europea nel suo insieme resta lontano dalla sufficienza perché fondata sull’idea del pilota automatico, sulla eccessiva fiducia nel mercato e il frequente ricorso ai Trattati intergovernativi.

Ciò posto, Paganetto (149) ci ricorda ancora che i paesi emergenti sono cresciuti più velocemente dei Paesi ricchi. Cresce l’interdipendenza economica tra i diversi continenti come dimostrano le c.d. catene internazionali del valore. 2/3 del commercio mondiale passa attraverso dette catene. Aumenta anche l’integrazione finanziaria. C’è una competizione molto forte tra Cina e Stati Uniti per la leadership nel campo tecnologico. Se questo, da un lato, evita una guerra armata, dall’altro, alimenta quella commerciale per cui non si può parlare solo di guerra dei dazi. 

Rispetto a questi fenomeni l’UE non sembra giocare un ruolo di rilievo per via della bassa produttività e dei bassi investimenti che rendono difficile una sua iniziativa nella competizione globale. Si è creato una certa tripartizione nella UE -27. C’è la Germania e altri paesi che gestiscono un enorme surplus commerciale in violazione delle regole comunitarie; ci sono i Paesi dell’Est europeo che crescono in parallelo con quelli emergenti grazie anche ai sussidi dell’UE oltre che ai cospicui investimenti diretti della Germania mentre i paesi del Mediterraneo con produttività più bassa della media europea vedono crescere i divari con le regioni centrali. Da qui non solo l’opzione ma anche la necessità per l’Italia di promuovere ed attivare la strategia mediterranea.  

Nella premessa al cap. 5 (183) Paganetto ricorda di nuovo i problemi della UE: ambiente, clima, crisi demografica, welfare, cambiamento tecnologico e digitalizzazione, bassa produttività e conseguente basso tasso di crescita, ecc. e dedica l’ultimo paragrafo del libro (231-32)   a quello che dovrebbe fare l’Italia. Dovrebbe programmare lo sviluppo sostenibile, verde e digitale della propria economia. Paganetto cita il fatto che dopo aver speso i fondi del Piano Marshall l’Italia elaborò il Piano Vanoni (1955). Come noto, questo non era un vero e proprio Piano ma uno Schema, le linee guida di un progetto di sviluppo decennale dell’occupazione e del reddito che, formalmente introduceva il metodo della programmazione nel governo dell’economia. Oggi servirebbe almeno uno Schema trentennale di sviluppo in parallelo all’arco temporale di rimborso dei prestiti comuni che la Commissione emetterà per finanziare NGEU.

Il libro di Paganetto esamina molti altri problemi di quanti ne ho affrontato io sommariamente in questa recensione. Il libro costituisce un vero vademecum per esaminare i principali problemi dell’economia globale e di quella europea. Chiunque si interessa dell’UE e del suo futuro farebbe bene a leggerlo e tenerlo a portata di mano.

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l testo del Rapport d’information della Commission des affaires européennes dell’Assemblea nazionale francese – Rapport d’information sur l’avenir de la politique industrielle européenne, 25 marzo 2021 (alla pagina: http://www.astrid-online.it/static/upload/protected/assn/assnat_rapport-information_politique-industrielle-europeenne.pdf)

Arrivano al governo i primi nodi fiscali da sciogliere.

Con pervicacia degna di miglior causa l’ineffabile Matteo Salvini chiede la pace fiscale – rectius un condono – per milioni di contribuenti. La pace presuppone una guerra e/o una lotta tra due contendenti. In Italia non c’è una guerra del Fisco nei confronti dei contribuenti che non fanno il loro dovere. Se guerra c’è, è quella dei cittadini che resistono e non contribuiscono al finanziamento della spesa pubblica come prevedono gli art. 3 e 53 della Costituzione.

L’attuale Agenzia delle Entrate (di seguito Ade), negli ultimi decenni, non sta svolgendo alcuna seria lotta agli evasori e, a maggiore ragione, nell’ultimo anno di Pandemia, perché impegnata in altri compiti come la gestione dei contributi a fondo perduto e nella strategia di migliorare l’adempimento volontario dei contribuenti più riottosi.

Ad essere chiari la prospettata cancellazione automatica – se così passerà nel decreto di oggi – di 61,5 milioni di cartelle esattoriali relative a debiti d’imposta maturati tra il 2000 e il 2015 sino ad un valore di 5 mila euro comprensivo di imposte dovute, sanzioni e interessi per un valore complessivo di 70 dei 1.000 miliardi in magazzino sarebbe a mio giudizio, la presa d’atto dello sfascio del vecchio sistema della riscossione e ora anche dell’Ade che ora ha assorbito anche la riscossione attorno alla cui creazione si erano alimentate tante illusorie speranze. In ogni caso non vedo quali positivi effetti economici reali una tale misura possa avere una tale misura se non in termini psicologici.  Mi cancellano un vecchio debito che forse non avrei mai pagato, mi sento un po’ meglio: lieve riduzione della sofferenza per chi aveva difficoltà a pagarlo o inutile regalo per chi poteva pagarlo.

Non mi sfugge che, a causa della crisi economica collegata alla crisi sanitaria, ci sono soggetti di imposta che oggettivamente non sono in grado di pagare le imposte dovute ma questa condizione dovrebbe essere preventivamente accertata dall’Ade. In analogia con quanto si fa con altri cittadini che chiedono assistenza e ai quali viene richiesto di presentare l’ISEE.

Se questo è vero, allora eventuali misure di rinvio e/o cancellazione di milioni di cartelle esattoriali dovrebbero tener conto non solo della effettiva condizione patrimoniale dei soggetti che ne fanno domanda ma anche dell’indice di affidabilità fiscale dei soggetti di imposta. Certo questo comporta altro lavoro straordinario per l’Ade che si aggiunge a quello ordinario di accertamento delle imposte più recenti. Dubito che questa sia in grado di farlo con l’attuale carenza di personale e di volontà politica. Diciamola tutta: detta carenza di capacità operativa è una scelta politica e, in Italia, la gestione politicizzata dell’accertamento è ai massimi livelli.

Fare un condono in realtà comporta una doppia riduzione delle entrate del bilancio dell’operatore pubblico a tutti i livelli di governo: una parte per via del condono ed un’altra per via della riduzione dell’attività di accertamento delle nuove imposte.

Proporre di tagliare le entrate senza tagliare, preventivamente o contemporaneamente, la spesa pubblica è da irresponsabili in una fase in cui la Pandemia ci impone di spendere di più per i servizi sanitari, la scuola, l’Università, la ricerca, l’innovazione, i trasporti pubblici locali, ecc. Vedi il caso degli Stati Uniti con una economia in forte ripresa, il Presidente Biden si accinge a proporre un aumento delle imposte sui profitti delle società dal 21 al 28% e sui redditi di lavoro superiori ai 400 mila dollari con ritorno all’aliquota del 39,5%.

In Italia con una economia ancora in fase recessiva alcuni pensano addirittura di utilizzare parte dei fondi del PNRR per coprire temporaneamente la riduzione delle imposte – cosa non permessa dalle norme relative all’utilizzo di detti fondi.   Se in un modo o nell’altro si dovesse procedere in questa direzione, è chiaro che aumenterebbe ulteriormente il deficit pubblico. E senza un’adeguata riforma del Patto di stabilità e crescita (temporaneamente sospeso) ci esporremmo a probabili attacchi speculativi sul nostro grande debito pubblico. Lo ripeto: tagliare le entrate dei bilanci pubblici senza un recupero vero dell’evasione fiscale è una proposta irresponsabile, demagogica, populista. Una proposta diseducativa che nei termini proposti da Salvini (un tetto meramente quantitativo alle cartelle esattoriali emesse) non contribuisce a implementare la giustizia tributaria che resta parte essenziale della giustizia sociale. Probabilmente è solo uno dei prezzi che il governo Draghi deve pagare per avere la Lega nella sua compagine. 

Possibile rinascimento di Roma

Francesco Delzio, Liberare Roma. Come ricostruire il “Sogno” della Città Eterna, Rubbettino, 2021.

Dal 2008 al 2016 il PIL di Roma ha avuto una contrazione del 15% rispetto al 9% a livello nazionale. Secondo l’Istat che considera un periodo più lungo (15 anni) il PIL della Capitale si è ridotto del 7,4 rispetto all’anno iniziale 2002. Il calo, in prima approssimazione, è dovuto alla flessione della produzione industriale e alla bassa produttività di un settore terziario tradizionale. Delzio parla di 12 anni di coma. A me sembra chiaro che il declino di Roma si inserisce in quello dell’Italia ed in particolare del suo Meridione.

Quello che impressiona di più è il divario tra il tenore di vita delle periferie e quello dei residenti del Centro storico, i Parioli e il Salario. Il c.d. social divide è uguale alle differenze nell’indice di sviluppo umano elaborato da una Commissione ONU per misurare il divario tra i Paesi ricchi e quelli di in via di sviluppo.

Nella graduatoria elaborata dalla Cresme, su 273 grandi agglomerati urbani europei Roma si classifica al 168mo posto. Al riguardo Delzio ci ricorda che le città globali tendono ad essere isole di crescita accelerata e che l’80% del PIL mondiale si produce nelle aree urbane.

Roma viene definita città vecchia, stanca, non innovativa. Mancano sedi di partecipazione. Eppure ci sono 15 Municipi, la rinata Provincia, la Città metropolitana. Sembra totalmente fallito il processo di decentramento. L’amministrazione capitolina aspetta una digitalizzazione funzionante. La Capitale, con le sue principali aziende municipali conta 50 mila dipendenti di cui ben 7 mila assistono familiari disabili ex legge n. 104/1992 che prevede tre giorni di permesso retribuito al mese. Delzio precisa che la percentuale di Roma “non é lontanamente confrontabile con quella che si registra in altre grandi città italiane” (p.27).

A Roma esiste una “emergenza giovani” un tema – afferma Delzio – che nessuno sembra voler denunciare, figuriamoci affrontare” (p.37). Nella fascia giovanile 15-24 anni la disoccupazione si colloca al 35%. I NEET sono molto numerosi: circa 130 mila nella classe tra 18 e 35 anni che non studiano, non lavorano non fanno formazione. Nell’ultimo decennio il loro numero è aumentato del 57% che si confronta con un incremento a livello nazionale del 20,3%.

Roma registra bassa occupazione di giovani laureati. Il cliché di Roma arretrata – secondo Delzio – è in parte smentito dalla presenza di molte start up che la colloca al 2° posto dopo Milano ma ho letto altrove che la mediana di dette imprese evidenzia un solo componente. La spesa pro-capite per investimenti si ragguaglia a 167 euro che si confronta con i 1.500 di Firenze e ii 1.600 euro di Milano.

L’AMA presenta un deficit di gestione molto alto perché non riesce a riscuotere molte delle sue bollette però aumenta le tariffe della Tari del 4% scaricandole su chi paga alla stessa stregua di quanto fanno le imprese del mercato libero dell’energia con gli oneri di sistema che sono le imposte ambientali non pagate per le forniture di gas ed energia elettrica.

Il vantaggio comparato di Roma resta il turismo con la voglia di visitare la Città eterna che interessa ogni anno decine di milioni di persone ma il turismo, da solo, non basta. Vedi Attilio Celant e Giorgio Alleva i quali sostengono che, per un motivo o per un altro, l’attentato alle due Torri (2001) la crisi finanziaria ed economica (2008-09) da venti anni il turismo mondiale è in crisi. Da ultimo è intervenuta la Pandemia. Se questa non ha assestato un colpo finale, è chiaro che i prossimi anni post Covid-19 non si prospettano del tutto favorevoli.     

Nel capitoletto della II parte La chance globale: la Capitale delle Bellezza” Delzio   sintetizza: “Roma non si definisce, non si programma, non si proietta. Non costruisce futuro ma si fa raccontare solo per il suo glorioso passato” – remoto aggiungo io. Roma è l’emblema della rendita immobiliare e di posizione. A p. 43 scrive di “simpatico parassitismo dei romani”.

Riprendo dalla quarta di copertina, Roma è prigioniera: a) della cattiva politica e della pessima amministrazione; b) dello stesso ruolo di Capitale senza lo status e i finanziamenti delle altre capitali europee; c) dell’inerzia della sua classe dirigente politica, sociale e culturale; d) di un sistema di rendite unico a livello globale che stordisce e rassicura i romani, ne raffredda gli animal spirits e blocca gli ascensori sociali. Tutto vero. Quale la proposta di Delzio manager di vertice in grandi aziende? La Carica dei 100 manager. È quello che ho sempre sostenuto anche se io mi riferivo e mi riferisco soprattutto al ceto politico. Serve una squadra che crei sinergie, una squadra capace di superare la resistenza di una burocrazia auto-referenziale che – come sostiene Delzio – si rifugia nel puro “gestionismo” e senso civico smarrito (p.19). Ma come si fa a creare squadre se non si modifica la legge per l’elezione diretta del sindaco che consegna tutti i poteri in mano del primo cittadino, se questi sceglie di sua iniziativa i componenti della giunta e se il Consiglio comunale non conta niente o quasi perché anche i suoi componenti sono nominati e se dovessero votare contro il Sindaco questi ha il potere di mandarli tutti a casa. Premetto che detta legge non è appropriata per la guida di grandi città. Può andare bene per comuni di piccola e media grandezza e ne abbiamo circa 7 mila. Ricordo il caso del Sindaco Marino costretto alle dimissioni dopo che il capo del Partito democratico romano Orfini aveva portato i consiglieri comunali PD da un notaio a firmare un atto che li impegnava, se necessario, a votare contro il sindaco in carica.  Delzio non si occupa della legge elettorale e confronta Roma per lo più con Milano. Ma i contesti sono del tutto diversi. Milano si confronta bene con altre città europee. Roma uscirebbe meglio dal confronto con alcune città del Medio Oriente e del Nord Africa.  Ben venga quindi la squadra dei 100 manager ma da sola non basta serve anche la modifica della legge elettorale che di certo ha assicurato stabilità ma non governabilità. Serve l’impegno e l’iniziativa politica della società civile, degli intellettuali, dei sindacati, della cittadinanza attiva, ecc.

Visto che ho citato Marino, non mi sembra inopportuno riprendere la sua osservazione secondo cui “tra gli aspiranti sindaco di Roma serve determinazione e l’umiltà di discutere con i cittadini i progetti che si vogliono portare avanti”. Di progetti per Roma l’ex sindaco ne individua cinque: trasporti locali, trattamento dei rifiuti, cultura, sicurezza e archeologia. L’indicazione di Marino è importante anche perché su Roma non mancano studi ed analisi interessanti di varia fonte.  Ma non ho visto né il Comune né la Regione organizzare un dibattito pubblico su di essi.  

Sui trasporti Marino denuncia lo squilibrio nella distribuzione del fondo nazionale trasporti che passa attraverso le Regioni. Nel 2014 la Regione Lazio ha destinato a Roma 140 milioni mentre la Regione Lombardia ha dato a Milano il doppio. Roma ha un territorio di 1.280 kmq., Milano 703. Certo nel Lazio la struttura del potere è cambiata. Non è più il Sindaco di Roma che comanda anche alla Regione ma giustamente l’opposto. Ma detta distribuzione dei fondi appare poco giustificata non solo in rapporto alla superficie. Chiunque conosce le due città  sa che i trasporti pubblici locali funzionano meglio a Milano.    

Nel momento in cui sembra prendere quota l’attività dei “partiti” e degli schieramenti politici per trovare un candidato la lettura del libro di Francesco Delzio è obbligata. Un libro pieno di dati interessanti e con osservazioni intelligenti che può aiutare il lettore a scegliere meglio tra i prossimi candidati a Sindaco di Roma.   

Alcune indicazioni bibliografiche:

Camilli A. Relazione del Presidente di Unindustria per il quadriennio 2020-2024, 30 settembre 2020;

Attilio Celant e Giorgio Allleva, “Turismo e sviluppo”, nel volume organizzato e promosso dal Master in Economia e Management del Turismo della Facoltà di economia, Sapienza Università di Roma: L’Italia. Il declino economico e la forza del turismo, Fattori di vulnerabilità e potenziale competitivo di un settore strategico, a cura di Attilio Celant e Maria Antonella Ferri, Marchesi, 2009;

Cresme, Roma 2040: per una nuova civitas, giugno 2019;

De Masi D., Roma 2030. Il destino della Capitale nel prossimo futuro, Einaudi, 2019;

 Federmanager, Università la Sapienza, Le prospettive di Roma Capitale alla luce delle tendenze in atto, gennaio 2020;

Lelo K., Monni S., Tomassi F., Le mappe della disuguaglianza, Donzelli, 2019;

Unindustria, The European House Ambrosetti, Roma futura 2030-2050: Masterplan, luglio 2018.

Il discorso programmatico del Presidente Draghi.

Il Primo pensiero di Draghi va all’unità nazionale per combattere, con ogni mezzo, la pandemia e salvaguardare le vite dei nostri concittadini. Quindi esprime solidarietà a tutti quelli che soffrono o piangono qualche familiare a causa della pandemia.

Precisa che il Governo avvierà subito le riforme attese mentre affronta le emergenze non ci saranno i tradizionali due tempi: prima risolviamo i problemi più urgenti e poi le riforme.

Ringrazia il Presidente Mattarella per la fiducia che gli ha dimostrato affidandogli il compito di guidare il governo e il suo predecessore Conte che ha dovuto affrontare una situazione senza precedenti. Spiega perché il suo governo – secondo le indicazioni del Presidente della Repubblica – è diverso da quello precedente e non ha e non vuole avere alcuna coloritura politica particolare. Per via della emergenza sanitaria, sociale ed economica, questo è il governo del Paese. Questo è lo spirito repubblicano che lo caratterizza.

Draghi tiene a precisare che non è d’accordo con quanti sostengono che questo governo segue il fallimento della politica. Passaggio del discorso naturale, giustificato. Nel momento in cui il condominio brucia, nei momenti difficili del Paese, viene prima l’interesse comune dei cittadini tutti consapevoli della responsabilità a cui vengono chiamati. Non ti metti a discutere delle ragioni per cui era venuta meno la maggioranza di centro-sinistra e se non ce ne era un’altra pronta di centro-destra dopo che il Presidente della Repubblica aveva escluso la possibilità di andare alle elezioni anticipate – ammesso e non concesso che queste potessero dare luogo ad una maggioranza coesa in grado di continuare un dialogo costruttivo con le istituzioni europee. Il dovere della leale collaborazione, senza rinunciare alle proprie identità, è fondato sull’amore per il nostro Paese.  

Segue logicamente il passaggio sulla irreversibilità della moneta comune – una risposta dovuta a Matteo Salvini che, il giorno prima, aveva sostenuto l’opposto – dell’ancoraggio al processo di integrazione europea che deve portare ad un bilancio comune che, oltre all’indebitamento comune, abbia anche le necessarie risorse proprie. Afferma che gli Stati nazionali e/o i paesi membri dell’Unione restano riferimento importante per i cittadini ma ribadisce che il nostro Paese resta fermamente ancorato alla scelta atlantica, all’UE e all’ONU in coerenza con le scelte ormai storiche che risalgono alla fine della seconda guerra mondiale quando gli Stati Uniti non solo furono decisivi nella sconfitta delle potenze dell’Asse e, generosamente con il Piano Marshall, poi contribuirono al finanziamento della ricostruzione dell’economia europea e non solo.

Un discorso di respiro storico e di alto profilo morale. In questi ultimi termini, si è posto una domanda che, non di rado, mi pongo anche io nel mio piccolo. Si chiede se la nostra generazione ha fatto quello che i nostri genitori e nonni hanno fatto per noi – ovviamente al di là dei lutti e dei danni economici che sta producendo la pandemia. La mia personale risposta, per quello che vale, è: non abbiamo fatto abbastanza.

Draghi passa ad elencare gli obiettivi strategici da perseguire: “la produzione di energia da fonti rinnovabili, l’inquinamento dell’aria e delle acque, la rete ferroviaria veloce, le reti di distribuzione dell’energia per i veicoli a propulsione elettrica, la produzione e distribuzione di idrogeno, la digitalizzazione, la banda larga e le reti di comunicazione 5G”. Si tratta di obiettivi che implicano tempi di attuazione di medio e lungo termine.  Consapevole dei tempi diversi del suo governo, Draghi afferma che, anche per i governi brevi, conta la qualità delle decisioni che vengono assunte.

È strategica la seguente frase del suo discorso: “Selezioneremo progetti e iniziative coerenti con gli obiettivi strategici del Programma, prestando grande attenzione alla loro fattibilità nell’arco dei sei anni del programma. Assicureremo inoltre che l’impulso occupazionale del Programma sia sufficientemente elevato in ciascuno dei sei anni, compreso il 2021”.

Finalmente si comincia a parlare di progetti da selezionare e valutare da parte di tecnici in grado di determinare la bontà di essi utilizzando l’analisi costi-benefici degli investimenti, l’impatto economico e ambientale degli stessi.

Finalmente si parla di impulso occupazionale del PNRR dopo aver declinato i problemi del basso tasso di partecipazione al mercato del lavoro dei giovani e in particolare delle donne specialmente nel Mezzogiorno (18 punti rispetto alla media europea di 10).   Come sa bene Draghi nel 2014 la Commissione ha calcolato il tasso di disoccupazione strutturale per i paesi membri. Per l’Italia, le stime dalla Commissione sono molto vicine al dato della disoccupazione rilevata, con un parametro strutturale al 10,9 nell’anno considerato a fronte di un dato pre-crisi del 7,8 nel 2006. Meno drammatiche, ma sempre molto preoccupanti, le stime OCSE, che per il 2014 vedono la disoccupazione strutturale pari al 9,9 in Italia.  Per i dati relativi ad altri paesi europei vedi il Rapporto CER 2014. Stime analoghe dell’Ufficio studi della BCE la collocavano attorno all’11%.  Gli ultimi dati provvisori dell’Istat danno la disoccupazione al 9% e quella giovanile al 29,7% – cifre che sembrano destinate ad aumentare. I dati correnti quindi coincidono più o meno con quelli strutturali. Ora pensare che l’impulso occupazionale del PNRR di 210 miliardi suddiviso in sei anni e, quindi, pari a 35 miliardi all’anno, possa affrontare seriamente il problema della disoccupazione strutturale, francamente, a me sembra illusorio e ingannevole. Credo che Draghi ne sia consapevole.  

PQM, meno ancora, condivido l’ottimismo e le illusioni che molti politici stanno creando attorno all’idea che con il PNRR si possa non solo affrontare l’emergenza ma addirittura si possa avviare la rinascita dell’economia italiana e, addirittura, di quella europea. Il confronto con gli Stati Uniti mi porta a dire che, pur apprezzando la svolta storica voluta dalla Cancelliera Merkel, le risorse prese a prestito sono del tutto inadeguate per un’economia delle dimensioni europee e con divari molto più accentuati tra regioni centrali e quelle periferiche. Sommando le spese già sostenute dall’amministrazione Trump (circa 3 mila miliardi di dollari) e ora quelle programmate dal Presidente Biden (oltre 2 mila miliardi) arriviamo a 5 mila miliardi di dollari pari a 4.116 miliardi di euro. I 750 miliardi dell’Unione sono pari a poco più del 18% di quanto, in maggior parte, già speso e ora programmato dal governo americano con una aggravante che i fondi europei arrivano con grande ritardo. Devo dire che per valutare attentamente l’adeguatezza delle risorse stanziate bisognerebbe avere fatto delle stime attendibili circa i fabbisogni e gli investimenti necessari per soddisfarli – non ultimo per cominciare a ridurre i divari territoriali. Questo richiederebbe una seria attività di programmazione economica non solo a livello italiano ma anche europeo. Purtroppo al momento non abbiamo disponibili dette stime nonostante che siano spesso evocate.

Correttamente il PNRR è solo una tappa a medio termine di una strategia a più lungo periodo se si vuole ragionare sul serio sulla conversione ecologica, lo sviluppo sostenibile, la digitalizzazione dell’economia e della società, uscire dalla stagnazione in cui si trascina l’Italia ormai da più di un quarto di secolo.  Al riguardo non mi convince del tutto Draghi quando afferma che “Il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione. Compito dello Stato è utilizzare le leve della spesa per ricerca e sviluppo, dell’istruzione e della formazione, della regolamentazione, dell’incentivazione e della tassazione. In base a tale visione strategica, il Programma nazionale di Ripresa e Resilienza indicherà obiettivi per il prossimo decennio e più a lungo termine, con una tappa intermedia per l’anno finale del Next Generation EU, il 2026. Non basterà elencare progetti che si vogliono completare nei prossimi anni.  Dovremo dire dove vogliamo arrivare nel 2026 e a cosa puntiamo per il 2030 e il 2050, anno in cui l’Unione Europea intende arrivare a zero emissioni nette di CO2 e gas clima-alteranti”. Probabilmente la prima proposizione è un amo lanciato ai neoliberisti nostrani che teorizzano comunque un ruolo ridotto dello Stato ma se i problemi sono quelli elencati sopra negli obiettivi strategici, e difficile pensare che, in un paese con 5 milioni di piccole e medie imprese e con i settori dei servizi privati e pubblici per lo più inefficienti,  il ruolo dello Stato possa essere ristretto alla regolamentazione e all’incentivazione delle attività private con esclusione degli interventi diretti.

 Benissimo ma se prendiamo il discorso della scuola, della formazione permanente e del basso attività delle donne emerge un problema che non solo nei discorsi dei politici di destra viene sottaciuto. Se vogliamo assicurare alle donne parità di accesso al mercato del lavoro e parità salariale supposto che le imprese e lo Stato imprenditore riescano a creare i necessari nuovi posti lavoro, occorre pensare alla scuola primaria e secondaria a tempo pieno e coordinare gli orari di lavoro con quelli delle scuole per cui i genitori prima accompagnano i figli a scuola e poi vanno a lavoro. Quando finiscono di lavorare tornano a riprendere i figli minori dalla scuola.  Come da tempo avviene nel Paesi membri del centro e nord Europa.

L’ultima mia osservazione è di apprezzamento per il coinvolgimento delle parti sociali e delle regioni già avviato nelle consultazioni preliminari. Nella replica al Senato Draghi ha detto chiaramente che “il loro coinvolgimento è non solo importante ma essenziale. Certe cose non si fanno se non sono decise insieme alle Regioni”. Tenuto conto che gran parte dei progetti sono di loro competenza e tutti ricadranno sui loro territori è chiaro che in generale la co-decisione è d’obbligo. Si tratterà di vedere se i progetti propri delle regioni e degli enti locali saranno preliminarmente valutati sul piano tecnico-economico a livello nazionale e come la prenderebbero le Regioni e gli EELL se alcuni dei loro progetti fossero bocciati.

              @enzorus2020