Roberto Napoletano e il ritorno del Cavaliere bianco Mario Draghi
Ho trovato faticoso scrivere una recensione di un libro scritto come un diario delle cose pensate e scritte dal giorno in cui si è formato il governo Draghi. Anche per questo motivo Napoletano nel suo nuovo libro – Mario Draghi, Il ritorno del Cavaliere bianco, La nave di Teseo + giugno 2021 – torna ripetutamente su due problemi fondamentali che se non risolti al meglio potrebbero compromettere soprattutto il piano di rilancio e resilienza dell’economia italiana e la lotta alla Pandemia. I temi o problemi sono fondamentalmente due: 1) l’efficientamento della pubblica amministrazione ai vari livelli di governo; 2) la rimozione delle cause che hanno portato all’attuale stato di inefficienza della stessa PA. In effetti l’Autore indica quattro temi: 1) rinnovare la macchina politica e/o riforma della PA (84); 2) il problema del Mezzogiorno (88); 3) l’apertura dei cantieri alias “fare uscire gli investimenti da una situazione di stallo” (91); 4) la svolta europea con la Commissione che ci pungola e ci aiuta (94). Anche se l’elenco dei problemi politici ed economici dell’Italia è ben più lungo di quello appena citato, risposte meglio argomentate si possono trovare nel suo precedente libro “La Grande balla del Sud che vive alle spalle del Nord”, La nave di Teseo. Napoletano ritorna sui primi due temi che ovviamente sono collegati alla qualità della classe politica nazionale e sub-centrale specialmente a quella regionale e al federalismo irresponsabile. Entrare nel merito delle affermazioni contenute nei diversi giorni del Diario mi porterebbe molto lontano e PQM entrerò nel merito solo dei temi più ripetuti o ripresi in esso ma che, secondo me, non sono chiariti a sufficienza per lo meno per un lettore comune.
Napoletano elogia Draghi il secondo De Gasperi, l’italiano meglio conosciuto nel mondo e più stimato di tutti, l’unico capace di promuovere non solo la ricostruzione economica ma anche quella morale del Paese.
76-77 Napoletano attacca la burocrazia affermando che “manca l’olio di gomito di un team di persone che sappia fare le cose”. Correttamente inteso il concetto significa che mancano le strutture di amministrazione attiva ed ordinaria che sappiano non solo elaborare programmi ma sappiano anche attuarli. Io credo che non sempre funzionano strutture inventate di esperti esterni che possano sostituire del tutto quelle ordinarie. Il problema vero è che alcuni settori irresponsabili della politica e degli stessi governi da decenni portano avanti azioni sistematiche di delegittimazione della burocrazia come se i burocrati fossero veri e propri componenti di un’associazione a delinquere. Questa operazione a volte portata avanti da membri degli stessi governi che sono a capo delle relative strutture amministrative ha effetti molto negativi sulla compattezza e sullo spirito di servizio dei burocrati. Si è poi introdotto lo spoils system che doveva risolvere casi di incompatibilità o di mancanza di fiducia tra i segretari generali di alcuni ministeri e il ministro di turno. Si è esteso il sistema della sostituzione oltre misura sull’assunto non dimostrato che chiunque venga dalla società civile è più bravo di qualsiasi burocrate di carriera creando, non di rado, situazioni imbarazzanti tra nominati incompetenti ma con la fiducia del ministro e funzionari di carriera profondi conoscitori della macchina amministrativa che devono spiegare per filo e per segno al loro superiore come si fanno le cose in certe strutture amministrative. E non finisce qui. Ogni anno dopo l’approvazione della legge di bilancio vengono assegnati gli obiettivi a tutti i dirigenti con o senza la fiducia del ministro ma per evitare la comparazione di merito non si procede ad alcuna attenta valutazione dei meriti e del conseguimento o meno degli obiettivi assegnati mettendo in non cale il d. lgs. n. 29/1993 e tutta la legislazione successiva che non posso esaminare in questa sede.
A p. 77 Napoletano cita “la mancanza della testa politica della macchina amministrativa”. Se il governo sconsideratamente nomina a capo di certe strutture amministrative persone incompetenti e poi arrivano ministri senza alcuna esperienza amministrativa ai livelli di base e a quelli intermedi e, per di più, delegittima i funzionari di carriera è chiaro che ti ritrovi con strutture ordinarie inefficienti. Assumo che Napoletano converga con la mia tesi sulla necessità di strutture tecnocratiche stabili che sono fondamentali in generale e, ancor più, in un Paese dove la classe politica è di basso livello, i governi sono precari, dalla veduta e dalla durata corte. Si governa amministrando male e si amministra legiferando ancora peggio perché si procede con approccio puntuale e, non di rado, si assume che la legislazione precedente è tutta sbagliata e si sostituisce con una nuova che è tutta da sperimentare. In altre parole, spesso si interviene affrontando un problema alla volta: l’assenteismo e il tornello per controllarlo, la possibilità di licenziare i dirigenti, i metodi di incentivazione trascurando quasi sempre l’analisi dell’organizzazione del lavoro, la formazione continua. la migliore gestione del personale, la dotazione necessaria di mezzi materiali ed immateriali, ecc.
Non è un caso che l’Italia venga sistematicamente bocciata da strutture internazionali che si occupano dell’efficienza amministrativa. Prendo ad esempio la classifica dell’Università di Oxford che ci colloca al 27° posto sui 31 paesi avanzati presi in esame da Mirco Tonin e Francesco Trebbi. I due professori commentano il rapporto “international civil service effectiveness” (INCISE) della Scuola di pubblica amministrazione dell’Università di Oxford – analogo a quello della Banca Mondiale Doing Business; gli effetti sono: la bassa efficacia della PA pesa in termini di costi sulle aziende private in misura quintupla rispetto al Canada che risulta al primo posto nella classifica citata, vedi il Sole 24 Ore del 18-07-2017.
L’altro grosso tema che Napoletano affronta ripetutamente è quello connesso proprio alla struttura complessiva dell’amministrazione e/o delle amministrazioni pubbliche. Il Nostro attribuisce la mancata crescita (stagnazione) degli ultimi venti anni al federalismo irresponsabile conseguente alla riforma del Titolo V Cost. ma lo fa senza chiarire bene che non siamo ancora in un vero assetto federale. Cita a p. 126 lo squilibrio nella dotazione di asili nido tra la regione Emilia-Romagna e la Calabria senza ricordare che tale squilibrio era presente nei primi anni ’70 del secolo scorso quando non c’erano ancora e/o non erano operative neanche le RSO. Senza ricordare che correggere gli squilibri territoriali è compito fondamentale dello Stato. Per la cronaca, tale impegno era trattato dalla Commissione istituita dal Ministro del bilancio e della programmazione economica Antonio Giolitti che nei lavori preparatori del II piano quinquennale 1971-75 la Commissione dei conti pubblici nazionale di cui facevo parte ricevette il compito di calcolare il flusso di investimenti necessario per assicurare il tasso di crescita che potesse consentire alle regioni del Mezzogiorno di ridurre il divario con le regioni del Nord. Per procedere a tale calcolo il Presidente della Commissione prof. Parenti chiese al Presidente dell’IRI prof. Petrilli i programmi di investimento delle imprese a partecipazione statale ma tale richiesta rimase inevasa nonostante essa fosse stata reiterata dal Segretario generale della programmazione Giorgio Ruffolo. Purtroppo per via della crisi del Centro-sinistra del 1974 detto piano non fu mai varato.
Chiusa la parentesi, va chiarito che se tale divario persiste da oltre 50 anni, non è solo questione di macchina amministrativa. C’è anche questo problema ma c’è, in primo luogo, una questione di volontà politica come afferma lo stesso Napoletano quando scrive dell’assenza di testa politica della macchina. Voglio essere chiaro su questo punto: una macchina amministrativa efficiente è fondamentale. Senza di essa non funziona nessuna forma di governo: né uno stato centralizzato né uno decentralizzato come quello che vuole la UE. Il federalismo è stato posto all’ordine del giorno a fine anni 80 e primi ’90 del secolo scorso dall’allora capo della Lega Nord On. Bossi ma tutti gli altri partiti erano contrari non solo al federalismo ma anche allo stesso Stato regionale previsto dalla Costituzione del 1948. La prova sta nel fatto che ci hanno messo oltre 25 anni per attuare le RSO operative. La legge che le istituisce è la n.281 del 1970 ma i decreti attuativi vengono completati nel 1976-77. La legge istitutiva all’art. 9 prevedeva che la missione fondamentale delle RSO fosse l’elaborazione di piani regionali di sviluppo ma la venuta meno della programmazione nazionale ha portato le regioni a trascurare detta funzione e finiscono con il trasformarsi in stazioni di mediazioni politica. Ma con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale nel 1978, alle regioni vengono assegnate importanti funzioni di gestioni amministrativa. Molte di esse non sono state capaci di istituire validi servizi ispettivi per controllare la spesa sanitaria che oscilla tra il 70 e il 75% dei loro bilanci. Per brevità passo la riforma del Tit. V del 2001 approvata dal Centro-sinistra ma con ampio consenso del Centro-destra e delle Regioni. L’art. 118 novellato ha fatto qualcosa di peggio: ha trasferito la generalità delle funzioni amministrative ai Comuni, alle Province e alle Città metropolitane salvo il ricorso alla sussidiarietà verticale per “assicurarne l’esercizio unitario”. Serviranno altri 8 anni per arrivare alla legge Calderoli n.42/2009 rimasta in gran parte nei cassetti anche a causa della crisi finanziaria mondiale. È un fatto che da venti anni stiamo in mezzo al guado e non sappiamo se andare avanti verso un assetto federale o regionale compiuto con congrui meccanismi perequativi e compensativi (vedi art. 119 Cost.), con l’attuazione seria dei livelli essenziali dell’assistenza LEA, dei livelli essenziali delle prestazioni LEP e l’abbandono definitivo del criterio della spesa storica – che continua ad alimentare squilibri – oppure tornare allo Stato centralizzato che di certo in 140 anni ha dato cattiva prova di sé.
Garibaldi è stato l’eroe dei due mondi quando arrivò a Londra secondo lo storico Denis Mack Smith fu organizzata una manifestazione pubblica a cui avrebbero partecipato un milione di persone. Per Napoletano Draghi se non è l’uomo della Provvidenza poco ci manca. È l’italiano più conosciuto e stimato in Europa e nel mondo, che sa prendere le decisioni giuste al momento giusto, il secondo De Gasperi che può fare la ricostruzione non solo economica ma anche quella morale del Paese e Napoletano stesso avverte (199) “se non ci riesce Draghi, vuol dire che l’Italia è insalvabile”.
Ma vengo ai temi 3 e 4 enunciati all’inizio: innescare un flusso sostenuto di investimenti e le regole fiscali europee. È vero che con il PNRR l’UE viene incontro all’Italia con dei prestiti non trascurabili e con dei contributi a fondo perduto ma fin qui non c’è niente di concreto in materia di riforma del Patto di stabilità e crescita – attualmente sospeso – né in materia di riforma del Fiscal Compact. Né il governo Draghi ha messo a punto delle proposte al riguardo.
Per spiegare che salvare l’euro era una condizione necessaria ma non sufficiente per promuovere crescita sostenuta e sostenibile nella UE riprendo una breve analisi svolta nella recensione del volume sull’euro di Joseph Stiglitz del 2017. La premessa è che l’euro è il frutto di un approccio gradualista e funzionalista che ha funzionato ma non ha costruito gli strumenti necessari a livello centrale per promuovere la convergenza tra le regioni centrali (più sviluppate) e quelle periferiche. Al riguardo ricordo che la teoria dell’area valutaria ottimale (AVO), elaborata in maniera significativa da Robert Mundell, presuppone una area geo-economica omogenea ma questa non c’è da nessuna parte se parliamo di regioni vaste come continenti. In presenza di squilibri territoriali l’AVO prescrive un sistema efficiente ed efficace di trasferimenti compensativi delle diseconomie esterne che gli operatori economici devono affrontare nelle aree periferiche e meno sviluppate: deficit infrastrutturali, distanza dai mercati, mancanza di manodopera qualificata, lentezza della giustizia civile, presenza di organizzazioni criminali, ecc. Si può ricordare che nella UE abbiamo già schemi di trasferimenti come i fondi strutturali e la politica di coesione economica e sociale ma sono dotati di risorse insufficienti. Non abbiamo un vero e proprio governo economico e finanziario al centro. Bisognerebbe aumentarle consistentemente per adeguarle ai fabbisogni e aumentare la loro efficacia potenziale. Ma gli squilibri strutturali e i divari territoriali sono fenomeni di lungo termine da affrontare con strategie di lungo termine. Scrive Stiglitz: non sono loro che hanno causato la crisi e servono altri strumenti per affrontare gli shock asimmetrici di breve-medio termine come quelli prodotti dalla finanza rapace. Servono altri strumenti e altre risorse e quelli fin qui creati – a dieci anni dall’inizio della crisi – sono alcuni del tutto inadeguati altri ancora da completare o costruire ex novo. Servirebbero soprattutto strumenti per il governo macro-economico dell’eurozona e dell’Unione a 27. La Germania e i suoi alleati di centro-destra hanno sempre respinto questa proposta nella fase decisiva della costruzione della moneta comune. Travolti dalla crisi alcuni Paesi Membri periferici sono stati in pratica commissariati dalla Troika (composta da rappresentanti della BCE, della CE e del FMI), con un ruolo egemonico della BCE. La Commissione Europea elabora programmi specifici per ciascun paese in crisi suddivisi in due parti: una prima contenente misure macro-economiche prevalentemente mirate a tagliare la spesa pubblica e/o aumentare le tasse per consolidare i conti pubblici; la seconda contenente prescrizioni circa le riforme strutturali da attuare per rendere i PM in crisi più efficienti e competitivi.
Ora è vero che sulla carta il Trattato di Maastricht formalmente ha lasciato autonomia ai Paesi membri in materia di politica economica ma le regole per salvaguardare la stabilità monetaria, l’assenza di un bilancio comune in grado di far funzionare a dovere la funzione di allocazione e stabilizzazione macro-economica, le regole ancora più rigide introdotte con le riforme del PSC 2011 e il Fiscal Compact 2012, Six Pack, Two Pack, Europlus, MES, ecc. hanno condizionato e continuano a condizionare una vera politica meridionalista nel nostro Paese. In altre parole, per via della rigidità delle regole fiscali macro-economiche europee non funziona la convergenza tra regioni centrali e periferiche dell’Unione e l’analoga rigidità della disciplina degli aiuti di Stato a livello decentrato non consente ai paesi di spingere per la convergenza tra le aree avanzate ed arretrate al loro interno. Ciò posto non voglio sminuire la rilevanza del salvataggio dell’euro deciso nel luglio 2012 che vede protagonista Draghi ovviamente supportato da tutto il Consiglio direttivo della BCE- dopo che la Merkel aveva frenato il falco Weidmann della Banca centrale tedesca. Nonostante l’allentamento monetario ed alcune politiche monetarie non convenzionali come ad es. MRO, LTRO, FTO, SO, ecc. abbiamo avuto cinque anni di austerità perché con tassi di interesse vicini allo zero e deficit di domanda effettiva anche a livello globale la ripresa tarda ad arrivare. Draghi spesso ha evocato un miglior coordinamento delle politiche economiche ma non ho visto molte iniziative della BCE per completare l’Unione economica e monetaria e per dare un vero e proprio governo economico all’Unione.
Lungi da me la volontà di sminuire quello di buono che ha fatto Draghi in Europa salvando l’euro ma dopo, secondo me, non ha fatto – o non gli hanno consentito di fare – quello che era necessario per evitare le disastrose politiche di austerità imposte a senso unico su alcuni paesi periferici.
Circa la Troika e le sue malefatte contro la Grecia che – pur non esente da responsabilità – ha perso il 25% del suo PIL va precisato che il FMI dopo alcuni anni ha mostrato un certo ravvedimento operoso proponendo ad esempio un taglio del debito greco e ammettendo gli errori di calcolo sui moltiplicatori dei tagli alla spesa pubblica. Qualche elemento di novità è venuto anche dalla Commissione europea la quale ha mostrato un timido nuovo approccio a favore della crescita con il c.d. Piano Juncker lanciato nel 2014. Nessuna traccia di ravvedimento da parte della BCE. Infatti, secondo il Presidente Draghi del quale cito tre affermazioni importanti dal discorso alla XVIII Conferenza di Francoforte del 6-04-2017: 1) la nostra politica monetaria sta funzionando; 2) la ripresa economica fa progressi; 3) la dinamica inflattiva dipende dalla continuazione dell’attuale politica monetaria e continuerà così finché essa si stabilizzerà attorno all’obiettivo prefissato del 2%. Non mi sfugge che in altre occasioni Draghi ha evocato il coordinamento delle politiche fiscali dei PM e che i suoi inviti sono rimasti inascoltati o difficili da mettere in atto. Se poi un Bollettino della stessa BCE ci dice che la vera disoccupazione è doppia (18%) rispetto a quella ufficiale, questo è un fatto di definizione statistica che ha attirato l’interesse dei media solo per un giorno. Se poi il divario tra PM del Nord e quelli del Sud cresce, questo dipende dagli squilibri storici che bisogna accettare come tali, anzi, come naturali come naturale definiscono gli economisti della BCE il tasso di disoccupazione italiano all’11,6%. È un fatto che le politiche di austerità e le riforme strutturali proposte come ricetta unica per tutti i mali dei Paesi mediterranei finiscono con il neutralizzare la politica monetaria espansiva.
E vengo all’ultima perorazione di Napoletano per Draghi che ha la fiducia dei mercati, della Commissione europea e dei Grandi della terra ma lo stesso autore del libro deve ammettere che il suo Cavaliere bianco “non ha la bacchetta magica”, non è la fata turchina e, aggiungo io, deve svolgere la sua missione impossibile in un paese a bassa coesione sociale, dove non c’è una etica pubblica condivisa e, meno che mai, l’armonia sociale di confuciana memoria, dove prevalgono i rentier, i capitalisti finanziarizzati sui lavoratori e la classe media impoveriti dalla globalizzazione non governata, dove la sfiducia reciproca non riguarda solo i controllati e i controllori ma anche i poteri dello Stato e, paradossalmente i vari livelli di governo e le strutture amministrative che presiedono. A p. 194 Napoletano scrive che “senza fiducia e senza la mobilitazione delle coscienze la partita è persa in partenza”. PQM avverte che Draghi è l’unico che può promuovere la ricostruzione economica e morale del Paese e se lo si lascia solo fallirà anche lui. E se ciò dovesse accadere la colpa sarebbe di tutti gli italiani e in Europa e nel mondo tutti gli osservatori concluderebbero “se non riuscito Draghi, vuol dire che l’Italia è insalvabile” (199).
In conclusione, al netto delle insistite ripetizioni, di alcune sbavature agiografiche sul primo e secondo De Gasperi, sul vecchio e nuovo Cavaliere bianco, è apprezzabile l’impegno dell’Autore sulla questione meridionale e la sua centralità se l’Italia vuole avere una crescita sostenuta e sostenibile, se vuole avere un ruolo forte in Europa, nel Mondo e specialmente nel Mediterraneo. PQM il libro di Roberto Napoletano merita di essere letto e meditato con grande attenzione perché esamina molti dei nodi che bloccano l’economia, la società e la politica italiana – magari insieme a quello di Carlo Cottarelli, i sette peccati capitali dell’economica italiana, (mio post190512) e a quello di Luigi Paganetto, Rivitalizzare un’Europa (e un’Italia) anemica, Eurlink University Press, novembre 2020 (mio post210508).
Altri rinvii bibliografici.
Enzo F. Russo, La strada ostruita del federalismo in Italia, La Sapienza editrice, Roma, 2000;
Joseph E. Stiglitz, L’euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Giulio Einaudi Torino, 2017.