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E se si andasse all’esercizio provvisorio di bilancio?

Democrazia malata, democrazia in coma, dai partiti liquidi ai partiti personali e da questi alle dittature più o meno miti, il passo e breve. La democrazia a livello mondiale arretra e in Italia sembra di essere alla fine della democrazia di bilancio. Ieri spettacolo indegno in Senato non per colpa dei senatori ma del governo che calpesta le procedure di bilancio e non è riuscito a presentare il maxiemendamento su cui porre il voto di fiducia – come ha fatto un esponente della Lega che ha pestato con una scarpa un documento del Commissario Moscovici. I senatori costretti a discutere di una legge di bilancio incerta e confusa sulla base di notizie lette sui giornali. Dopo l’accordo con la Commissione europea il governo doveva mandare a Bruxelles il nuovo quadro macroeconomico che teneva conto del ridimensionamento non solo del deficit dal 2,4 al 2,04% ma anche del tasso di crescita del PIL dall’1,5% all’1%. È evidente che una riduzione del tasso di crescita inevitabilmente comporta un calo delle entrate tributarie e, quindi, meno risorse spendibili. Meno risorse, meno spese, necessità di rivedere molte coperture; lavoro in parte fatto e in parte da fare da parte degli Uffici del bilancio e soprattutto da parte della Ragioneria generale dello Stato che li deve certificare con la c.d. bollinatura. Avendo sprecato mesi di tempo in beghe chiazzotte tra i due Vice-presidenti del Consiglio e la Commissione europea e riducendosi i tempi per arrivare all’approvazione entro dicembre i capi gruppo hanno deciso di saltare l’esame del provvedimento monco da parte della Commissione bilancio cosa di per se molto grave perché è in questa sede che in teoria si possono fare degli approfondimenti tecnici sulla moltitudine di provvedimenti che compongono la legge di bilancio – sempre che la Commissione sia formata da persone con esperienza in materia. Ma non c’era il tempo e i Senatori sono stati costretti a intervenire non sul merito di singoli provvedimenti ma in termini generici di metodo soprattutto a difesa delle prerogative delle due Camere. Come si sa, il controllo attento del documento di bilancio è lo strumento fondamentale con cui storicamente i rappresentanti del popolo hanno rivendicato prima il controllo sull’operato dei sovrani assoluti e, nella più recente esperienza delle democrazie rappresentative, il governo.  È un paradosso apparente che il governo giallo-verde superfetazione di due partiti populisti e sovranisti neghi ab imis ai rappresentanti del popolo le loro prerogative fondamentali. Ma sappiamo che i due partiti che formano la maggioranza di governo non sono genuini partiti populisti ma partiti che hanno definito la loro politica economica e finanziaria per il 2019 “manovra del popolo” e che gli unici autentici interpreti della volontà popolare sono i due leader dei suddetti partiti – apprendisti stregoni o, più precisamente, aspiranti dittatori miti che non rispettano la separazione dei poteri.

L’opposizione sta facendo del suo meglio per costringere il governo a rispettare i regolamenti parlamentari che in situazioni di emergenza danno ampi poteri alla maggioranza per ridurre i tempi della discussione. E debbo precisare che le recenti riforme dei regolamenti parlamentari sono state approvate da maggioranze di centro sinistra al fine di rafforzare il ruolo del governo non solo in materia di bilancio. Nelle circostanze mi chiedo se non sia il caso di ricorrere a forme più incisive di ostruzionismo per arrivare all’esercizio provvisorio di cui all’art. 81 Cost quando il governo non riesce a fare a fare approvare la sua legge di bilancio – tralasciando la proposta che pure era stata fatta di uno Statuto dell’opposizione.  In fondo non sarebbe la fine del mondo e ci sarebbe più tempo per elaborare una manovra più seria e più mirata alla crescita e allo sviluppo sostenibile. Nella prima repubblica per circa venti anni i governi centristi e di centro-sinistra vi hanno fatto ricorso. L’esercizio provvisorio significa che fino a quando il Parlamento non approva una nuova legge di bilancio il governo potrà spendere per mese per mese un dodicesimo di quello che poteva spendere e/o ha speso l’anno precedente. Esponenti politici di rilievo di quegli anni commentavano che il ricorso all’esercizio provvisorio in fondo era l’unico modo per costringere il governo a risparmiare risorse pubbliche.

Certo il governo e la sua maggioranza sulla carta hanno i numeri e i tempi per forzare l’approvazione della loro prima legge di bilancio ma dai sondaggi sappiamo che a Nord e a Sud cresce il disagio sia nel popolo della Lega che in quello del M5S. Se i parlamentari eletti dai due partiti non sono tutti come Salvini e Di Maio che si ritengono i soli autentici interpreti della volontà popolare, potrebbero anche avere qualche ravvedimento operoso e votare in modo diverso dagli ordini di scuderia.

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In Italia conviene violare la legge

Piercamillo Davigo, “In Italia violare la legge conviene” Vero! Idòla, Laterza, 2018
In questo pamphlet che sintetizza più ampie ricerche e pubblicazioni di anni precedenti Piercamillo Davigo spiega perché in Italia dilaga l’illegalità e, quindi, l’ordinamento giuridico manca di effettività, ossia, di seria e costante applicazione nei vari comparti. La tesi da me condivisa è che gli italiani hanno la litigiosità nel sangue e bassa propensione al rispetto delle regole. E la politica reagisce cambiando continuamente le leggi e così rendendo sempre più difficile la loro conoscenza ed attuazione. Le forze politiche che si alternano al governo reagiscono affermando che le riforme fatte – rectius approvate – dai precedenti governi sono sbagliate e riscrivono pezzi dei vari ordinamenti in questo modo complicando il compito di chi deve attuarle. Con l’espandersi della illegalità – sostiene Davigo – si è diffusa una subcultura secondo cui sono furbi e intelligenti quelli che violano la legge e fessi quelli che la rispettano. I primi ne traggono vantaggio economico e da qui l’incentivo a violarla. Controlli inefficienti ed inefficaci contribuiscono a determinare un meccanismo che sempre più incentiva e fa crescere l’illegalità. Se poi si considera che l’Italia è la patria delle tre più grandi organizzazioni criminali del mondo che operano a livello mondiale, è chiaro che il compito della lotta alle mafie diventa vieppiù complicato. Come si è reagito storicamente? Alla illegalità diffusa si accompagnata una crescita smisurata del numero degli avvocati, tenendo fermo il numero dei giudici ordinari, ristrutturando in peggio l’assetto piramidale del sistema giudiziario, riformando i codici procedurali, accorciando i tempi delle prescrizioni in nome della certezza del diritto a scapito della certezza della pena. Assumendo una definizione ampia di avvocato che comprende anche i consiglieri giuridici l’Italia annovera 223.842 unità, un dato che costituisce un vero e proprio primato europeo. Ragionando in termini di numero di avvocati per ogni 100 mila abitanti si ha la media europea pari a 147, in Italia il rapporto sale 368, Francia 94, Germania 202. Il rapporto più alto per l’Italia potrebbe apparire giustificato per via della presenza delle organizzazioni di stampo mafioso ma Davigo mette in evidenza che in Italia non c’è certezza del diritto né certezza della pena e non solo perché molti procedimenti si estinguono per intervento della prescrizione ma anche perché è fiorita, in nome della funzione rieducativa della pena, una complessa legislazione agevolativa per cui le pene vengono ridotte nella fase esecutiva con sconti e facilitazioni varie. Abbiamo un arretrato di 5,2 milioni di processi civili e 3,5 milioni di quelli penali ma il legislatore si preoccupa molto del contenzioso fiscale dove l’arretrato ammonta a 469.048 fascicoli al 31-12-2016. C’è evidentemente un favor rei per gli evasori fiscali ma c’è anche per i reati penali e per gli illeciti civili e amministrativi. L’istituto che simboleggia il favor rei è il c.d. divieto di reformatio in peius (art. 597 cpc). Come noto, questo è visto dalla dottrina come ulteriore garanzia dell’imputato o come incentivo a presentare appello. Scrive Davigo che in Francia, dove detto divieto non esiste, solo il 40% delle condanne di primo grado viene appellato, in Italia quasi tutte. Questo meccanismo incentivante degli appelli va cozzare con l’anomala struttura piramidale del sistema giudiziario italiano per cui si elencano una Corte suprema di Cassazione, alias, di legittimità, 26 Corti d’appello (di cui 3 con una sezione distaccata) e 139 Tribunali, oltre ad alcune migliaia di giudici di pace e giudici onorari. Una struttura del genere – precisa Davigo – può reggere solo se una piccola parte delle decisioni di primo grado viene appellata. Altrimenti i livelli superiori si intasano e accumulano arretrati. Giustizia ritardata o negata per via delle prescrizioni finiscono con l’alimentare il senso di sfiducia nelle istituzioni. Giustizia e illegalità stanno in relazione inversa: se si riduce la prima, aumenta la seconda. A questo contribuisce non poco l’evasione fiscale. Davigo stima in 12 milioni gli evasori fiscali – all’ingrosso un numero ben più alto di quanti ricorrono alla giustizia civile e penale. Dice che il furto in generale svolge una funzione redistributiva – ovviamente perversa. Davigo cita il precetto evangelico “date a Cesare quello che è di Cesare” e ancora il più moderno e laico principio “pagare tutti per pagare meno”. Né il precetto né lo slogan in teoria fondato funzionano in Italia se i controlli fiscali sono inefficienti, se si registrano ritardi decennali nell’attuazione dell’anagrafe dei rapporti finanziari, se si ricorre sistematicamente ai condoni (fiscali, edilizi, valutari, ecc.) che sono diseducativi e raddoppiano il lavoro degli uffici comunque sottodimensionati rispetto al fabbisogno di personale necessario per affrontare un compito di dimensioni mastodontiche.
“Secondo l’ultimo rapporto degli ispettori del Fondo monetario internazionale, l’Italia ha un sistema pensionistico molto generoso che sottrae risorse agli investimenti pubblici e non dispone di una efficiente rete di strumenti di lotta alla povertà. Il lavoro è tassato pesantemente come del resto i pensionati, la ricchezza poco. Non c’è equità intergenerazionale. La cosa non sorprende se si tiene conto della relazione inversa tra giustizia e illegalità. Non c’è una teoria della giustizia sociale largamente condivisa per il presente, figuriamoci per un orizzonte temporale lungo. L’ultima Grande crisi mondiale (2008-13) è stata provocata dalla veduta corta di tutte le classi dirigenti, dall’egoismo imperante, dalla finanza rapace, dall’individualismo metodologico secondo cui l’individuo razionale è quello che massimizza il proprio interesse hic et nunc.
Ci si lamenta delle crescenti diseguaglianze ma la stragrande maggioranza esclude lo strumento fiscale per combatterle: i controlli restano inadeguati ed inefficienti; mancano soprattutto quelli che mettono in correlazioni le variazioni patrimoniali crescenti e livelli di reddito dichiarati al limite della sussistenza. Resta valido in teoria lo slogan programmatico “pagare tutti per pagare meno” ma resta un mito perché il sistema tributario e la sua implementazione sono costruiti per consentire una larga evasione. Un esempio per tanti altri che riguarda il penale tributario: cita la norma secondo cui l’IVA dovuta ma non versata sino a 250 mila euro non è reato penale; idem per le ritenute operate sui salari e non versate sino a 150 euro. Nei codici sono previsti anni e anni di carcere per evasione fiscale ma in fatto – dice Davigo – non c’è nessuno evasore fiscale in galera.
Anche in altri campi del penale sono previste sanzioni formalmente molto rigorose. Ma in fase applicativa, sono previsti numerosi marchingegni legali per cui si conteggiano gli anni di carcere: un anno non equivale a 365 giorni ma ad un numero di giorni molto più basso per via non solo della buona condotta ma per la concessione di misure alternative, amnistie, indulti, indultini, ecc. Queste incongruenze anche nella fase dell’esecuzione della pena mettono in evidenza la contraddizione del legislatore che da un lato legifera sanzioni rigorose in termini di pene detentive e poi le annacqua o le riduce sostanzialmente nella fase esecutiva. L’evidenza empirica di tutto questo: lo stock di 800 miliardi di imposte accertate difficilmente esigibili. Davigo cita che anche l’annacquamento delle pene pecuniarie nel settore amministrativo: lo Stato riesce a riscuotere solo il 4% delle sanzioni irrogate.
E si potrebbe continuare con altri reati dei colletti bianchi pubblici e privati. A pag. 77 Davigo riporta per intero “l’apologo dell’onestà nel paese dei corrotti” di Italo Calvino (Repubblica, 15-03-1980) dove questi descrive una società in cui dilaga l’illegalità diffusa e gli onesti vivono come una minoranza di diversi. Economisti, filosofi, giuristi, intellettuali, letterati si sono occupati del fenomeno ma senza riuscire ad imprimere una svolta e/o rigenerazione morale al Paese.
Cito a caso Sandro Veronesi intervistato da Vittorio Zincone “A forza di chiudere gli occhi, l’illegalità è diventata conveniente” settimanale SETTE /43 24-10-2014. Non so se Davigo ha letto l’intervista prima di scegliere il titolo del suo pamphlet ma mi interessa sottolineare la convergenza dell’analisi: “abbiamo chiuso gli occhi su talmente tanti cattivi comportamenti che l’illegalità è diventata conveniente, oltre che diffusissima”. E guardando alla prospettiva, a sua volta, Veronesi cita una frase concordante di Corrado Alvaro: “la disperazione più grave che possa impadronirsi d’una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile”. Non è forse anche questa una delle cause del crescente numero di astensioni dal voto? Ma guai se detta rassegnazione si consolidasse nella società. Per evitare ciò Francesco Paolo Casavola, eminente studioso del diritto romano e Presidente della Corte costituzionale, nel sua raccolta di saggi “Tornare alle radici, Per la ricostruzione delle basi della democrazia”, Cittadella Editrice, 2014, sottolinea come a monte del diritto romano che sviluppava un’idea individuale del diritto, si collocano tre comandamenti etici, raccomandati dai giuristi romani: non solo il “neminen laedere” e il “suum cuique tribuere” ma anche l’“honeste vivere” – tutti essenziali per la convivenza civile e la sopravvivenza della democrazia.
Potrei citare molti altri filosofi morali che hanno approfondito queste tematiche ma per la rilevanza e l’attualità della vita sociale di un paese come l’Italia che è in forte interdipendenza economica e culturale con altri Paesi membri non solo dell’Unione europea ma anche della Comunità internazionale, da economista credo che basti citare una frase del Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco inserita non casualmente nelle Considerazioni finali lette il 31-05-2016: “La legalità è condizione cruciale per lo sviluppo. Rafforzare l’azione di contrasto dell’evasione fiscale, della corruzione e della criminalità organizzata, dando continuità alle iniziative poste in essere negli ultimi anni e intensificandone l’attuazione, può permettere di sostenere l’attività delle tante imprese competitive e corrette, garantendo che tutti rispettino le regole e non sia ristretto o falsato il gioco della concorrenza”. Senza legalità non c’è giustizia sociale e non c’è sviluppo. Al lettore spetta di valutare se certi governi passati e più recenti si siano mossi e si stiano muovendo in tale direzione.
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