De Valoribus Disputandum Est

Laura Pennacchi, De Valoribus Disputandum Est. Sui valori dopo il neoliberismo. Mimesis Edizioni, 2018.

Il libro è una formidabile rassegna della filosofia morale, dell’etica, dell’economia, della sociologia, della psicanalisi, della teoria della giustizia sociale degli ultimi secoli non senza trascurare quella dei Greci e dei Romani. In considerazione degli effetti devastanti prodotti dal neoliberismo negli ultimi quaranta anni in termini di scissione tra mezzi e fini, di razionalità strumentale in un contesto di accelerazione del processo di globalizzazione quello di Laura Pennacchi è un importante tentativo di ricostruire una teoria dei valori. Un contesto che ha messo in discussione la possibilità di conciliare globalizzazione non governata, sovranità nazionale e democrazia secondo il noto trilemma di Dani Rodrik.

Partendo dall’assunto della Scuola di Chicago secondo cui i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato e, quindi, dalla endemica ostilità del neoliberismo nei confronti dell’operatore pubblico, ci si aspetterebbe che l’individuo fosse seriamente valorizzato al massino, invece, il soggetto viene ridotto a homo economicus. Un uomo razionale che massimizza il proprio interesse e, quindi, egoista, migliore giudice di sé stesso che non ha bisogno delle mediazioni di chicchessia. Dagli economisti il soggetto è assunto come individuo rappresentativo che semplifica e fa funzionare i modelli ora computabili di equilibrio economico generale. Apparentemente in contrasto con questo assunto, le forze politiche populiste e sovraniste assumono il popolo come soggetto del loro modello teorico. Sennonché, mentre l’individuo rappresentativo ha qualche risconto concreto con gli individui reali operanti nell’economia e nella società, il popolo rappresentativo è mera realtà virtuale sulla quale appaiono efficaci le semplificazioni ingannevoli ed illusorie propalate dai politici populisti e sovranisti. Esempio chiaro di tale mistificazione il caso recente del nostro governo giallo-verde che accredita la recente legge di bilancio per l’anno 2019 come manovra del popolo costringendo il Parlamento ad approvarla senza che i parlamentari – neanche quelli della maggioranza – avessero la disponibilità del suo testo definitivo.

I motivi della crescita dei movimenti populisti e sovranisti, non solo in Italia ma anche nel mondo, sono diversi e complicati: “Il leaderismo e il personalismo come carica selvatica e divisiva, il ridimensionamento dei corpi intermedi quali i sindacati, lo svuotamento dei partiti come strutture educative….. l’annebbiamento di principi valoriali e di tessuti normativi di matrice universalistica…. Una concezione elementare e famelica dell’esistenza che ricorre alla paura (pp. 24-25).

E fu la paura del comunismo che durante e dopo il biennio rosso (1919-20) determinò l’ascesa del fascismo in Italia. Oggi il comunismo è in quiescenza ma la paura viene alimentata sistematicamente dai governi populisti e sovranisti con una valanga di fake news che identificano il nemico, di volta in volta, nel diverso, nello straniero, nell’immigrato oltre che nel terrorismo internazionale. La Pennacchi cita Timoty Snyder il quale non esita a definire la post verità come prefascismo e l’Italia in materia, purtroppo, vanta un tragico precedente.  Le fake news, contrapponendo a fatti oggettivi emozioni e sentimenti, sono piuttosto efficaci sugli elettori hobbit che ignorano le complessità e le sottigliezze della comunicazione politica in un mondo globalizzato. Il neoliberismo vi contribuisce in termini sostanziali giocando sull’assunto che i fallimenti dello Stato – come detto – sono più di quelli del mercato e, quindi, delegittimano l’operatore pubblico a cui, di conseguenza, vanno sottratti i mezzi per finanziare i suoi interventi diretti e indiretti. I fautori del neoliberismo non si rendono conto che se non puoi fidarti dal privato il quale, per ipotesi, persegue solo il proprio interesse e se non puoi fidarti dell’operatore pubblico il quale spreca risorse con i suoi interventi diretti e commette gravi errori anche nella sua attività di regolazione, si crea un sistema che mina la fiducia reciproca tra i cittadini e lo spirito di cooperazione sempre necessario per creare una comunità e farla funzionare al meglio. Il tutto produce un annebbiamento dei valori che per la verità non è un fatto recente e che alcuni filosofi come Green e Honneth fanno risalire al fallimento del trittico della rivoluzione francese: libertà, uguaglianza e fraternità. Dopo il Congresso di Vienna (1815), da parte dei partiti liberali la libertà è stata propalata come libertà individuale (in pratica, dell’individuo più forte), l’uguaglianza in termini formali se nell’ottocento si votava solo per censo e le donne vengono ammesse al voto nel corso del novecento; e la solidarietà resta merce rara specialmente in contesti di area vasta.

Certo è un fatto non revocabile in dubbio che dopo la seconda guerra mondiale abbiamo avuto l’affermazione del welfare state frutto del c.d. compromesso socialdemocratico per cui, in cambio di diritti civili e sociali, le masse lavoratrici accettavano la legittimità del sistema capitalistico e il riconoscimento della proprietà privata come diritto fondamentale alla cui elaborazione aveva contribuito il costituzionalismo moderno. Ma dopo i trenta gloriosi di Tony Judd sono subentrati i quaranta vergognosi dell’egemonia neoliberista frutto anche della cesura dal liberalismo progressista. Basti ricordare che Beveridge autore de Memorandum e poi del Piano per i servizi sociali alla base del welfare britannico era un liberale.

A fronte dell’eclissi valoriale prodotta dal neoliberismo Laura Pennacchi – d’ora in poi LP -propone un’etica relazionale fondata sulla premessa di interdipendenza. Ed è chiaro che come c’è per le persone così tale legame c’è per le comunità, per i popoli in una fase storica di consolidamento dell’economia globalizzata. Sennonché non si consolida solo l’interdipendenza delle economie reali dei vari paesi del mondo ma anche il ruolo egemonico della finanza come dimostrano i dati che LP riporta sulla dinamica della capitalizzazione di borsa rispetto al PIL mondiale. Si evidenzia il primato della finanza rispetto all’economia reale e di questa rispetto alla politica. Il discorso sui valori sociali viene sostituito con quello dei valori di borsa. La politica rinuncia anche alla gestione diretta della fase applicativa della regolazione, l’affida alle autorità amministrative indipendenti che non è in grado di controllare e che, non di rado, vengono “catturate” dai soggetti che dovrebbero controllare. 

LP rigetta la tesi secondo cui il neoliberismo sia impulso alla razionalità ribaltandolo in impulso alla irrazionalità confermando il classico paradigma di Amartya Sen dello “sciocco razionale” come è la scissione tra mezzi e fini, l’eclissi del discorso sui fini, il dogma tatcheriano TINA (there is no alternative). In realtà, le scelte sia per i beni privati che per quelli pubblici devono tener conto non solo dei vincoli di bilancio ma anche delle strategie degli altri attori. “la riflessione etica ha bisogno di una dimensione di spiegazione sociale”. Citando A. Atkinson “le persone sono motivate da differenti visioni degli obiettivi della società”. Economia e mercati non sono sfere “libere” da norme e valori”. Tornando al trittico della rivoluzione francese, Axel Honneth afferma che non basta la libertà individuale, serve la libertà sociale. LP segue la critica del capitalismo come “forma di vita” secondo l’impostazione di Rahel Jaeggi, allieva di Honneth. A fronte della crisi del modello di cultura occidentale, non è una risposta appropriata quella di “rientrare in casa, e rifugiarsi nel ‘privato’” (Rorty). Servono tre tipi di crisi sociale: a) quella funzionale relativa all’instabilità del capitalismo; b) quella morale sotto il profilo della giustizia sociale per combattere le diseguaglianze; c) quella etica sotto il profilo della vita buona. Secondo LP, serve la phronesis aristotelica, non solo l’abilità nello scegliere i mezzi, ma capacità di elaborare i diversi significati dei nostri comportamenti in situazioni distinte”. Completa il discorso con la citazione di Guido Calogero: “è l’etica che fonda la logica”.

I diritti come i beni pubblici che li implementano sono valori; non si producono senza cooperazione; non fioriscono nel deserto; sono costruzioni storiche, giuridiche contestuali alla costruzione della sfera pubblica (Luigi Ferrajoli). Come preferenze, sono quindi discutibili come i gusti. Presuppongono il superamento e il rigetto dello schema Hobbesiano del patto leonino, ossia, della rinuncia ai diritti in cambio della protezione, o uso produttivo della paura. C’è un collegamento tra crisi mondiale e crisi dei valori? Secondo me, non c’è nesso diretto e immeditato di causa ed effetto perché in Europa la crisi dei valori risale alla seconda metà degli anni 70 e agli inizi degli anni ’80 con l’arrivo al potere della Signora Thatcher in Inghilterra e di Ronald Reagan negli USA. È collegata al “suicidio” della sinistra che ha fatto propri i paradigmi del neoliberismo, i progetti di riforma costituzionale ridotti a riforma elettorale anche in paesi a bassa coesione sociale e legittimare il decisionismo e/o un uomo solo al comando che gestisce da solo un rapporto di agenzia direttamente con il popolo e deistituzionalizza e spoliticizza anche la società civile. A fronte dell’accentuarsi della concorrenza economica e fiscale indotta alla globalizzazione non governata, il lavoro viene ridotto a merce. Nel contesto europeo e in particolare della zona euro caratterizzata da forti squilibri economici e sociali, la crisi produce due recessioni molto gravi che seminano paura ed incertezza soprattutto circa il futuro delle regioni periferiche. Se a questo si aggiungono gli effetti della digitalizzazione dell’economia e dell’utilizzo della intelligenza artificiale nelle nuove catene internazionali del valore le prospettive del lavoro non sono incoraggianti se non proprio disperate. Servono grandi investimenti pubblici e privati, servono investimenti enormi nel capitale umano. Servono nuove regole fiscali e redistributive del valore aggiunto creato anche dai robot. Serve non la riduzione del perimetro dell’intervento dello Stato ma la sua più adeguata espansione. E qui insiste la contraddizione che, secondo me, non consente una ulteriore espansione dei movimenti populisti e sovranisti e un ulteriore sopravvivenza del neoliberismo specialmente in Europa. Non a caso la tesi di LP è quella che ci sono capitalismi diversi e che essi vanno opportunamente riformati se vogliono sopravvivere e che in Europa occorre mettere in moto un nuovo processo costituente, un vero e proprio governo politico ed economico con i mezzi necessari per perseguire con determinazione politiche di pieno impiego del lavoro e della capacità produtttiva che ridurrebbe il bisogno di assistenza. Saranno i politici europei che usciranno dalle elezioni del maggio prossimo in grado di perseguire questi obiettivi?

@enzorus2020       

La politica commerciale comune e la Cina

Secondo l’art. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE):  “1. L’Unione ha competenza esclusiva nei seguenti settori: a) unione doganale; b) definizione delle regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno; c) politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro; d) conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca; e) politica commerciale comune. 2. L’Unione ha inoltre competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è prevista in un atto legislativo dell’Unione o è necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno o nella misura in cui può incidere su norme comuni o modificarne la portata”.

Come si evince chiaramente dal combinato disposto del comma 1 lett. e) e del comma 2 dell’art. 3 del TFUE non è revocabile in dubbio che la competenza nello stipulare un accordo commerciale rientra nelle competenze esclusive dell’Unione europea come, in primo luogo, l’Unione doganale. È chiaro che la prima implica l’esistenza e il coordinamento della seconda con la prima. E allora come si giustifica, almeno fin qui, l’acquiescenza della Commissione e del Consiglio all’iniziativa italiana sul Memorandum di intenti.  In parte, si giustifica con la natura stessa del documento che enuncia propositi; in parte con la debolezza dell’Unione in questa fase politica e, non ultimo, con la prassi discutibile per cui quando si registra un dissenso dei Paesi membri (d’ora in poi PM) su come gestire alcune politiche comuni si rinvia la soluzione del problema. Nel frattempo, i PM più forti agiscono autonomamente come hanno fatto in questa materia Francia e Germania. L’esempio emblematico è quello della politica estera. Nonostante che la presenza dell’alto rappresentante, i PM più importanti conducono una politica estera autonoma. Analogamente nella politica commerciale. Francia, Germania, la Grecia, l’Ungheria hanno sottoscritto accordi con la Cina. Quindi niente di nuovo sotto il sole.

In teoria gli accordi commerciali possono essere esaminati da due punti di vista contrastanti: il primo è quello classico dei vantaggi comparati per cui il libero scambio di merci e servizi avvantaggia tutti quando i paesi che vi partecipano sono specializzati in diversi settori di beni scambiabili. L’altro punto di vista è quello mercantilista per cui le esportazioni vanno bene perché conservano posti di lavoro, consentono di accumulare risorse valutarie per pagare le importazioni. Ma se l’accumulazione supera certi limiti come in Germania e in Cina si determinano c.d. squilibri globali per cui la domanda effettiva dei diversi paesi che si scambiano beni e servizi risulta inferiore a quella che consentirebbe un maggiore sviluppo dell’economia internazionale.

Anche il primo schema non funziona bene nel contesto della globalizzazione dove la situazione dei paesi è molto diversificata e, come nella realtà, alcuni di essi non sono particolarmente specializzati in prodotti scambiabili. E non basta, la competitività dei diversi paesi dipende anche dai sistemi sociali (diverso sviluppo dei diritti civili e sociali), dalle caratteristiche dei mercati e dalla gestione libera o guidata della loro politica commerciale. Nel criticare a caldo il memorandum firmato da Di Maio, non casualmente, Salvini ha ricordato che in Cina non c’è un libero mercato. 

Come ci ricorda D. Rodrik nel suo ultimo libro: “Dirla tutta sul mercato globale”, Einaudi, 2019 quando nel 2001 la Cina firmò l’accordo per entrare nella Organizzazione mondiale del Commercio assunse l’impegno di trasformare la sua economia in una di mercato nel giro di 15 anni. Tale promessa non è stata mantenuta. Argentina, Brasile, Cile e Corea del Sud le hanno riconosciuto comunque tale status. Ora segue l’Italia l’ultimo (o primo) paese del G7 in forte declino. Nel memorandum il tema è preso di striscio quando si afferma che: “Le Parti seguiranno principi di mercato, promuoveranno la collaborazione tra capitale pubblico e privato, incoraggeranno gli investimenti e il sostegno finanziario attraverso modelli diversificati”.  Nessuna menzione invece del delicatissimo problema del dumping sociale, alias, del rispetto dei diritti civili e sociali in Cina. Lo ha fatto il Presidente Mattarella nel suo discorso al Quirinale alla presenza di Xi Jinping.

Apparentemente con la firma del Memorandum l’Italia rientra nel grande e criticabile gioco degli accordi commerciali dopo che gli Stati Uniti di Trump hanno scelto la via difficile degli accordi bilaterali. Ma il fatto che, dopo Roma, il Presidente cinese vada a Parigi a parlare con Macron, la Merkel e il Presidente della Commissione Juncker ridimensiona la portata propagandistica dell’accordo firmato a Roma. Credo che Francia e Germania faranno capire meglio a Xi Jinping chi comanda in Europa. L’Italia è del tutto isolata e il governo giallo-verde lo ha fatto di sua iniziativa; Francia e Germania sono i PM che, a torto o a ragione, guidano il carro europeo. Tutti e tre i Paesi gestiscono un deficit commerciale con la Cina ma nel Memorandum non trovo indicazioni su come la situazione potrebbe essere riequilibrata.

Le trattative sul Memorandum sono state condotte in regime di segretezza e, quindi, era difficile fare delle valutazioni circostanziate senza il testo dell’accordo. Nei contenuti il documento non è altro che un documento di buone intenzioni, “salvo intese”, come ormai ci ha abituati il governo giallo-verde. Prima o poi verranno fuori i contenuti e, allora, vedremo cosa succederà.

@enzorus2020

A proposito di bail-in e/o di salvataggi bancari necessitati.

Al ministro Tria non piace il bail-in a suo tempo (2014) “imposto” dalla Germania. Il bail-in è la nuova regola per cui azionisti e titolari di obbligazioni strutturate partecipano pro-quota alle perdite di banche inefficienti e/o in fase di liquidazione amministrativa perché gestite male. Tria ha sostenuto che nel 2014 il Ministro Saccomanni sarebbe stato “ricattato” dal collega tedesco Schauble che minacciava di rivelare lo stato precario del sistema bancario italiano.   Subito dopo temendo reazioni da parte tedesca – Schauble è ora presidente del Camera dei deputati – Tria ha addolcito la sua affermazione. Nei giorni successivi il ministro Saccomanni ha detto che quando lui è arrivato a Bruxelles la decisione era già maturata perché la discussione dell’idea del bail-in era iniziata a partire dal 2011 e, quindi, lui non poteva fermare un processo decisionale che andava avanti da circa tre anni. Sono questi i tempi medi di una decisione complessa a Bruxelles calcolati dall’allora presidente del Parlamento europeo Martin Schulz nel suo libro Il gigante incatenato. Quindi ha ragione Saccomanni: non c’è stato alcun ricatto al ministro pro-tempore.  

In fatto, la norma non è stata applicata, anzi si è fatto il contrario anche perché la stessa Germania ha problemi analoghi con le banche locali. Per capire bene la vicenda bisogna fare due passi indietro e chiarire il contesto che ne ha determinato la necessità. Il primo va alla riforma del 1993 (vedi TU n. 385) che reintroduce il modello della banca universale abrogato con la riforma del 1936. La banca torna a fare tutto e di più. Eroga il credito ordinario, concede mutui, acquista partecipazioni in imprese, fa speculazioni finanziarie azzardate, non cerca di recuperare le sofferenze sui prestiti concessi ad amici e sodali dei dirigenti.  Nella imperante logica neo-liberista le banche sono considerate imprese come le altre. Possono fare tutto quello che vogliono e se sono grandi “non possono fallire” perché ancora peggiori sarebbero i danni per l’economia reale.  In questa linea, il fallimento della banca Lehman Brothers del 15 settembre 2008 alcuni anni dopo veniva considerato come un errore che bisognava evitare.

Dopo la improvvida ed inopportuna affermazione del ministro Tria nella sua audizione davanti alla 6° Commissione finanze e Tesoro del Senato del 27 febbraio scorso si scatena un coro di dichiarazioni e consensi a favore della tesi contraria all’attuazione del bail-in e, quindi, favorevole ai salvataggi bancari senza se e senza ma. In prima linea, si schiera ovviamente il Presidente della Associazione bancaria italiana Antonio Patuelli per ragioni di Ufficio ma quello che sorprende è che anche alcuni esponenti della Banca d’Italia hanno fatto dichiarazioni convergenti. Non si è apertamente pronunciato il Governatore Visco ma sappiamo che anche la storia bancaria del secondo dopoguerra è costellata di crisi di singole banche sempre salvate dalla Banca d’Italia in nome della stabilità del sistema invero inefficiente e arretrato. Come hanno dimostrato degli studi dell’Ente Einaudi a suo tempo coordinati coordinati da Tommaso Padoa Schioppa  il sistema banco-centrico italiano è uno dei più arretrati di Europa e, non di rado, pratica l’usura. Da ultimo si è creato un legame diabolico per cui le banche sottoscrivono titoli dello Stato – ne hanno in portafoglio diverse centinaia di miliardi – e riscuotono cedole relativamente basse, non remunerano i depositi dei risparmiatori, si sono trasformate in agenzie immobiliari, vendono polizze assicurative a tariffe esose, non erogano fidi a imprese con scarsa liquidità.  L’intreccio è diabolico perché una crisi del sistema bancario potrebbe mettere a repentaglio la gestione del debito pubblico attraverso la vendita obbligata dei titoli del debito pubblico nei loro portafogli e, viceversa un attacco speculativo diretto al debito pubblico italiano finirebbe con lo svalutare anche i titoli in possesso delle banche.   A livello internazionale ed europeo, sono state avanzate proposte mirate a sciogliere il legame diabolico ma in Italia dette proposte sono state respinte senza un vero dibattito pubblico.

La mia tesi di base è che sia la riforma del 1993 che tutti i salvataggi fatti successivamente – emblematico il caso del Monte dei Paschi di Siena – sono contrari allo spirito e alla lettera dell’art. 47 comma 1 della Costituzione il quale dice che: “la Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito”. L’indagine parlamentare svolta nella precedente legislatura ha messo in evidenza come nel controllo dell’esercizio del credito delle altre attività delle banche non c’è stato coordinamento adeguato tra Banca d’Italia e la Consob – quest’ultima per la parte relativa all’emissione di titoli da parte delle controllate perché quotate in borsa. Poi c’è la concentrazione in testa all’autorità europea di vigilanza sulle grandi banche c.d. sistemiche. Il discorso sarebbe lungo e complicato ma la sostanza è la tutela del risparmio “in tutte le sue forme”, secondo me, non può essere invocata solo a fronte di gestioni sgangherate di banche locali piccole e medie, di nomine di dirigenti senza le qualifiche necessarie, ecc.. La vera tutela dei risparmiatori si fa in chiave preventiva.  Le funzioni di cui parla il primo comma dell’art. 47 Cost. sono eminentemente pubbliche e le autorità indipendenti chiamate ad esercitarle dovrebbero evitare di farsi catturare dai controllati. Le banche piccole o grandi non sono imprese come le altre e l’idea maturata a livello europeo di coinvolgere la responsabilità di azionisti ed obbligazionisti poco attenti nell’impiego dei propri risparmi ha un suo fondamento logico. Il punto di domanda, la questione che non viene discusso e approfondito è che il fatto che le banche vengano considerate imprese come le altre, secondo me, non fa venire meno la funzione pubblica e di preminente interesse generale che esse svolgono e, quindi, la necessità di una vigilanza rigorosa ai vari livelli e secondo le diverse competenze.   Il governo e la Banca d’Italia sostengono anche programmi di educazione finanziaria – in Italia a livelli troppo bassi. Va bene ma il loro compito principale è quello di rendere più efficienti ed efficaci il sistema dei controlli. Di nuovo, qualche barlume di speranza oggi viene dall’Europa. Politici ed opinione pubblica indipendenti dovrebbero schierarsi a difesa del bail-in.

@enzorus2020