Luci e ombre nelle proposte di riforma fiscale raccolte dal Sole-24 Ore

AAVV, Fisco. Le tasse del futuro. Il cantiere fiscale nelle analisi del Sole 24 Ore, 2020.

Il Direttore del Sole 24 Ore Fabio Tamburini ha aperto le pagine del maggiore quotidiano economico-finanziario a interventi esterni di quattro ex ministri delle finanze (Vincenzo Visco, Franco Gallo, Giulio Tremonti e Giovanni Tria), di alcuni suoi editorialisti (Jean Marie Del Bo, Salvatore Padula, Dino Pesole), di docenti universitari ed esperti in materia fiscale. Tra gli interventi prevalgono, in modo schiacciante, i professori di diritto tributario anche con più di un intervento. Si tratta di iniziativa benemerita che va apprezzata specialmente in un contesto in cui, nei mesi scorsi, si pensava di fare una riforma fiscale ampia senza approfonditi studi preparatori.  

La maggior parte degli interventi vorrebbero una riforma all’insegna della progressività, della semplificazione, della trasparenza, della riduzione della pressione tributaria, riduzione delle agevolazioni fiscali e/o tax expenditures. È evidente come sia molto facile enunciare tali obiettivi ma pochi si rendono conto che alcuni di essi non convergono naturalmente e, non di rado, è molto difficile bilanciarli adeguatamente specialmente se molti tributaristi restano ossessionati dal tributo e non considerano che, in via prioritaria, bisognerebbe partire dai bisogni pubblici da soddisfare, delle spese pubbliche necessarie per soddisfarli e dell’equilibrio dei conti pubblici gestiti sistematicamente in deficit e ora in forte crescita per via dell’acuirsi della crisi sanitaria e della conseguente crisi economica. Nella Nadef 2020 si prevede, per fine anno, un deficit nell’ordine del 10% del PIL all’incirca pari alla riduzione del reddito e non sono pochi, specialmente tra gli oppositori dell’attuale maggioranza, quelli che teorizzano una riduzione della pressione tributaria. Questo ovviamente non esclude che per pensionati e lavoratori dipendenti – le due categorie sociali maggiormente tartassate – si possano prevedere degli sgravi ma non si può ipotizzare una riduzione generalizzata della pressione tributaria, semmai il suo contrario se, in un modo o nell’altro, consapevolmente o meno, non vogliamo che il paese vada incontro ad una grave crisi finanziaria.

Affrontare in maniera organica i trattamenti differenziali, le agevolazioni fiscali o tax expenditure significa mettersi contro tutte le tax clienteles e probabilmente dover battere in ritirata. Servirebbe invece una strategia politica come quella adottata durante la riforma Reagan degli anni ’80 per cui chi proponeva un trattamento differenziale che comportava una minore entrata doveva indicare un’altra fonte equivalente di gettito. Questo in osservanza alla regola secondo cui le riforme fiscali vanno studiate a parità di gettito definendo preventivamente e con precisione gli obiettivi che si intendono perseguire. In teoria, questi sono riassunti in termini di equità ed efficienza ma, in pratica, bisogna andare oltre. In ogni caso occorre necessariamente intervenire sulla riduzione del numero delle agevolazioni (600) se si vogliono recuperare risorse da spendere in modo più efficiente ed equo. Se come sembra questo governo non riuscisse a proporre un approccio selettivo non resta che prenderne atto e procedere con un taglio orizzontale come ha proposto Mauro Marè presidente di apposita Commissione. Nonostante l’accorgimento di cui sopra neanche il legislatore USA del 1986 riuscì a fare tagli selettivi delle tax expenditures e finì coll’adottare la Alternative Minimum Tax. Queste rimanevano nel numero esistente ma il contribuente poteva usufruirne entro i limiti della AMT.  

Tutti, esperti e non, propongono una riforma di ampio respiro come se, in materia di imposte, da un giorno all’altro, si potessero inventare nuovi principi anche costituzionali e criteri operativi nuovi nella gestione amministrativa di un sistema tributario. Per questi motivi, concordo con Salvatore Padula il quale non vede all’orizzonte alcuna riforma radicale del sistema tributario vedi p. XVI. Secondo me, i motivi sono tre: due di carattere sovranazionale e uno interno all’Italia. A livello internazionale, nonostante gli studi e le proposte del FMI e dell’OCSE, il G-20 che ha voce in capitolo fa poco o niente per mettere sotto controllo la concorrenza fiscale al ribasso; lo stesso dicasi al livello dell’Unione Europea dove pure imperversa la concorrenza fiscale promossa e attuata con profitto da 7-8 paradisi fiscali interni. Sintomatico e non casuale il fatto che, dopo le dimissioni del portoghese Mario Centeno, a capo dell’Eurogruppo sia stato eletto un politico irlandese come Paschal Donohe.  È vero che l’Eurogruppo è un organismo informale ma gli esperti di affari europei sanno che, senza il  consenso di questo gruppo, le varie proposte in materia economico-finanziaria non vanno avanti.   Il terzo motivo è la polarizzazione del dibattito interno anche sulla riforma fiscale. Come si fa a far passare una riforma seria se a destra prevale l’approccio neoliberista per cui la ricetta per tutti i mali dell’economia, del consolidamento dei conti pubblici, della riduzione e sostenibilità del debito pubblico deve passare attraverso una riduzione generalizzata delle imposte con una flat tax al 15% e se, a sinistra, tra gli obiettivi della riforma non è prevista una redistribuzione forte in grado di arginare l’espandersi della povertà e la forte crescita delle diseguaglianze. Come si fa a fare una riforma seria se un governo reintroduce la tassazione dell’abitazione principale e subito il governo di colore diversa la abroga?

Se questo è vero, è saggia la decisione del MEF Gualtieri e del governo di chiedere una legge delega per una riforma “complessiva” da attuare in tre anni.  Per il 2021 si interverrebbe solo sull’assegno unico per i figli a carico e per una limitata riduzione del cuneo fiscale per un presunto spazio fiscale di 4,8 miliardi di euro.  La priorità resterebbe l’intervento sull’Irpef da fare nel corso del 2021 e che entrerebbe in vigore nel 2022.  È un errore non dare un segnale immediato, in sede di legge di bilancio 2021 – sull’Irpef eliminando il salto d’imposta (11 punti) tra il secondo e il terzo scaglione – come suggerito da anni dal FMI. Siccome l’aggiustamento comporterebbe una perdita di gettito, secondo me, essa dovrebbe essere compensata con un aumento dell’aliquota marginale superiore (43%), dando così un segnale che si voglia andare verso una maggiore progressività. Come dimostra con i dati Piketty in Europa siamo passati da aliquote marginali massime tra il 70 e l’80% ad una media del 42-43 dove si colloca anche quella italiana. Naturalmente questa situazione non sembra turbare la coscienza di Giulio Tremonti che sembra riproporre di spostare la tassazione “dalle persone alle cose” come se le imposte indirette sulle cose non fossero comunque pagate dalle persone. Ma Tremonti non è isolato perché le ventilate manovre sulle aliquote IVA con innalzamento serio di quelle agevolate vanno proprio nella direzione da lui auspicata di ridurre la progressività. Qui mi piace citare una riflessione di Vito Tanzi che ho letto nel suo recente libro Una introduzione avanzata alla scienza delle finanze: se le basi imponibili sono ristrette servono aliquote elevate; se le basi imponibili sono larghe o onnicomprensive allora possono bastare aliquote basse.

La delega interesserebbe anche l’IRAP ed eventualmente l’IRPEG se passasse l’ipotesi di trasformare la prima in una sorta di addizionale della seconda.

Ancora si parla di riforma della giustizia tributaria dove aleggia ancora in aria la proposta di affidare il contenzioso ai giudici della Corte dei Conti. Appena lanciata nel dibattito la proposta è stata aspramente criticata da accademici, esperti ma nessuno di loro ha colto la sinergia tra controllo della spesa e delle entrate che fanno dei giudici suddetti le persone più qualificate per svolgere detta delicata funzione.     

Quasi del tutto trascurato – salvo alcuni accenni da parte di Dino Pesole, Orsini vicepresidente di Confindustria e altri – il problema dell’amministrazione finanziaria nonostante il problema posto sia stato bene impostato da Enrico De Mita quando afferma che in Italia abbiamo, a monte, un problema di quantità e qualità della legislazione tributaria – ma, a valle, anche di legislazione in generale – e della sua congrua e corretta applicazione. Da questo punto di vista sembra eccentrica o paradossale la posizione dell’ex ministro Giulio Tremonti che qualifica come ottima la struttura della nostra amministrazione finanziaria. Ottima perché non riesce a conseguire alcun significativo risultato in materia di lotta all’evasione? E non solo negli anni più recenti ma negli ultimi 50 anni!

Questi problemi furono rilevati e bene analizzati da Antonio Pedone nel suo brillante e profetico saggio Evasori e tartassati. I nodi della politica tributaria italiana, 1979. Appena 5 anni dopo l’entrata in vigore della grande riforma, individua tutti i problemi del suo mancato funzionamento compresi quelli amministrativi che sull’onda dell’euforia per l’approvazione dei decreti legislativi erano stati rimossi. E così per le riforme successive. 40 anni dopo resiste la dicotomia tra evasori e tartassati.

Non ultimo, sempre in materia di attuazione del sistema tributario, quali che siano i suoi istituti sostanziali, abbiamo un problema con la gestione politicizzata della funzione di accertamento. Purtroppo l’Italia eccelle anche in questo campo. Pochi addetti ai lavori sanno chi sono i capi dell’Internal Revenue Service del governo federale USA e del Board of Inland Revenue nel Regno Unito. In Italia molti direttori dell’Agenzia delle entrate, appena nominati, diventano personaggi pubblici che non si astengono dal fare anche proposte di riforma fiscale vedi sul punto l’intervento di Fabio Ghiselli p. 117. Ma poco o nulla dicono sull’efficienza ed efficacia della struttura che dirigono. Aspettano che lo dica la Corte dei Conti che rimane inascoltata.

Visto che il governo ha deciso di chiedere la delega presumibilmente ampia avremo modo di entrare nel merito di altri problemi di riforma degli istituti sostanziali e della loro gestione che molti colleghi hanno esaminato nei loro contributi pubblicati dal Sole 24 Ore. Voglio sperare che nella delega che il MEF Gualtieri si accinge a chiedere ci siano anche proposte di riordino in materia di tassazione patrimoniale, di imposte di successione, di finanza regionale e locale. A fronte della forte crescita delle diseguaglianze queste sono le proposte che vengono avanzate a livello internazionale e non sono problemi che si possono risolvere con riduzioni più o meno ampie della pressione fiscale.

Enzorus2020@gmail.com

Le mine anti-umanità del capitalismo della sorveglianza.

Comincio questa recensione in modo inusuale con la definizione di capitalismo della sorveglianza in 8 punti proposta della stessa Autrice perché in effetti elenca le varie problematiche che approfondisce nei vari capitoli del libro. Shoshana Zuboff, Il Capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, LUISS University Press, 2019: p.9

  1. Un nuovo ordine economico che sfrutta l’esperienza umana come materia prima per pratiche commerciali segrete di estrazione, previsione e vendita;
  2. Una logica economica parassitaria nella quale la produzione di beni e servizi è subordinata a una nuova architettura globale per il cambiamento dei comportamenti;
  3. Una mutazione pirata del capitalismo caratterizzata da concentrazione di ricchezza, conoscenza e potere senza precedenti nella storia dell’umanità;
  4. Lo scenario alla base dell’economia della sorveglianza;
  5. Un’importante minaccia per la natura umana nel Ventunesimo secolo, proprio come il capitalismo industriale lo era per la natura nei secoli Diciannovesimo e Ventesimo;
  6. L’origine di un nuovo potere strumentalizzante che impone il proprio dominio sulla società e sfida la democrazia dei mercati;
  7. Un movimento che cerca di imporre un nuovo ordine collettivo basato sulla sicurezza assoluta;
  8. Un’espropriazione dei diritti umani fondamentali che proviene dall’alto: la sovversione della sovranità del popolo.

Il libro che “vuole essere una prima mappatura di una terra sconosciuta” si divide in tre parti (p. 28). La prima descrive “l’impervio habitat sociale prodotto da decenni di regime economico neoliberale che schiaccia quotidianamente la nostra autostima e il nostro bisogno di autodeterminarci”; il successo di Google costruito anche “sul disprezzo per i limiti del privato e per l’integrità morale degli individui”; tutto ciò nell’assenza di leggi che ne disciplinassero l’invadenza, l’arroganza e la sfrontatezza e anzi con la protezione del governo come vedremo più avanti. In pratica, oggi accanto alla finanza rapace abbiamo il capitalismo della sorveglianza altrettanto rapace.

La seconda parte descrive la transizione veloce dal mondo online a quello reale, una sorta di corsa (rush) all’oro qui definito in termini di “prodotti predittivi in grado di avvicinarsi alla certezza assoluta”; ma il capitalismo della sorveglianza non si limita alla rilevazione dei comportamenti, va oltre, mira alla modifica, alla omogeneizzazione dei comportamenti; e se questo approccio, solo alcuni decenni fa, veniva percepito come una “minaccia all’autonomia individuale e all’ordine democratico, oggi, le stesse pratiche incontrano ben poche resistenze e, di rado, vengono messe in discussione….”.

La terza parte esamina l’ascesa del potere strumentalizzante che la Zuboff chiama Grande Altro per distinguerlo dal Grande Fratello che Orwell vedeva interessare l’evolversi dello Stato totalitario. Giustamente la Zuboff sostiene che siamo davanti a un tipo di potere che non ha precedenti nella storia. Sintetizza la differenza dicendo che “nel totalitarismo lo Stato veniva trasformato in un progetto di possesso totale” della persona mentre nel Grande Altro “il mercato sta diventando un progetto di certezza totale, un’impresa impossibile fuori dal regno digitale e dalla logica del capitalismo della sorveglianza”. Ora se questo funziona nel mercato economico, il passaggio al c.d. mercato politico è breve.   

Il nuovo ordine economico è quello che le grandi corporation informatiche stanno imponendo al mondo dove, al posto del consumatore sovrano che i corsi introduttivi di economia politica teorizzavano, ci sono cittadini tracciati, analizzati, sfruttati e, via via, modificati nei loro gusti di consumatori e nelle loro preferenze per i beni pubblici. È una logica che permea le nuove tecnologie informatiche e la trasforma in azione per produrre profitti privati. Una volta i guru delle ricerche di mercato sostenevano che loro accertavano i bisogni del consumatore prima che questi ne avvertisse l’esistenza ed operavano prevalentemente attraverso ricerche a campione e pubblicità rivolta a tutti. In questo scorcio del XXI secolo, prevale una logica economica parassitaria che non si limita ad influenzare la produzione e il consumo di beni e servizi ma mira a costruire un’architettura globale che va ben oltre la sfera dei principali consumi ma mira alla modifica di tutti i comportamenti compresi quelli politici elettorali.

Dal rovesciamento della sovranità del consumatore che si insegnava nei vecchi manuali introduttivi di economia politica siamo già arrivati al rovesciamento del principio della sovranità popolare.


Secondo Hal Varian capo economista di Google alla base c’è il modello pubblicitario, ossia, l’estrazione di tutti i dati disponibili per elaborare previsioni accurate via il CTR che sta per click through rate: la frequenza con la quale l’utente di un servizio gratuito torna a cliccare su certi pulsanti, su certe domande, su certe immagini, ecc. Il primo punto di svolta avvenne con la crisi delle c.d. dot.com (aziende informatiche) del 2000. La risposta fu che bisognava rendere i profitti più duraturi e sostenibili. Hanno avuto successo. Varian ha scoperto che si potevano fare previsioni più precise estraendo e ammassando dati che, fino ad allora, venivano trascurati e cestinati come cascame  perché non erano direttamente rilevanti per le ricerche in corso. Ha scoperto il c.d. Surplus comportamentale, alias, dati relativi ad ogni comportamento dell’individuo, i big data. Fu come scoprire il Santo Graal della pubblicità: mandare il messaggio alle persone interessate al momento giusto, al momento in cui esse hanno urgente bisogno di risolvere un problema e cercano il prodotto migliore per farlo – non di rado in stato emotivo. La logica del CTR è quella di leggere le menti delle persone non solo con riferimento ai consumi correnti ma con riguardo ad ogni altro aspetto della vita giornaliera e non. È la fine della privacy. E’ stata Google a imparare, prima delle altre, a dominare detto mercato. La Zuboff (p. 276) cita Sundar Pichai il quale afferma “un tempo eravamo noi a fare ricerche su Google, ora è Google che fa ricerche su di noi”. Poi seguono Facebook, Amazon, Microsoft, Netflix, ecc. Le imprese si difendono dicendo che loro non vendono la materia prima ma le accurate previsioni di mercato elaborate con essa. Queste previsioni sostituiscono l’intuizione e, in parte, le tradizionali indagini di mercato a campione. Un altro duro colpo alla privacy avviene subito dopo il clamoroso e tragico attentato alle Due Torri e al Pentagono (11 settembre 2001) quando gli americani scoprono che Fortezza America è vulnerabile. E si pone un difficile problema di bilanciamento tra esigenze di sicurezza legiferate con il Patriot Act (26 ottobre 2001) e privacy. Si scopre che le imprese high tech avevano non solo banche dati più ampie di quelle delle Agenzie nazionali della sicurezza ma avevano approntato anche algoritmi più efficienti per analizzare i big data. Nascono affinità elettive e, quindi, sinergie collaborative in una prima fase tra Google e servizi segreti e poi tra questi e le altre imprese high tech. E questo spiega l’ampia libertà di iniziativa che il governo federale ha lasciato agli Alfieri del capitalismo della sorveglianza.

Siamo entrati in una nuova fase della storia in cui tutto sarà connesso, conoscibile e processabile anche ai fini politici – altro che fine della storia di Francis Fukuyama.

 Leggendo il libro della Zuboff viene spontaneo pensare al romanzo distopico Il Grande Fratello di Orwell (1949) ma ora le cose sono andate ben oltre. Non si tratta solo di intuizioni e/o fantasie più o meno fondate di un autore lungimirante che, comunque, partiva da esperienze vissute e previsioni costruite su fatti storici; nel Grande Altro – come lo chiama la Zuboff – abbiamo la realtà comprovata del potere strumentalizzante delle imprese private che fanno sistematico bracconaggio dei nostri comportamenti per estrarne un profitto. Non lo fanno con la violenza, le persecuzioni, le carcerazioni, le torture, le purghe dei regimi autoritari e dispotici ma con la spinta gentile dell’offerta gratuita di servizi utili. Non è altruismo puro. Spiega la Zuboff che: “se qualcosa è gratis il prodotto sei tu e noi siamo le carcasse abbandonate (p. 394). Il potere strumentalizzante dei capitalisti della sorveglianza produce, per loro, conoscenza che si accumula all’infinito; determina uno squilibrio dell’apprendimento per tutti gli altri – anche per via della loro disponibilità del machine learning – che erode sempre più la nostra autonomia e libertà individuale e mette a rischio la democrazia.

Precisa la Zuboff: “la convinzione di poter scegliere il nostro destino è sotto assedio, e con un capovolgimento di fronte mozzafiato, il sogno di una tecnologia per predire e controllare il comportamento – per la quale Burrhus F. Skinner (1904-1990) era stato irriso pubblicamente – è ora realtà. È un premio che attira un capitale immenso, menti geniali, l’impegno degli scienziati, la protezione del governo, interi ecosistemi di istituzionalizzazione, con immancabile fascino del potere”. Il riferimento è a Skinner psicologo nordamericano esponente di alto rilievo della scienza comportamentale.  Secondo la Zuboff ha tracciato un nuovo sentiero verso l’ingegneria del comportamento.

Come già detto, l’obiettivo è prevedere, influenzare e controllare i comportamenti umani usando ad arte la divisione dell’apprendimento allo scopo di escludere, confondere e obnubilare la gente comune. La Zuboff (365) elabora un’analogia sconcertante: come il capitalismo industriale ha devastato la natura così il capitalismo della sorveglianza se non messo sotto controllo può distruggere l’umanità. E ancora a p. 430 cita Eric Schmidt e Sebastian Thrun che, a proposito di intelligenza artificiale, sostengono che devono assomigliare alle persone ma queste alle macchine.

Ora che Google non è monopolista ma c’è una concorrenza oligopolistica tra i capitalisti della sorveglianza – che negli USA si contano sulle dita delle mani – vince chi impara più in fretta. Anche alcuni governi partecipano a questa competizione ma se essi spendono poco in ricerca e innovazione vince il privato. Se poi si considera che, in teoria, i governi ai vari livelli partono con il possesso di consistenti banche dati si conferma che i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato non nel senso di Friedman – intervengono e sbagliano – ma come astensione dal fare. Infatti, spesso questi fallimenti pubblici sono favoriti dall’assenza di regolamentazione idonea a difendere e favorire l’interesse generale che, oggi in fatto, privilegia l’iniziativa privata. Non ultimo, bisogna considerare che i rischi per la libertà individuale e per la democrazia sono altissimi nei limiti in cui il potere strumentalizzante e/o gli strumenti della sorveglianza dovessero finire sotto il controllo di regimi autoritari – come è già in essere in alcuni grandi Paesi con settori digitali avanzati.   

Nelle ultime settimane in Italia si è scatenata la guerra dei cookies – inventati da Netscape nel 1994 di cui ora comprendiamo meglio la loro pericolosa funzione. Tutti li chiedono e spesso ritirano l’offerta di servizi “gratuiti” se no acconsenti. In Italia hanno capito il fenomeno in ritardo- per fortuna si potrebbe dire. Ma se sono giornali a piccola diffusione, cooperative e/o piccole e medie imprese con pochi lettori, utenti o clienti, non si capisce come possano fare a costruire i big data con i quali produrre affidabili prodotti previsivi come fanno Google, Facebook e le altre imprese high tech.   Probabilmente sono mossi dalla logica della blockchain e/o della fidelizzazione dei propri utenti.

Propongo ora un esempio di una caratteristica comportamentale degli alfieri del capitalismo della sorveglianza: la sfrontatezza. Non so a quanti sia capitato da ultimo;  racconto un episodio occorso a me per la prima volta. Nei giorni scorsi, Google Maps Timeline mi ha inviato via mail un riepilogo dei miei spostamenti da luglio a settembre. Visitate cinque città , 23 luoghi diversi di cui 10 nuovi corredati dalle mappe stradali ed esatta individuazione (Via e numero civico della casa al mare oltre che della residenza abituale); registrazione dei ristoranti dove sono andato a cena, dei supermercati dove normalmente faccio lo shopping e dell’autogrill dove a volte mi fermo durante gli spostamenti; conteggio dei giorni in cui sono stato a casa; le strade di Roma  in cui sono passato e il negozio di fiori davanti al quale probabilmente mi sono solo soffermato per qualche minuto.  In realtà, i riepiloghi dei miei spostamenti contengono molti errori perché menzionano Regioni e posti in cui non sono stato. Il fatto è che io non ho richiesto detto servizio. Ho solo usato Google Maps per vedere dove stava una strada di Roma. È vero che Google ti chiede se ti è piaciuto il servizio e ti dà la possibilità di sospenderlo. Quale che sia la tua decisione i tuoi dati restano in possesso della impresa ed è dubbio che essi vengano cancellati.

Credo che tale bracconaggio di dati sia illegittimo anche ai sensi del regolamento UE GDPR (general data protection regulation) n. 679/2016 poi aggiornato e promulgato il 25 maggio 2018 citato positivamente dalla Zuboff. Il regolamento UE nasce dopo che un attivista austriaco Max Schrems nel 2013 aveva presentato ricorso alla Corte di giustizia europea  contro Facebook per violazione dell’accordo Safe Harbor tra USA e UE in vigore dal 26-07-2000.

L’accusa di Schrems, a sua volta, viene ritenuta maggiormente credibile dopo le rivelazioni di Eduard J. Snowden, ex tecnico della CIA, che a sua volta rese pubblica, nel giugno 2013, l’esistenza di programmi di sorveglianza di massa degli utenti di Facebook, Google, e altre società high tech organizzati dalla National Security Agency.    Con la sentenza del 6-10-2015 la CGUE non solo accoglie il ricorso di Schrems ma annulla il Trattato Safe Harbor. Da qui il lavorio per arrivare al Regolamento n. 679/2016. Basta? No. Racconta la Zuboff che c’è chi propone una nuova Agenzia federale che per contrastare gli algoritmi delle imprese private. Infatti è questo il problema: servono nuove forme di autorità e potere, compresi computer e competenze, per costruire una nuova forma di intelligenza artificiale che renda possibile controllare, discutere e combattere quello che fanno i privati in maniera illegittima. La proposta di una nuova agenzia federale degli algoritmi viene motivata dal fatto che spesso le raccomandazioni della Federal Trade Commission non sono tenute in considerazione e, addirittura, neutralizzate con leggi del Congresso.   

I governi dovrebbero imparare a contrastare l’arroganza e la sfrontatezza delle imprese private ma come possono farlo se ci sono affinità elettive, connivenze, interessi comuni, convergenze programmatiche anche nella UE dove la partnership pubblico-privato è fortemente auspicata e promossa?

Ho visto il docufilm The Social Dilemma prodotto e distribuito da Netflix una delle aziende digitali a maggiore capitalizzazione di mercato. Contiene anche diverse interviste a Shoshana Zuboff. Sarebbe un docufilm da far vedere nelle scuole visto che molti giovani sono assuefatti all’idea di stare sempre connessi e, quindi, maggiormente, soggetti ad assuefazione. Alla fine il docufilm pur menzionando i rischi di queste nuove tecnologie compresa l’intelligenza artificiale chiude sull’idea denunciata dalla Zuboff dell’inevitabilità, dell’assenza di alternative (TINA). La mia speranza è che il docufilm possa contribuire a svegliare anche l’attenzione dei settori più avvertiti dell’opinione pubblica.