Note sulla società signorile di massa in Italia

Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019

Ricolfi definisce la società signorile di massa: “una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano” e godono di consumi opulenti. La transizione verso la società opulenta – secondo Ricolfi – è avvenuta tra gli anni 80 e i primi 2000. Detta società si fonda su tre pilastri:

 1) enorme ricchezza reale e finanziaria; il mancato contenimento della crescita del debito pubblico che si è verificata negli anni ’80 ha contribuito ad alimentare la ricchezza finanziaria delle famiglie; successivamente l’adesione all’euro e la riduzione dei tassi di interesse ha consentito a molte famiglie di accedere a mutui a basso costo consentendo ad alcune l’acquisto di case e ad altre il raddoppio del loro patrimonio immobiliare;

 2) la distruzione della scuola e dell’Università; distruzione è termine a mio giudizio alquanto esagerato utilizzato da Ricolfi che la imputa: a) all’introduzione della scuola media unica (1962); b) alla liberalizzazione degli accessi all’Università e alle varie Facoltà (1969); c) al già dilagante donmilanismo (1967); d) agli effetti deleteri dell’abbassamento degli standard dei percorsi di studio. Anche a me sembra innegabile un certo declino ma non è questa la sede appropriata per approfondirne le cause.   

3) la presenza di una infrastruttura paraschiavistica e di tipo schiavistico vero e proprio (pp. 47-48) che non riguarda solo gli immigrati ma anche i lavoratori italiani poco qualificati, stagionali e di soggetti costretti a lavorare in nero o in condizioni di totale illegalità anche per via del reclutamento fatto dai caporali (71-72). La circostanza è stata confermata dalla ministra Catalfo in occasione della presentazione del Rapporto sul mercato del lavoro[1].

Nel mercato del lavoro Ricolfi individua sette segmenti di cui il primo si riferisce a: lavoratori stagionali per lo più africani ma anche italiani per la raccolta dei pomodori, delle olive, degli agrumi, e di varie specie di frutti e ortaggi. Il secondo riguarda la prostituzione femminile per lo più straniera controllata da organizzazioni criminali più o meno strutturate. Il terzo è costituito per lo più da donne che prestano servizi alle famiglie. Risultano censite dall’INPS solo 865.000 persone, ma secondo la Fondazione Leone Moressa il settore occuperebbe circa due milioni di persone. Il quarto segmento sarebbe costituito da “dipendenti in nero, addetti a mansioni pesanti, usuranti o sgradevoli, sottopagati, licenziabili in ogni momento”.  In concreto, si tratterebbe di braccianti diversi da quelli del segmento 1, di lavoratori dell’edilizia spesso privi di contratto, di addetti alle consegne di elettrodomestici, mobili e beni pesanti. Il totale dei lavoratori occupati in questi quattro segmenti è stimato attorno ai 3 milioni di persone. Ci sono quindi posizioni lavorative border line dove non c’è un “classico rapporto di signoria” ma si “configurano ugualmente condizioni di fragilità e subordinazione estreme”. Quindi Ricolfi individua un quinto segmento: spacciatori e/o tossicodipendenti al servizio delle organizzazioni criminali che controllano la distribuzione di droghe di vario tipo e qualità. Il sesto segmento è quello dei lavoratori impiegati nella c.d. GIG economy (lavoretti con guadagni insignificanti garantiti), gestiti da un algoritmo o con contratti-capestro, pagati a cottimo a seconda del numero delle consegne e della distanza e senza tutele. Il settimo segmento è costituito da lavoratori impegnati servizi esternalizzati da enti pubblici e privati in particolare pulizia di uffici e treni, sorveglianza e portierato, trasporti, istruzione, sanità e assistenza.  Servizi affidati a imprese sociali e a cooperative del c.d. terzo settore che – in spregio di una nobile tradizione – non di rado – praticano bieco sfruttamento. Anche nel c.d. terzo settore ci sono luci e ombre[2].        

Vediamo ora quali sono i consumi opulenti degli italiani “signori”: quelli che mangiano spesso fuori e spendono 83 miliardi (dato relativo al 2017): 18 milioni in fitness che frequentano palestre, spa, centri benessere, ecc.; 55 milioni di italiani connessi con smartphone; quelli che abusano di bevande alcoliche e praticano il binge drinking (assunzione smodata di alcol); quelli (circa 16 milioni di soggetti non sempre benestanti) che spendono 107 in giochi d’azzardo pari all’incirca alla spesa sanitaria nazionale; quelli che hanno doppie e triple case; ecc.. vedi tabella di sintesi a pag. 126. In buona sostanza, Ricolfi conferma la tesi di Geminello Alvi (2006)[3] secondo cui la Repubblica è fondata non sul lavoro ma più realisticamente sulle rendite più o meno parassitarie anche se è un po’ azzardato considerare tali tutte le pensioni di vecchiaia ed anzianità. Ricolfi spiega il più alto numero (25%) di NEET in Europa anche con la tesi dei giovani “bamboccioni” che si trovano bene a casa e non fanno alcuno sforzo per uscirne e trovarsi un lavoro che consenta loro una vita autonoma.  Da un lato può essere visto come un segno di prosperità, dall’altro, di sottosviluppo culturale. Se è fondata la tesi della società signorile di massa che per l’appunto interessa il 52% degli italiani in età lavorativa, è naturale che tra di essi ci siano anche i NEET alcuni almeno in parte per necessità altri per comodità e/o per usufruire di posizioni di rendita; queste ci sono nella società e, quindi, anche nelle famiglie benestanti, quelle con reddito medio di 46 mila euro ed un patrimonio medio di 390 mila euro. Con questi dati, l’Italia demograficamente in declino (con più anziani e meno giovani) si colloca al 4° posto per patrimonio su 14 paesi membri dell’Unione europea.  

Se il “giovin signore” è quello che Ricolfi descrive a p. 161, nessuno gli ha rubato il futuro; è lui che non ci pensa; è lui l’epicureo che, nel suo piccolo, persegue il carpe diem e rimuove il futuro. È lui che non vuole uscire di casa, prende la vita così come viene. E così “scompare l’idea di aspettare, di investire in imprese che comportino un’evoluzione lenta e una fatica”[4]. Prevale la gente dalla veduta corta che quindi non è solo appannaggio dei politici.

Ma le conseguenze di una società signorile di massa, negli ultimi decenni sostenuta dall’imperante ideologia neoliberista in Europa, non si limitano ai consumi opulenti e alla ossessiva cura di sé; Ricolfi  scrive: “in una società altamente individualista, è inevitabile che la cultura civica, intesa come volontà di spendere tempo e risorse per il bene comune, finisca per appassire e, prima o poi, ci si trovi tutti a giocare in proprio  o, per dirla con la celebre analisi di Robert Putnam, a giocare a Bowling da soli”[5]. Oppure c’è lo snaturamento della condivisione che grazie agli smartphone ormai è ridotta allo scambio di foto, di tweet, di like, di fake news, ecc. Si riduce la solidarietà, aumenta il deficit di empatia, si introduce il politicamente corretto, ma nella sostanza si assiste ad un serio declino di cultura civica. Ora se un Paese, una città, una fabbrica, un ufficio è una comunità di interessi e di destino, ma se prevalgono individualismo e la veduta corta, è chiaro che il futuro del Paese viene compromesso. E le cause non sono solo le teorizzazioni della decrescita felice – già presenti negli anni 60 e 70 – né l’eccesso di normazione che avrebbero annullato i benefici del progresso tecnico (p. 208).

Qui l’analisi di Ricolfi mostra un punto di debolezza. È del 1972 il Rapporto sui Limiti dello sviluppo, commissionato nel 1968 da Aurelio Peccei del Club di Roma all’MIT e già allora c’erano le teorizzazioni di Georgescu Roegen, di Illich , di Gorz ed altri. Il tema fu toccato anche da Altiero Spinelli nel suo intervento introduttivo al Convegno di Venezia (aprile 1972) su Industria e società ma allora i sostenitori della decrescita si spingevano a dire che i paesi ricchi non dovevano cercare alti tassi di sviluppo.  Diverso il discorso successivo sulla capacità degli europei di trarre i vantaggi dal progresso tecnico. È bene rendersi conto che questo non opera o non si diffonde spontaneamente e/o autonomamente. Va implementato nelle fabbriche e negli Uffici. Sul tema si è soffermato nell’audizione al Parlamento europeo (11-09-2003) il candidato alla presidenza della Banca centrale europea Jean Claude Trichet rispondendo alla domanda di un componente della Commissione problemi economici e monetari, e dicendo che noi europei abbiamo difficoltà ad applicare le nuove tecnologie specie se prodotte altrove. E le difficoltà sono maggiori in Italia se il sistema produttivo conta circa 6 milioni di imprese, se i servizi pubblici e privati sono inefficienti, se è scarsa la capacità di studiare l’organizzazione scientifica del lavoro e di motivare le persone a dare il meglio di sé nel lavoro e nel tempo libero. Non voglio negare che ci sia un eccesso di normazione in Italia dove negli ultimi decenni è prevalsa l’idea che i problemi si risolvono approvando sempre nuove leggi senza nessuna preventiva analisi delle cause che non hanno consentito a quelle esistenti di esplicare i propri effetti, senza che nessuno si occupi della congrua e coerente applicazione di quelle nuove nel tempo che raramente coincide con quello dei governi che le hanno promosse. Se così, molte  nuove leggi non risolvono alcun problema, creano confusione circa le norme specifiche da applicare e, non di rado, ritardano le decisioni di chi deve decidere a qualsiasi livello di governo. Senza trascurare che, in non pochi casi, l’incertezza sulla normativa da applicare è un buon alibi per non assumere decisioni a volte impopolari.

Per fare un esempio che riguarda la struttura paraschiavistica ben rappresentata da Ricolfi, a me non risulta che ci sia un eccesso di normazione sul caporalato, sull’economia sommersa e sull’evasione contributiva. Il problema è che non si fanno controlli sul rispetto delle leggi e non sorprende che l’economia sommersa si aggiri attorno ai 211 miliardi pari al 12,1% del PIL nonostante i numerosi provvedimenti di incentivazione per l’emersione del sommerso.

Nella stessa linea non condivido la citazione di Giuseppe Schlitzer che chiama in causa il processo di decentramento e le leggi Bassanini del 1997 come fattore principale della brusca inversione di tendenza della produttività a parte dalla metà degli anni 90[6].

Si dà il fatto che il decentramento non solo amministrativo ma soprattutto politico mira o dovrebbe mirare alla ricerca di maggiore efficienza allocativa soprattutto nel settore pubblico. La bassa produttività delle imprese e dei servizi privati non solo della gran parte dell’industria manufatturiera non dipende dalle competenze concorrenti di cui all’art. 117 novellato e/o dall’eccesso di normazione all’interno delle aziende pubbliche e private ma dall’assenza di politiche industriali all’altezza dei problemi, dall’assenza di strutture centrali e/o periferiche che si occupino di programmazione dello sviluppo. E questo per colpa in primo luogo del governo italiano e dell’Unione europea governata da oltre tre decenni da politiche neoliberiste.

Che Francia e Belgio si avvicinino alla società signorile di massa non dipende certo dal nuovo assetto federale del Belgio che ne ha salvato l’unità. Francia e Italia non sono più né classici stati centralizzati né assetti genuinamente federali come la Germania, la Svizzera, il Canada e gli USA. Stanno in mezzo al guado e hanno abbandonato ogni seria attività di programmazione della crescita.  Che in Italia la produttività e la crescita ristagnino, a mio giudizio, dipende innanzitutto dal basso livello degli investimenti pubblici e privati in calo sistematico dagli anni 70, dalla scarsa capacità di innovazione, dalla scarsa qualità del management pubblico e privato a cui abbiamo accennato sopra. Non ultimo dalle politiche europee degli ultimi decenni che hanno individuato come principale riforma strutturale la svalutazione interna dei salari e a flessibilità del mercato del lavoro entrambe mirate a guadagnare competitività attraverso la riduzione del costo del lavoro. Dipende dalla scelta delle imprese più dinamiche di delocalizzare nei paesi dentro e fuori l’Unione sempre allo scopo di risparmiare sul costo del lavoro. Supponiamo per assurdo che la tesi di Ricolfi sia fondata, che facciamo torniamo indietro allo stato centralizzato? I primi 140 anni di storia unitaria con un uno stato centralizzato ed autoritario ci dicono che il record è negativo e per di più la scelta sarebbe antieuropea perché l’Europa vuole essere l’Europa delle regioni e, prima o poi, diventerà un assetto federale compiuto. 

Ricolfi teme che la stagnazione di produttività e crescita si trasformi in declino economico. Purtroppo non si tratta solo di temere. Se uno prende i tassi annui di variazione (%) del PIL e della domanda interna (a prezzi concatenati, anno di riferimento 2010) si vede che la media annua di crescita per il periodo 2001-2018 è pari allo 0,2 (crescita cumulata 3,8); investimenti fissi lordi una media annua del -0,4% (decrescita cumulata: -6,5%). Certo c’è ancora lo 0,2 positivo del PIL ma il calo degli investimenti non promette niente di buono[7]. Siamo in stagnazione secolare e il declino della crescita va avanti da circa 50 anni[8], prima o poi, passerà a valori tutti negativi. E, secondo me, il peggio è che non si tratta solo di declino economico, ma anche civile e culturale e, non ultimo, di etica pubblica. C’è nel paese un clima di diffusa illegalità, corruzione, familismo amorale. Declinano scuola e università e, come argomenta bene Ricolfi, c’è in azione un apparato paraschiavistico che sostiene per ora la maggioranza degli italiani che non lavora. Italiani che sono tra i popoli più vecchi del mondo e, come noto, l’invecchiamento inevitabilmente abbassa la produttività. Che cosa serve di più? La nostra classe dirigente pubblica e privata è in grado di contrastare il declino?

Note e riferimenti bibliografici

  1. Al CNEL l’11-12-2019 è stato presentato il Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione. E’ intervenuta la ministra del lavoro Catalfo che non ha negato l’esistenza della schiavitù in Italia e ha aggiunto che si stava provvedendo con il rafforzamento dei centri per l’impiego.
  2. Sul punto vedi Giovanni Moro, Contro il non profit, editori GLF Laterza, 2014.
  3. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite. Come sono cambiati il lavoro e la ricchezza degli italiani, Mondadori, Milano, 2006.
  4. L’affermazione di Ricolfi è confermata da analisi di una Indagine di AlmaLaurea secondo cui solo il 7,1% dei laureati è fondatore di un’impresa. Vedi AlmaLaurea, Laurea e imprenditorialità, Executive Summary, Dicembre 2019 in collaborazione con Dipartimento di Scienze Aziendali, Università di Bologna e UnionCamere, Roma.
  5. R.D. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon &Schuster 2000 (trad. it. Capitale sociale e individualismo, il Mulino, Bologna, 2004).
  6. Vale la pena riportare le frasi virgolettate   con le quali Schlitzer – a detta di Ricolfi – collegherebbe decentramento amministrativo e caduta della produttività: “Guarda caso proprio nel corso degli anni novanta si dà avvio a un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale dello Stato italiano. Con la legge Bassanini del marzo 1997 inizia il processo di decentramento dello Stato italiano, noto anche come ‘devolution’. Questo progetto, condiviso da tutti i partiti politici, verrà portato a termine nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione. In nessun altro paese europeo, ad eccezione del Belgio che nel 1993 è divenuto uno stato federale, si è assistito ad un processo di decentramento fiscale e amministrativo di simile portata a favore delle regioni”. Se così  Schlitzer finisce con l’ignorare che la Costituzione del 1948 prevede uno stato regionale e che, dopo quelle a statuto speciale, quelle a statuto ordinario sono state attuate nel corso degli anni 70 del secolo scorso e che la riforma del 2001 ha prodotto una redistribuzione delle competenze più rigorosa rispetto a quella originaria del 1948 che subordinava le competenze legislative delle RSO alla emanazione di leggi generali che definissero i principi generali da attuare nella materia.    Per la verità, devo dire che la citazione di Ricolfi non è del tutto corretta perché Schlitzer attribuisce la brusca inversione della produttività a metà anni 90 a concomitanza di diversi fattori anche economici. Inoltre negli anni 90 non c’è stato nessun cambiamento radicale dell’assetto istituzionale dello Stato italiano e, per la verità, neanche dopo la riforma del 2001, come noto rimasta in gran parte non attuata. 

7  Vedi Note di sintesi della presentazione del Rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno, Roma 4 novembre 2019: 13.

8 Il declino è temuto tra gli altri da Vito Tanzi nel suo libro (2015), Dal miracolo economico al declino? Una diagnosi intima, Jorge Pinto Books, New York, 2015.

Ciccarone Giuseppe e Enrico Saltari, Riforma della contrattazione o incentivi agli investimenti per far crescere la produttività, www.nelmerito.Com; 1 luglio 2008;

Saltari Enrico e Travaglini Giuseppe, Le radici del declino economico. Occupazione e produttività in Italia nell’ultimo decennio. Postfazione di Marcello Messori, Utet Università, 2006.


La legge sulla riduzione del numero dei parlamentari va bocciata.

La riduzione del numero dei parlamentari, proposta dal M5S, è oggi legge costituzionale approvata da questa maggioranza politica. Tuttavia resta una riforma vecchia che guarda al passato e non al futuro come dovrebbe.

Visto che siamo inseriti e vogliamo restare nell’Unione Europea possiamo abrogare il Senato e, al limite, il Presidente della Repubblica. Devo precisare che, da circa un quarto di secolo, siamo coinvolti in un processo di trasformazione del nostro sistema istituzionale in senso federale, e la proposta è stata sempre quella di un Senato federale. Da circa 10 anni detto processo è bloccato per via della grande crisi economica e finanziaria che, anche negli Stati federali, di norma, impone un maggior ruolo del governo federale e quindi un processo di centralizzazione. Il nuovo Piano di rilancio dell’economia europea proposto dalla Commissione europea va in questa direzione.

Anche nella riforma Renzi c’era una chiara svolta centralista perché, non avendo avuto il coraggio di mettersi contro la classe politica regionale e dei sindaci che è ben più numerosa e radicata di quella centrale attuale, in nome del superamento del bicameralismo paritario, aveva proposto qualcosa che non era un vero senato federale ma un senato con rappresentanti delle regioni e dei comuni. Un vero papocchio o una camera di serie B non eletta direttamente dai cittadini.

Vengo al mio punto centrale. Se l’Unione Europea, in fatto, è già uno stato federale in fieri e non può essere diversamente visto che abbiamo una moneta unica, una politica economica e finanziaria fortemente coordinata e sorvegliata, con consistenti sanzioni in caso di violazione delle regole fiscali, è chiaro che i compiti dei governi sub-centrali sono consistentemente ridotti anche se restano notevoli compiti di coordinamento e, quindi, i compiti legislativi potrebbero essere svolti più speditamente da una sola Camera.

 Se le costituzioni sono costruite per il futuro, bisognerebbe tener conto che nei sistemi federali veri e propri (Australia, Canada, Repubblica federale tedesca, Svizzera, USA) di norma non ci sono seconde camere né presidenti della repubblica a livello sub-centrale. Fanno eccezione gli USA, con riguardo alle prime, per via delle peculiari modalità in cui si è la Convenzione con il Compromesso di Filadelfia nel 1787 e costruito nel tempo lo Stato federale.

In un assetto istituzionale di stampo federale com’è quello europeo – in buona parte ancora da portare a compimento – la collocazione appropriata del Senato sarebbe al centro al posto dell’attuale Consiglio europeo che io considero il cancro delle istituzioni europee. Non si può costruire un vero Stato federale prevendo in capo ad esso i capi di Stato e di governo dei paesi membri che deliberano all’unanimità. E come se il governo di Roma fosse formato dai presidenti delle regioni. Immaginate quale cacofonia!

Se si tiene conto di queste esperienze e del fatto che anche nella Unione europea parte della legislazione primaria è competenza delle istituzioni comunitarie, la soluzione migliore sarebbe l’abrogazione totale del Senato e possibilmente una riduzione limitata del numero dei deputati. Dico limitata perché in Italia prevale la prassi secondo cui i problemi del paese si risolvono approvando una nuova legge e, nel nostro paese, si legifera non per principi generali ma cercando di prevedere tutte le fattispecie possibili. Missione impossibile in una società molto dinamica, nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione. Una seconda osservazione riguarda le modalità di selezione dei candidati lasciate nelle mani delle oligarchie centraliste di quelle strutture che una volta si chiamavano partiti che, in molti casi, applicavano criteri selettivi più rigorosi. Oggi per via anche del leaderismo e della personalizzazione della politica molti candidati vengono scelti sulla base della presunta fedeltà al leader. Ne consegue che, non di rado, sono scelte persone senza previa esperienza politica e/o amministrativa ai livelli sub-centrali di governo e, per lo più, incompetenti. Non è un fenomeno solo italiano; caratterizza il funzionamento dei sistemi politici a livello generale tanto da far dire a molti politologi che viviamo nell’era dell’incompetenza. “Uno vale uno” sostengono molti politici populisti. Quindi il vero problema non è la quantità dei componenti delle camere legislative o degli organi amministrativi ma la qualità, la professionalità, la specializzazione tematica e l’esperienza operativa delle persone che vanno ad animare le istituzioni.    

Sappiamo che il M5S alla democrazia rappresentativa preferisce quella diretta che però meglio si addice al livello locale e non al livello centrale e, meno ancora, al livello sovranazionale. A nulla è valso che esponenti parlamentari dei 5S nell’ottobre 2018 parteciparono a Roma ad un convegno organizzato per loro dall’Istituto svizzero proprio per illustrare loro il caso della Svizzera ritenuta da molti politologi di fama come una delle più avanzate democrazie del mondo dove a livello locale si pratica la democrazia diretta.

Oggi la proposta del M5S è legge costituzionale e, come tale, sottoposta al giudizio degli elettori. Non c’è stato molto tempo per riflettere attentamente su tutte le implicazioni negative di detta legge che in prima approssimazione riduce la rappresentanza e la rappresentatività del Parlamento. Già questa semplice considerazione, a mio giudizio, è per me motivo sufficiente per votare NO.

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Le 4-5 nuove imposte sulle quali Piketty costruirebbe il fisco europeo.

La teoria secondo cui i fallimenti dello Stato sono più gravi di quelli del mercato viene in fatto confermata dal Crollo del muro di Berlino 1989 e dall’implosione dell’Unione sovietica 1990-91 costretta ad un forte aumento della spesa per gli armamenti per rispondere a quella messa in atto da Reagan negli USA (scudo spaziale, ecc.). Piketty osserva che, in qualche modo, la Guerra fredda e, successivamente, la coesistenza pacifica ma competitiva aveva stimolato i partiti socialdemocratici a tenere in più alta considerazione i diritti sociali delle classi lavoratrici. In fondo, i c.d. trenta gloriosi (1945-75) coincidono con lo sviluppo dei sistemi welfaristi nei principali paesi dell’Europa occidentale e negli stessi paesi del blocco sovietico.  Con il crollo di quest’ultimo sistema (1990-91), i partiti socialdemocratici si convincono che la redistribuzione della ricchezza non è più la priorità o che essa poteva farsi agendo, in via principale, dal lato della spesa pubblica – in questa direzione fiancheggiati dal FMI e dalla Banca Mondiale.

L’ideologia (teoria e pratica) del mercato unico e della piena libertà dei movimenti dei capitali, delle merci, delle persone e dei servizi, l’abbandono in Europa della politica dell’armonizzazione a favore di quella della concorrenza fiscale proprio allo scopo di ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e nella società portano ad un forte aumento delle diseguaglianze dei redditi e dei patrimoni. Ai processi di massicce privatizzazioni dei patrimoni si collegano anche fenomeni molto gravi di corruzione sia ad Est che ad Ovest ma questo è solo un effetto collaterale.

Questo profondo cambiamento strutturale anche ad Occidente produce un ribaltamento nel sostegno elettorale dei partiti socialdemocratici europei. Analizzando il voto a favore delle sinistre Piketty osserva che gli elettori meno istruiti hanno smesso di votare per i partiti di sinistra. Nascono nuove categorie sociali: la sinistra intellettuale benestante e la destra mercantile. Nascono partiti c.d. social nativisti, da un lato, ad Est a causa della “pesante delusione post-comunista e anti-universalista che genera una forte deriva identitaria”, dall’altro lato, ad Ovest per via di una organizzazione economica mondiale del tutto inadeguata a gestire politiche economiche coordinate in grado di assicurare lo sviluppo sostenibile e il contenimento delle diseguaglianze crescenti. In Italia e nei paesi mediterranei l’immigrazione alimenta il social nativismo.  

A partire dagli anni 1980-90, i Trattati europei hanno codificato la concorrenza economica e fiscale tra gli Stati, da un lato, adottando una legislazione molto restrittiva sui c.d. aiuti di Stato, dall’altro, legittimando la presenza dei paradisi fiscali anche all’interno dell’eurozona. Le nuove tecnologie informatiche sono state messe al servizio dei ricchi. Volgendo lo sguardo al di là dell’Atlantico le riforme fiscali di Reagan (1986) e quella di Trump (2017)dimostrano, secondo Piketty, che i due Presidenti citati sono portatori di una ideologia mercantile nativista.

PQM Piketty rigetta l’utilizzo della categoria populismo perché i conflitti osservati in varie regioni del mondo ed in Europa sono molto complessi e multidimensionali e, come tali, non possono essere catturati dalle semplificazioni populistiche di destra e/o di sinistra. Non aiuta gran che né ad approfondire e comprendere i vari problemi né ad elaborare risposte adeguate.

La strada che Piketty suggerisce di percorrere è quella social federalista – costruendo anche un’Autorità fiscale internazionale – che dovrebbe recuperare le regole della democrazia maggioritaria a livello sovranazionale e ne detterebbe di nuove per combattere la concorrenza fiscale, l’evasione, l’elusione, il profit shifting. In via preliminare, Piketty si libera di una subordinata alla sua via social federalista: quella c.d. social localistica. Lui la definisce una trappola perché non autosufficiente in un mondo caratterizzato da forti interdipendenze economiche e finanziarie e può funzionare solo se inserita in un quadro più ampio social federalista, ossia, omogeneo. Infatti è chiaro che il vantaggio comparato dell’assetto federalista è quello di moltiplicare le sedi di partecipazione con cittadini sufficientemente attiviche si mobilitano per  far funzionare meglio il meccanismo della rappresentanza, alias, il rapporto agente-principale per cui gli agenti sotto la spinta di un maggiore controllo sociale terrebbero in maggior conto le  preferenze dei cittadini, e i loro bisogni pubblici dovrebbero risultare soddisfatti ai vari livelli di governo in maniera più efficiente ed efficace.

Personalmente non condivido l’attribuzione all’UE di uno status simile a quello di una organizzazione internazionale (1010-11). A me sembra più appropriato vedere l’attuale assetto istituzionale dell’UE più vicino al modello confederale che a quello federale a cui fa pensare il termine Unione. In ogni caso, si tratta di questione che va accertata non solo in termini di diritto formale (quello dei Trattati) ma anche in fatto. Abbiamo un mercato unico e una moneta unica meticolosamente regolamentati. Abbiamo le politiche economiche e fiscali formalmente decentrate ma anche queste fortemente regolamentate dal Patto di stabilità e crescita, come riformato nel 2011, dal Six-Pack, dal Two-Pack e dal Fiscal Compact, rectius, Trattato sulla stabilità, coordinamento e sulla governance, noto anche come Patto di bilancio. Se poi, in fatto, non si riesce a fare un effettivo ed armonico coordinamento delle politiche economiche questo non dipende dalle norme ma dall’assetto istituzionale di vertice (il Consiglio dei Capi di Stato e di governo) che politicamente non riesce ad assicurare unità di intenti.  Non ultimo tenendo presente che coordinamento non significa ricetta unica di politica economica e finanziaria.    

Questi cambiamenti strutturali nell’assetto politico istituzionale della UE aiutano a capire meglio il contesto politico-sociale su cui inserire il discorso sulla capacità fiscale da attribuire alle istituzioni centrali dell’Unione, alle modifiche da apportare ai Trattati esistenti, alle modifiche organizzative da operare nelle strutture operative necessarie a supporto e complemento di quelle dei singoli paesi membri. Non ultimo, alle previe azioni da condurre a livello internazionale ed interno per superare i vincoli stringenti che, fin qui, non hanno consentito di rendere operative le Direttive approvate e di ignorare ben 26 modifiche legislative in materia fiscale proposte dalla Commissione.

Come ho riportato nella prima recensione, per Piketty, il sistema tributario giusto per una società giusta si dovrebbe basare su tre imposte progressive: a) l’imposta progressiva sulla proprietà; b) sulle successioni; e c) quella generale sul reddito. Le prime due dovrebbero produrre un gettito pari al 5% del PIL che verrebbe utilizzato per finanziare la dotazione universale di capitale destinata ai giovani che compiono 25 anni. L’imposta progressiva sul reddito inclusiva dei contributi sociali e della carbon tax “coprirebbe” il 45% del PIL e finanzierebbe   tutte le altre spese pubbliche relative al reddito di base e al welfare. Piketty precisa che nel sistema tributario che propone non ci sono imposte indirette tranne quelle mirate a correggere esternalità negative come la citata carbon tax.

La proposta per il fisco europeo prevede di attribuire ad una Assemblea parlamentare – di cui ci occuperemo dopo – il potere di adottare 4 imposte comunitarie – e in via subordinata una 5a:

1) l’Imposta sugli utili delle società con aliquota del 15%;

2) una imposta rectius sovrimposta europea sugli alti redditi delle persone fisiche con due aliquote: 10% e 20% rispettivamente oltre i 200 e i 400 mila euro;

 3) una imposta comunitaria sui grandi patrimoni con due aliquote: 1% e 2% per patrimoni netti superiori a 1 e 5 milioni di euro;

4) imposta sulle emissioni di CO2 di 30 euro per tonnellata da rivalutare annualmente;

5) un’ulteriore imposta solo ipotizzata sulle successioni con due aliquote 10 e 20% per quote ereditate superiori a 1-2 milioni di euro.

Prospetta delle aliquote e delle cifre relative a redditi e patrimoni esemplificative per spiegare meglio la portata delle sue proposte. Le suddette aliquote si aggiungerebbero a quelle di competenza nazionale: un esempio, la sovrimposta comunitaria sugli utili societari del 15% potrebbe appoggiarsi sopra un’aliquota media a livello nazionale del 22%.

Con riguardo alla dotazione universale di capitale scrive che i giovani che in Europa, negli USA e in Cina compiono 25 anni, ogni anno, sono circa l’1,5% della popolazione adulta (in Francia circa 750-800 mila giovani su una popolazione adulta di circa 50 milioni). La dote universale verrebbe calcolata al 60% della ricchezza media per adulto, pari al 3-3,5 di reddito nazionale medio per adulto; quindi la dotazione di capitale si aggirerebbe sui 120 mila euro. Dice Piketty: “sarebbe come se tutti ricevessero una eredità”. Niente di nuovo sotto il sole, cita analoghe proposte del francese Condorcet, dell’inglese Thomas Paine – poi trapiantato in America- e altri.

Ha proposte emblematiche anche per le aliquote delle imposte sui redditi e sui patrimoni nell’ordine del 60-70% per quelli 10 volte superiori alla media; dell’80-90% per quelli oltre 100 volte superiori alla media. Si tratta di aliquote applicate per diversi decenni nel XX secolo in molti paesi ed, in particolare, negli USA e nel Regno Unito. Oggi, negli USA e in Francia, si applicano imposte sulla proprietà immobiliare nell’ordine dell’1% del valore, ma lasciando fuori la ricchezza finanziaria le prime risultano fortemente regressive sui patrimoni più piccoli.

A p. 1114, Piketty riprende l’analogia tra imposte progressive sui patrimoni netti e riforme agrarie del secondo dopoguerra quando stima in funzione illustrativa aliquote medie nell’ordine del 40-50%. Tenuto conto che a partire dagli anni 80-90 del secolo scorso i grandi patrimoni   sono cresciuti a tassi medi annui tra il 6-8% servirebbero aliquote di imposta del 5-10% per contenere o ridurre la concentrazione della ricchezza nella parte alta della sua distribuzione (1115).

Questi esercizi – ribadisce Piketty – si riferiscono a imposte progressive sui patrimoni, sui redditi e sulle quote ereditarie complessive con basi imponibili onnicomprensive dedotte le passività. In nota, per le imposte di successione, aggiunge che preferisce di evitare la tassazione del c.d. patrimonio globale del de cuius valutando, in caso di necessità, una imposta complementare su tutte le quote ereditate nel ciclo vitale. Riprende nella nota 49 p. 1116 l’esercizio numerico utilizzato sopra. 

Non c’è solo il problema dell’equilibrio dei conti pubblici ma anche quello del debito pregresso, in non pochi paesi, a livelli ritenuti troppo elevati.  Per l’ammortamento e riduzione del debito publico, Piketty non propone una mutualizzazione dei debiti attualmente in essere in testa ai PM dell’Eurozona ma un sistema che può essere utile non solo per l’Europa nel suo insieme ma anche per paesi in contesti diversi e/o a livello internazionale. La sua proposta prende le mosse da quella tedesca discussa nel 2012 sotto il titolo “Fondo europeo di redenzione del debito pubblico”. La differenza più rilevante della proposta del Nostro è che le decisioni sul da fare sono assunte dall’Assemblea parlamentare, in maniera trasparente, via via che i debiti si avvicinano alla scadenza e si deciderebbe quanta parte del debito sarebbe rifinanziato con emissioni di eurobond. Nel sistema proposto sono essenziali i conti separati “in modo che ogni paese membro continui a rimborsare il proprio debito ma a un tasso di interesse uguale per tutti”.

Per ridurre il debito pubblico Piketty ipotizza anche una imposta straordinaria sul patrimonio ma come strumento complementare non principale oppure il congelamento del DP a lungo termine con un tasso di interesse uguale o maggiore di zero come nel caso tedesco 1953 – poi del tutto cancellato nel 1991. Vedi nota 99 p. 1031

Si dice anche ottimista sul progetto dei paesi volenterosi per l’abrogazione dell’unanimità prevista in materia fiscale. E’ stato già fatto per alcuni Trattati intergovernativi che hanno creato strumenti nuovi per fronteggiare situazioni di crisi e, come noto, la Corte di giustizia UE ha avallato e salvaguardato la scelta.

Per potere prevedere dette imposte a livello europeo bisogna trovare le istituzioni legittimate a decidere superando ove quando necessario le regole automatiche previste dal Patto di stabilità e crescita e connesse direttive e regolamenti.

L’idea di Piketty e dei suoi colleghi che hanno scritto il “Progetto di trattato per la democratizzazione della governance economica della UE” (2017) è quella di costruire una sovranità parlamentare europea a partire dalle sovranità parlamentari nazionali ed affiancarla all’attuale PE che, a loro giudizio, non ha veri e propri poteri impositivi. Propone un’assemblea formata da deputati in parte (80 o 50%) eletti dai Parlamenti nazionali in proporzione alla popolazione adulta avente diritto al voto e in parte (20 o 50%) nominati dal PE. A sostegno di questa proposta richiama anche il Manifesto per la democratizzazione dell’Europa del dicembre 2018 e il lavoro collettivo di AAVV , Changer l’Europe, c’èst possible, Seuil, 2019.  Questa assemblea (anche senza deputati nominati dai Parlamenti nazionali) si sovrapporrebbe al PE soltanto per i PM che accettino di parteciparvi. Piketty preferisce la composizione al 50% ma non condivido la prima motivazione dietro detta preferenza: i parlamenti nazionali sono gli unici detentori del potere impositivo. La seconda motivazione è che, in questo modo, i parlamentari nazionali verrebbero eletti anche sulla base di forti temi europei: “la politica nazionale ne risulterebbe fortemente ‘europeizzata’”. È facile osservare che questo potrebbe essere vero solo se i candidati fossero scelti sul serio sulla base delle loro competenze sulle questioni europee e gli elettori fossero sufficientemente informati e consapevoli delle loro scelte.  Ma ci sono altri aspetti che, secondo me, rendono la proposta di democratizzazione della governance non convincente. Uno molto rilevante è che essa non tocca il ruolo del Consiglio europeo e dell’Eurogruppo: il primo costituisce una specie di cupola di tutte le altre istituzioni; il secondo non ha alcun rapporto fiduciario con la proposta assemblea ma, in fatto, ne condivide la competenza legislativa. Infatti l’art. 7 del Progetto non tocca il Consiglio dei Capi di Stato e di governo e l’Eurogruppo ed io ritengo che finché non si abrogheranno queste due istituzioni e il voto all’unanimità non si imboccherà la strada verso un assetto federale. Al contrario si consolida il modello confederale.  Ai sensi dell’art. 8 del medesimo Progetto che si occupa di convergenza e coordinamento delle politiche economiche e che prevede la Relazione del meccanismo di allerta la Commissione elabora e scrive detta relazione e l’Eurogruppo, espressione dei governi nazionali, decide se va bene o meno. Non senza osservare che la rubrica di detto art. 8 parla di convergenza e coordinamento delle politiche economiche e di bilancio mentre la convergenza dovrebbe riferirsi ai livelli di crescita economica delle diverse regioni che attualmente mantengono cospicui divari quando non li aumentano.  Secondo l’art. 13 del progetto di Trattato, Eurogruppo e l’Assemblea legiferano insieme e, in caso di disaccordo, possono ricorrere ad un Comitato di conciliazione che innescherebbe una procedura lunga sino a 18 settimane di tempo per trovare un accordo.   Anche qui non si rispetta la separazione dei poteri che è necessaria e sufficiente di un sistema democratico. L’art. 16 ridefinisce le risorse proprie con rinvio all’art. 12 che formalmente prevede solo l’imposta sugli utili delle società. L’art. 15 prevede che la proposta di bilancio sia formulata dall’Assemblea, ma poi si dice che il progetto è deliberato dall’Eurogruppo. Se così sono sempre i governi nazionali che decidono il bilancio UE. E questa è logica confederale.  Pure ammettendo che le questioni di bilancio sono complesse e, come tali, non possono essere curate attentamente dai singoli parlamentari, non si capisce perché la elaborazione del progetto di bilancio sia lasciata all’Eurogruppo che formalmente non ha strutture permanenti se non ricorre a quelle della Commissione. Stranamente i proponenti non hanno preso in considerazione il modello USA dove il Presidente ed il Congresso si avvalgono di importanti strutture di supporto che si occupano sistematicamente della elaborazione e valutazione delle politiche di bilancio.

Se negli ultimi decenni in Europa è prevalsa la linea di rafforzamento del ruolo del governo sul terreno legislativo in generale e, in particolare, in materia di leggi di bilancio, con simmetrico indebolimento del ruolo dei Parlamenti nazionali, allora la proposta in esame fatta propria da Piketty non risolverebbe il deficit democratico né a livello nazionale né a livello centrale.

Non c’è governo federale se ci sono solo il Consiglio europeo e l’Eurogruppo e se alla Commissione europea si lasciano compiti meramente istruttori e di studio dei vari problemi oltre a quelli di rappresentanza.  I proponenti del Progetto, a commento dell’art. 1, affermano che hanno voluto costruire un “patto democratico” come contraltare al “patto di bilancio” (Fiscal Compact). Non c’è contraltare se si insiste sulla convergenza delle politiche economiche, alias, ricetta unica di politica economica e finanziaria mentre ad un sistema economico di area vasta con forti squilibri territoriali si addicono politiche economiche e finanziarie differenziate in grado di rispondere adeguatamente a shock simmetrici ed asimmetrici avvalendosi anche di meccanismi di trasferimenti compensativi vari. In realtà, le loro proposte hanno fallito il compito che si erano dati perché c’è governance quando non c’è democrazia e non si può democratizzare la governance europea se non si mette mano alla riforma dei Trattati eliminando del tutto l’attuale modello incerto e confuso che non rispetta la caratteristica fondamentale di un sistema democratico: la classica separazione netta dei poteri.