Anni difficili quelli passati o quelli davanti a noi?

“Gli anni difficili – precisa il Governatore della BdI Visco nel suo bel libro “Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia” – sono quelli che sono stati certamente gli anni peggiori della storia economica d’Italia in tempi di pace”. Non solo per via delle conseguenze dannose delle due recessioni del 2009 e 2012 sull’economia, sui conti pubblici, sulle banche, sul risparmio, sulla politica monetaria, sul reddito potenziale, ma anche perché i problemi strutturali non sono stati affrontati tempestivamente. Sono stati rinviati, risolti in modo parziale e, in alcuni casi, affrontati in modo sbagliato.  

Nella prima parte il libro raccoglie le analisi di alcuni temi svolti in un’ottica di lungo periodo – scelta invero necessitata se i problemi di cui soffre il sistema Italia sono di carattere strutturale e alcuni di essi non discendono solo dall’accelerazione del processo di globalizzazione e, da ultimo, dalla crisi mondiale. Non a caso Visco riprende le tesi di Larry Summers e Bob Gordon sulla stagnazione secolare.

Il declino del paese trova anche cause lontane ma, negli ultimi 26-27 anni, vi hanno contribuito quattro grandi manovre di risanamento dei conti pubblici condotte dai governi: Amato (1992-93), Prodi1 (1997), Prodi2 (2007), Tremonti-Berlusconi-Monti (2011-12). Tutte attuate, in primo luogo, con il taglio degli investimenti pubblici anche nel settore dell’istruzione, della ricerca e della innovazione. Le parti sociali che nel 1993 hanno firmato un importante documento sulla politica dei redditi, hanno assicurato la pace sociale ma hanno subito passivamente l’idea che il problema della competitività del sistema potesse essere risolto solo con i bassi salari e non anche con una politica dell’offerta che puntasse alla innovazione di prodotto e processo delle aziende migliorando la produttività. Abbiamo avuto maggiore flessibilità ma – precisa Visco – di cattiva qualità, perché la disoccupazione è rimasta alta tranne che nel 2007 per effetto della legge Biagi. Nei primi anni novanta è stato abrogato l’intervento straordinario nel Mezzogiorno ma, tra una crisi di governo e l’altra, ci sono voluti circa cinque anni per ricollocare gli interventi a favore del Mezzogiorno nelle procedure ordinarie di bilancio. In pratica, il Sud è stato abbandonato a sé stesso e l’incapacità di programmare lo sviluppo da parte delle Regioni meridionali ha fatto il resto non riuscendo, in non pochi casi, neanche ad utilizzare in maniera appropriata neanche i fondi strutturali provenienti dall’UE. 

 Se a questo si aggiunge la sottoscrizione del Patto di stabilità come riformato nel 2011 e la sua successiva rigorosa implementazione si completa il quadro. Sul piano interno Visco richiama le colpe della politica, delle organizzazioni datoriali e dei sindacati dei lavoratori. Le colpe degli industriali: pensare che i problemi si risolvano riducendo i costi della produzione. Eppure l’Italia resta un paese ad alta propensione al risparmio anche se relativamente più bassa che nel passato. In altre parole in Italia non manca il capitale, ci sono pochi capitalisti che lo sappiano usare (B. Piccone, 2019).

Errore analogo è stato fatto dall’operatore pubblico che pensa di risolvere i problemi dell’efficienza della PA riducendone la spesa e il numero dei dipendenti pubblici, un’altra introducendo i tornelli per controllare la presenza degli addetti, un’altra ancora accelerando le procedure di licenziamento dei dirigenti e, da ultimo, memorizzando le impronte digitali e assumendo che di per sé il turn over possa migliorare la situazione. Non ci si rende conto che migliorare l’efficienza della PA implica maggiori spese per studiare una migliore organizzazione degli uffici, specializzando i dipendenti e adottando le migliori tecnologie della ICT.

Viene chiamato in causa anche il basso livello qualitativo di tutto il sistema educativo con le dovute eccezioni. Ne consegue che i lavoratori con basse qualificazioni guadagnano poco e molti entrano nelle schiere dei working poor, quelli con alte qualifiche guadagnano di più e questo contribuisce ad incrementare le diseguaglianze.  A questo riguardo (pag. 55) Visco ci ricorda che, secondo le definizioni dell’ILO, in Italia gli occupati ad alta qualifica nel 2012 raggiungevano il 30% contro il 43% in media UE e 49% nei paesi del Nord Europa. Per fare un esempio che riguarda anche l’istruzione universitaria ne viene fuori che, in un contesto di alta disoccupazione giovanile, è stata snaturata la sequenza temporale della laurea breve e di quella specialistica – quest’ultima più o meno equivalente ad un Master delle università anglosassoni. Si era accorciato il percorso di studio della vecchia laurea quadriennale per consentire ai giovani di entrare prima nel mercato del lavoro. E si era prevista la laurea specialistica soprattutto come corso di approfondimento e aggiornamento della formazione dopo qualche esperienza lavorativa. Perdurando la situazione di alta disoccupazione giovanile, la laurea c.d. specialistica viene conseguita subito dopo quella breve ma neanche essa trova sbocchi immediati nel mercato del lavoro per cui non pochi giovani che l’hanno conseguita sono costretti ad andare all’estero abbassando ancor più la percentuale citata dei giovani laureati. Risulta evidente che se l’economia non è spinta verso il pieno impiego anche giovani qualificati non trovano lavoro.

Il DEF 2019 non affronta quello che G. Pennisi (Avvenire del 13-04-2019) chiama il buco strutturale, ossia, il difficile tema delle riforme strutturali. Prevale la veduta corta. Di anno in anno i ministri si preoccupano di come fare la legge di bilancio e via. Sul resto dei problemi si affidano allo stellone.

Scrive Visco a questo riguardo: “Si è avviato un intenso programma di riforme strutturali per recuperare la fiducia dei mercati e rilanciare il potenziale di crescita dell’economia con uno spettro di interventi, che – a stadi diversi di definizione ed efficacia – spaziano dal sistema previdenziale al mercato del lavoro, dai servizi pubblici alla giustizia civile, dalla concorrenza nei servizi privati all’azione di contrasto alla corruzione e all’evasione fiscale, dal sostegno all’innovazione tecnologica a quello in favore dell’investimento in conoscenza e nuove competenze”.  Anche se nell’elenco mancano almeno un paio di riforme importanti come il recupero del gap infrastrutturale nel Mezzogiorno e la lotta alle organizzazioni criminali che prosperano nel Paese, è evidente che molte delle riforme enunciate sono state solo minimamente attuate e, spesso, con approcci contrastanti. La giustizia civile e penale resta lenta ed inefficiente perché una giustizia che arriva tardi crea incertezza e sfiducia nelle istituzioni. La lotta alla corruzione non si fa solo con la prevenzione affidata all’ANAC lasciando fuori l’Agenzia delle entrate e non ricostruendo efficienti servizi di controllo interno ed esterno nelle varie amministrazioni centrali e sub-centrali. Per non parlare dei miseri risultati della lotta all’evasione fiscale che secondo una serie storica dell’Istat resta sempre attorno al 7-8% del PIL.

L’Italia non è mai riuscita a conciliare le crisi congiunturali (di deficit nei conti pubblici e/o nella bilancia dei pagamenti) salvaguardando il processo di accumulazione che è condizione necessaria ed ineludibile per affrontare i problemi strutturali di lungo periodo (salvaguardia del processo di accumulazione, innovazione tecnologica, sistema educativo all’altezza delle trasformazioni economiche, ecc.). Dopo il miracolo economico, la prima crisi congiunturale fu soprattutto una crisi di bilancia commerciale (eccesso di importazioni). Dieci anni dopo nel 1974 si manifesta una seconda crisi ben più grave della prima. Il debito pubblico che nel 1971 era ancora attorno al 40% del Pil a fine anni 1970 balza al 55%. L’aumento degli anni ’70, a mio giudizio, è in gran parte giustificato dal crollo di Bretton Woods, dai due shocks petroliferi e dall’aumento di altre materie prime con la conseguente spirale prezzi salari messa in moto anche dalle svalutazioni competitive. Il peggio si consuma negli anni 80; alla fine del decennio, il debito è aumentato di oltre 40 punti di PIL nonostante che nel 1981 si sia deciso il c.d. divorzio tra Tesoro e Banca centrale. Un tale drammatico aumento non è dovuto solo al lassismo dei governi in materia di gestione dei conti pubblici ma anche all’avvitamento degli interessi per il servizio del debito pubblico e all’aumento dei trasferimenti alle imprese purtroppo sempre in deficit. Sino al 1981 il debito veniva finanziato con la stampa di carta moneta. Dopo, il debito veniva finanziato collocando i titoli sul mercato a tassi di interesse crescenti e per finanziare spese correnti. Anche allora c’era uno spread molto alto attorno ai 500 punti base tra fine anni 80 e inizi degli anni novanta e di cui erano al corrente solo gli addetti ai lavori. Gli anni 80 si chiudono con un tasso di crescita del 2,5% in media annua meno della metà di quello degli anni ’60.   Nonostante l’ottimismo e lo yuppismo Reaganiano, rallenta la crescita e l’accumulazione. Nella gestione dei conti pubblici non funziona la c.d. disciplina di mercato che avrebbe portato il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia per l’ovvio motivo che i mercati non sanzionano direttamente e immediatamente i comportamenti scorretti dei politici, non prescrivono regole macro-prudenziali ma reagiscono indirettamente e lentamente richiedendo tassi crescenti a fronte di rischi di solvibilità crescenti. Finché il debito appare sostenibile i mercati assorbono i titoli.   

Non solo in Italia ma anche nei principali paesi europei la sinistra accoglie i paradigmi del neoliberismo.  Si abbandona l’attività di programmazione perché si sposa la teoria dei mercati efficienti –specialmente dopo 1989-, si attua la riforma tributaria ma non si riesce a debellare l’evasione fiscale perché, a mio giudizio, non c’è la volontà di farlo sia da parte dei governi di centro-sinistra e meno ancora da parte dei governi di centro-destra che governano nella c.d. seconda Repubblica del maggioritario coatto. Io vedo una correlazione diretta tra evasione fiscale e aumento del debito pubblico. I governi italiani di centro-sinistra e centro-destra nel tempo hanno preferito chiedere ai ricchi soldi in prestito piuttosto che a titolo di imposta. E questo ha alimentato la rendita finanziaria e le diseguaglianze sociali.     

Oltre che del vincolo del debito pubblico Visco si occupa di molti altri problemi della politica e dell’economia italiana di banche, vigilanza sulle medesime, di tutela del risparmio, di educazione finanziaria, di problemi molto tecnici della politica monetaria e della sua gestione e, non ultimo, dell’investimento nel capitale umano su cui aveva già scritto un libro pubblicato nel 2014. Problemi tutti affrontati con grande competenza. Non è questa la sede per entrare nel merito di tutte le sue posizioni sui vari argomenti.

Voglio commentare velocemente due sue valutazioni su due questioni che ritengo particolarmente delicate. La prima è la questione delle regole di coordinamento delle politiche economiche dopo Maastricht e dopo l’entrata in vigore dell’euro. Visco ritiene che le regole europee sono adeguate anche dopo la riforma del Patto di stabilità e crescita del novembre 2011 accompagnato da una panoplia di regolamenti e, non ultimo, dal Trattato intergovernativo per il coordinamento delle politiche conosciuto come Fiscal Compact. La prova sta nei dati – precisa Visco – l’euro ha compiuto 20 anni ma per 15 anni dopo la sua entrata in vigore l’Italia ha gestito un deficit di bilancio = o > del 3%. Quindi il Patto, a suo giudizio, va bene con un importante caveat: in condizioni di ciclo economico più o meno regolari non a fronte di uno shock straordinario come quello determinato dalla crisi mondiale.  Ma secondo me, il punto è che il governo italiano si è avvalso della flessibilità delle regole del PSC e non della golden rule che pure c’è, sia pure in forma embrionale, ma che avrebbe impedito di utilizzare l’indebitamento per finanziare spesa corrente. Per politici dalla veduta corta questo è un comportamento prevedibile. L’eccezione ha riguardato il I governo di centro-sinistra della c.d. II Repubblica che nella seconda metà degli anni ‘90 ha gestito un avanzo primario attorno al 5% del PIL e ridotto il debito di 15 punti nel 2001 – 100%, nonostante una manovra espansiva in vista delle elezioni. Ora qui sta la difficoltà di trovare una soluzione al problema gravissimo del debito pubblico: o si torna alla crescita sostenuta (5% degli anni sessanta) cosa pressoché impossibile, oppure si dovrebbe gestire un avanzo primario pari al 4-5% per 10-15 anni – cosa altamente difficile secondo il FMI.     

La seconda valutazione riguarda le banche che in Italia costituiscono un sistema banco centrico per via dell’assenza di un solido mercato dei capitali. Negli anni più caldi della crisi le banche avevano nell’attivo oltre 400 miliardi di titoli del Tesoro e nel passivo oltre 350 miliardi di sofferenze bancarie – ora sotto i 100 miliardi. Secondo Eichengreen e Wyploz (2016) il legame tra Tesoro e banche determina un “diabolic loop” per cui un attacco speculativo contro il debito sovrano farebbe saltare le banche e, viceversa, una crisi delle banche che hanno al loro attivo molti titoli del proprio paese innescherebbe una crisi del debito sovrano. Visco scrive che il problema è il livello del debito pubblico e non quello del debito detenuto dalle banche. Secondo me, il governatore sottovaluta il problema perché come dice lui stesso è chiaro che con una riduzione del PIL del 10% e degli investimenti del 30% e la disoccupazione a due cifre, se i tassi di interesse tornano ad aumentare chi sottoscrive i titoli italiani è costretto ad assicurarsi e questo può porre al Tesoro problemi di collocamento dei titoli e anche alle banche in termini di svalutazione di quelli già in loro possesso. Collegando questo problema al completamento dell’Unione bancaria diamo un argomento in più alla Germania e ai sostenitori della sua linea di opposizione a qualsiasi mutualizzazione del debito dei paesi membri se prima non c’è una sostanziale riduzione del rischio connesso agli alti livelli del debito pubblico di alcuni Paesi Membri tra cui l’Italia. A parte il nonsense della contrapposizione tra risk reduction e risk sharing, perché non serve l’alternativa netta, ossia, una preliminare forte riduzione del rischio non richiederebbe alcuna suddivisione del rischio, è chiaro che il contrasto su questo terreno e sul bail-in blocca il processo di completamento dell’Unione economica e monetaria. È vero che dopo la crisi l’UEM si è dotata di strumenti più incisivi anche per prevenire le crisi finanziaria ma a fronte di una nuova probabile crisi dell’economia reale la governance economica della UE resta ancora in parte a corto di strumenti importanti per affrontarla specialmente nelle regioni periferiche. A fronte della necessità di una grande trasformazione dell’economia reale comunque in corso, è alto il rischio che nel futuro non lontano agli anni difficili di Visco succedano anche anni peggiori di quelli subiti dalla stragrande maggioranza dei cittadini europei. E di questi problemi come della riforma dei Trattati non si discute fin qui nella campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo.

Eichengreen, B. & Wyplosz, C. Intereconomics (2016) 51: 24. https://doi.org/10.1007/s10272-016-0569-z

Beniamino A. Piccone, L’Italia: Molti capitali, pochi capitalisti. Prefazione di Francesco Giavazzi, il Sole 24 Ore, marzo 2019;

Le idee di Rodrik per un’economia mondiale assennata.

Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, 2019

La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.

Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri.  Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei. I primi sono designati dalle potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale ed hanno potere di veto sulle azioni da intraprendere. Gli altri sono eletti dall’assemblea generale e restano in carica due anni. I membri dell’assemblea dell’ONU sono rappresentanti degli Stati e non dei popoli.

Per inciso, una breve considerazione sull’Unione europea. Un caso speciale di integrazione economica e monetaria costruita sulla base di due approcci: quello funzionale comunitario e quello intergovernativo. L’obiettivo è quello di diventare una Unione politica. Ha un parlamento regolarmente eletto ma i suoi poteri sono limitati rispetto a quelli di una grande democrazia liberale. La Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa ed è, allo stesso tempo, massimo organo esecutivo – in radicale contrasto con il principio della separazione dei poteri.  Di conseguenza la sua struttura istituzionale, come uscita dai Trattati di Lisbona, dopo la bocciatura del Trattato costituzionale, evidenzia un grosso deficit democratico al quale non si riesce a porre rimedio.  L’UE è riuscita ad assicurare ai Paesi membri un lungo periodo di pace ma non riesce a giocare un ruolo primario negli affari internazionali, nel governo della globalizzazione, nelle politiche sociali e redistributive per non parlare delle politiche di stabilizzazione a senso unico.

Come si è ingarbugliata la situazione con l’accelerazione della globalizzazione? Questa è avvenuta sotto l’egemonia della governance neoliberista, ossia, della politica tesa a delimitare l’intervento dello Stato, sull’assunto non dimostrato che i mercati siano perfettamente efficienti ed in grado di risolvere tutti i problemi che incontrano.  Intanto bisogna ricordare: 1) il crollo nell’agosto 1971 del sistema di Bretton Woods a cambi fissi e, nell’impossibilità di raggiungere un nuovo accordo tra i principali paesi del mondo, l’adozione del sistema a cambi flessibili; 2) nel 1976 il premio Nobel per l’economia veniva conferito a Milton Friedman, esponente apicale della Scuola di Chicago, un anno dopo la fine dei c.d. trenta gloriosi (1945-75) che segnano l’affermarsi del welfare State nei Paesi europei e l’inizio dei 40-45 anni vergognosi di egemonia neoliberista in Europa oltre che in America. Le idee neoliberiste trovano attuazione in Inghilterra e negli Stati Uniti rispettivamente con l’ascesa al potere di Margareth Thatcher e Ronald Reagan.  3) Prima ancora, già a partire dalla metà degli anni sessanta, in Europa era nato il c.d. mercato degli eurodollari creato principalmente dai paesi mediorientali produttori  di  petrolio, che è venuto crescendo in maniera incontrollata specie dopo i due shock petroliferi del 1973 e 1979. Il forte aumento non solo del prezzo del petrolio ma anche di altre materie prime ha posto serie difficoltà di stabilizzazione monetaria e finanziaria in molti paesi del mondo. Ricordo che gli Accordi di Bretton Woods prevedevano controlli sui movimenti di capitale in fatto mai implementati in modo efficace. Ma dopo il crollo del 1971, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la situazione non consente controlli di sorta. La risposta europea del 1992 è quella sbagliata. Nel 1992 l’UE in coerenza con la libertà di stabilimento delle imprese formalizza la piena libertà dei movimenti di capitali che l’Italia mette in atto in anticipo nel 1991. 

Nel 2008 anche i paesi avanzati si accorgono di essere vittime della globalizzazione finanziaria ma solo nel 2012 il FMI, che fino ad allora aveva contribuito a determinare il c.d. Washington Consensus, cambia posizione e chiede di stabilire nuovi controlli sui movimenti di capitale. Come osserva Rodrik con la piena libertà dei movimenti si facilita l’indebitamento, si aumentano più facilmente i consumi che gli investimenti; aumenta la instabilità finanziaria perché molti capitali si muovono liberamente nel mercato globale non necessariamente per promuovere lo sviluppo equo e sostenibile ma anche per cogliere occasioni di profitto a breve termine.  Prevale la veduta corta (shortism). 

Ma ci sono anche due conseguenze principali della globalizzazione: la prima è la concorrenza economica tra le economie avanzate e quelle in via di sviluppo. Detta concorrenza ha dei vantaggi e degli svantaggi. Favorisce i consumatori dei paesi ricchi ma danneggia i lavoratori nei limiti in cui le imprese che producono gli stessi beni importati a prezzi più bassi sono costrette a chiudere e licenziare i loro dipendenti. La seconda conseguenza è la concorrenza fiscale. In un contesto di piena libertà dei movimenti di capitale, molti paesi per attirare investimenti dall’estero abbassano le tasse sui profitti delle imprese e il che va scapito anche della possibilità di finanziare l’attuazione dei diritti sociali ed economici. Anzi è proprio questo l’obiettivo dei neoliberisti: ridurre la spesa per i welfare e l’attuazione dei diritti sociali che è aumentata a loro giudizio, a livelli insostenibili.  

Come sappiamo, due approcci sostengono la teoria del commercio internazionale: il libero scambio basato sui costi e vantaggi comparati a maggiore beneficio di tutti e il mercantilismo, ossia, il controllo da parte del governo del commercio estero per accumulare saldi commerciali positivi e massimizzare la ricchezza dei paesi più efficienti. Schematizzando: I liberisti sostengono i consumatori; i mercantilisti i produttori. Secondo Rodrik, “i liberisti e i mercantilisti possono convivere a livello globale ma la felice coesistenza è finita”.  Ricorda che tuttora il FMI considera il controllo sui liberi movimenti di capitale come “estrema ratio” anche se esso resta una premessa necessaria per la stabilità finanziaria. Anche a questo riguardo Rodrik ricorda la rilevanza dei fattori interni ai singoli paesi (approcci diversi alla regolamentazione) soprattutto per far capire che non tutti i guai vengono dalla globalizzazione. In particolare nei PVS mancano le premesse e i presupposti interni che possono assicurare la stabilità finanziaria interna. In alcuni PVS –come in Italia – ad esempio, non manca il risparmio ma il problema è che i risparmiatori non di rado preferiscono investirli in paesi maggiormente stabili.  

La situazione è complicata dal fatto che molti paesi che agiscono sulla scena mondiale si trovano in fasi di sviluppo differenziate a seconda che affrontino problemi di prima industrializzazione oppure di passaggio da fasi di industrializzazione a quella di economie terziarizzate e/o di servizi avanzati e di istituzioni politiche in grado di gestire questi passaggi.    Secondo Rodrik, in generale – anche in termini politici – puntare sui servizi non paga. Anche in Italia, ad esempio, il settore è molto frammentato e in gran parte arretrato sia nel settore privato che in quello pubblico; pesa ancora il dualismo geografico Nord-Sud, dimensionale (grandi e PM imprese); e non ultimo, quello tra zone urbane e quelle rurali. La crescita più rapida di alcuni PVS è dovuta a processi di prima industrializzazione che consentono di trasformare velocemente contadini in operai mentre passare da servizi arretrati ed inefficienti a servizi ad alta produttività richiede personale altamente qualificato, con vasta gamma di competenze, e capacità istituzionali diversificate e, quindi, formazione permanente.  Esemplare secondo Rodrik il caso indiano.  

Ci sono anche gli squilibri fondamentali nelle bilance commerciali dei diversi paesi. Più vicino a noi c’è il caso Germania che accumula grossi surplus commerciali sacrificando e non espandendo la domanda interna che beneficerebbe anche gli altri Paesi membri. Paradossalmente e per motivi diversi, anche l’Italia gestisce una bilancia commerciale attiva per alcuni punti di PIL perché la stagnazione dell’economia e della domanda interna non attiva una corrispondente domanda di beni importati.

A proposito del caso Cina, che Rodrik riprende diverse volte, a me sembra interessante il confronto tra Cina e Russia: due dittature che hanno seguito percorsi diversi nella transizione da economie a pianificazione rigida ad economie di mercato o sedicenti tali. È interessante la verifica della tesi di alcuni teorici dello sviluppo secondo cui ci sarebbe un rapporto diretto tra liberalizzazione dell’economia e della politica e, quindi, della democrazia. La Russia ha messo in atto una transizione caotica e disordinata disperdendo il più grande patrimonio pubblico della storia. La Cina è riuscita ad assicurare una transizione ordinata a scapito della liberalizzazione politica.  In occasione del quarantennale (1978-2018) delle riforme economiche avviate Deng Xiaoping,  è stato sottolineato come l’economia cinese sia cresciuta, come noto, a tassi sostenuti ma “credere che la democrazia sia lo stadio ultimo e in qualche modo naturale dello sviluppo è stato un errore”. Al contrario Xi Jinping tenta di convincere i suoi concittadini della logica opposta: è perché la Cina non è una democrazia che l’economia ha potuto svilupparsi così in fretta e ha consentito alla stragrande maggioranza dei cinesi di uscire dalla povertà. Ma si contano tuttora circa mezzo miliardo di poveri. Si tratta di uno scambio equo? Spetta ai cinesi dirlo ma non solo a loro perché come sappiamo il mondo non può assistere indifferente alla compressione dei diritti fondamentali civili e sociali ovunque ciò si verifichi.

Tornando ai liberi movimenti di capitale che spesso destabilizzano la situazione di molti paesi, servirebbe un nuovo sistema di controlli ma perché questi possano essere efficaci dovrebbero essere pervasivi e onnicomprensivi piuttosto che chirurgici e selettivi. Ma c’è un’altra complicazione da considerare: diversi paesi adottano sistemi diversi di controllo più o meno complicati e più o meno efficaci e siamo in una fase dell’economia mondiale che rende più difficile un approccio cooperativo. USA e UE hanno problemi di bassa crescita. Non hanno più la forza di dettare le regole. Trump non apprezza il multilateralismo e ripiega sugli accordi bilaterali. La Cina e l’India hanno enormi difficoltà di ricollocazione della manodopera dalle zone rurali a quelle urbane, continuano a crescere ma anche loro enfatizzano problemi di sovranità nazionale.

 Il G20 e la WTO (Organizzazione mondiale del commercio) non sembrano consapevoli di questo radicale cambiamento e della necessità di governarlo. Abbiamo detto dell’approccio del FMI ma a fronte della concorrenza fiscale e degli squilibri fondamentali nelle bilance dei pagamenti servirebbe una Tax Authority come teorizzata da Vito Tanzi e una più decisa attività di coordinamento da parte del FMI.  Sul ruolo di questa istituzione vedi articolo di Barry Eichengreen su il Sole-24 Ore del 30-08-2009 dove riassume le quattro missioni che il FMI dovrebbe perseguire per assicurare crescita sostenibile nella stabilità:

 1) assistere i paesi che per motivi interni entrano in crisi finanziaria;

2) svolgere la funzione di riserva globale utile in particolare ai paesi poveri;

3) assicurare una supervisione macro prudenziale facendo previsioni e lanciando allarmi sui rischi per la stabilità finanziaria globale;

4) mettere in guardia i paesi ricchi dai rischi connessi alle loro politiche nazionali.

Il ruolo guida di supervisore macro prudenziale, di nuovo ed in generale, non è ben visto dai paesi membri restii a cedere sovranità ad un ente multilaterale.

Nel cap. X Rodrik riprende i sette criteri che aveva elaborato nel suo libro La Globalizzazione intelligente del 2011: 1) i mercati devono essere profondamente integrati in sistemi di governance democratica in modo da consentire non solo misure di stabilizzazione finanziaria ma anche sistemi fiscali redistributivi, reti di sicurezza e programmi di previdenza sociale;

2) l’organizzazione della governance democratica”. Mi sembra difficile organizzare una governance democratica se i suoi componenti gli Stati-nazione non sono democratici;

 3) “non esiste ‘una sola via’ per la prosperità”;

 4) “i paesi hanno il diritto di proteggere le proprie regolamentazioni e istituzioni”

5) I paesi non hanno il diritto di imporre ad altri le proprie istituzioni;

6) lo scopo degli accordi economici internazionali è di stabilire norme sui traffici per gestire l’interazione fra istituzioni nazionali;

7) nell’ordine economico internazionale i paesi non democratici non possono contare sugli stessi diritti e privilegi di cui godono le democrazie.

A parte la contraddizione insita nell’accostamento di termini alternativi, una governance democratica mi sembra altamente improbabile ai livelli sovranazionali di cui ci stiamo occupando – del resto confermata dal punto settimo. Infatti è chiaro che beni pubblici globali come la stabilità finanziaria, il commercio internazionale equo, divieto e/o assenza di dumping sociale, riduzione degli squilibri fondamentali e riduzione delle diseguaglianze non possono essere forniti se non c’è un alto grado di cooperazione a livello mondiale. E lo scenario prevedibile non sembra gran che incoraggiante se uno pensa all’abbassamento del livello di cooperazione a livello nazionale per effetto delle politiche populiste e sovraniste che, contrariamente alla propaganda politica, abbassano il livello di coesione sociale.

Più che negli ultimi due capitoli dove Rodrik propone il ripensamento delle sinistre e lo Stato innovatore, il commercio internazionale equo e il ripensamento della democrazia, il cuore del problema e la risposta fondamentale quanto difficile sta alle pp. 230-32 dove Egli propone che i cittadini pensino in maniera globale: “più ognuno di noi penserà a se stesso come un individuo di mentalità cosmopolita e manifesterà al proprio governo preferenze improntate ad essa, meno avremo bisogno di rincorrere la chimera di una governance globale”. È utopia? Si ma necessaria. E non mancano esperienze concrete che elenca nelle pagine citate e altri segnali per cui lo schema potrebbe funzionare. Ne cito uno solo: siamo in una fase di grande trasformazione economica planetaria a cui partecipano non solo le grandi multinazionali ma anche piccole e medie imprese che sempre più numerose si inseriscono nelle c.d. “catene mondiali del valore”. Cresce la interdipendenza economica non solo tra i paesi che scelgono volontariamente processi di crescente integrazione ma anche tra quelli che pensano di rimanere autonomi. Questo processo ha funzionato in Europa e potrebbe funzionare anche a livello globale.    

@enzorus2020

Le idee di Rodrik per un’economia mondiale assennata.

Dani Rodrik, Dirla tutta sul mercato globale. Idee per un’economia mondiale assennata, Einaudi, 2019

La tesi principale del libro è che gli Stati nazionali hanno ancora un ruolo da giocare specialmente in termini di giustizia sociale, riduzione delle diseguaglianze e protezione dei diritti dei lavoratori. Devo dire che prima di leggere il lavoro di Rodrik ero convinto del contrario specialmente con riguardo alla posizione dei paesi membri dell’Unione europea. Dopo attenta meditazione sulle sue argomentazioni, tendo a convergere con la sua posizione. Il motivo è presto detto: intanto la globalizzazione degli ultimi decenni non è stata ben governata e la finanza rapace ha fatto il bello e il cattivo tempo. La globalizzazione implica una verticalizzazione del processo decisionale che per funzionare bene comporterebbe una riforma delle istituzioni sovranazionali. In assenza di detta riforma non si può contare su di esse per garantire a livello globale il rispetto dei diritti fondamentali, un livello essenziale di giustizia sociale, la libertà di movimento dei cittadini in cerca non solo delle libertà che sono loro negate nei paesi dove sono nati ma anche il diritto a migliorare il loro benessere emigrando.

Si tratta quindi di una soluzione di second best che non va condannata come tale ma di prendere atto che allo stato non è disponibile quella di first best. E chi sa quanto tempo bisogna ancora attendere prima di riuscire a costruirla. Come sappiamo, a livello sovranazionale, non ci sono parlamenti regolarmente eletti. E se ci sono come nell’Unione europea, ciò non significa che hanno l’ultima parola in materia di politiche sociali e redistributive. Ci sono tecnocrazie nominate da alcuni governi che non esprimono necessariamente gli interessi delle fasce più deboli dei paesi membri.  Per le istituzioni sovranazionali si parla di governance e non di organismi pienamente democratici. Nel massimo organo decisionale delle Nazioni Unite il potere è concentrato nel Consiglio di sicurezza composto da cinque membri permanenti e da dieci temporanei. I primi sono designati dalle potenze che hanno vinto la seconda guerra mondiale ed hanno potere di veto sulle azioni da intraprendere. Gli altri sono eletti dall’assemblea generale e restano in carica due anni. I membri dell’assemblea dell’ONU sono rappresentanti degli Stati e non dei popoli.

Per inciso, una breve considerazione sull’Unione europea. Un caso speciale di integrazione economica e monetaria costruita sulla base di due approcci: quello funzionale comunitario e quello intergovernativo. L’obiettivo è quello di diventare una Unione politica. Ha un parlamento regolarmente eletto ma i suoi poteri sono limitati rispetto a quelli di una grande democrazia liberale. La Commissione ha il monopolio dell’iniziativa legislativa ed è, allo stesso tempo, massimo organo esecutivo – in radicale contrasto con il principio della separazione dei poteri.  Di conseguenza la sua struttura istituzionale, come uscita dai Trattati di Lisbona, dopo la bocciatura del Trattato costituzionale, evidenzia un grosso deficit democratico al quale non si riesce a porre rimedio.  L’UE è riuscita ad assicurare ai Paesi membri un lungo periodo di pace ma non riesce a giocare un ruolo primario negli affari internazionali, nel governo della globalizzazione, nelle politiche sociali e redistributive per non parlare delle politiche di stabilizzazione a senso unico.

Come si è ingarbugliata la situazione con l’accelerazione della globalizzazione? Questa è avvenuta sotto l’egemonia della governance neoliberista, ossia, della politica tesa a delimitare l’intervento dello Stato, sull’assunto non dimostrato che i mercati siano perfettamente efficienti ed in grado di risolvere tutti i problemi che incontrano.  Intanto bisogna ricordare: 1) il crollo nell’agosto 1971 del sistema di Bretton Woods a cambi fissi e, nell’impossibilità di raggiungere un nuovo accordo tra i principali paesi del mondo, l’adozione del sistema a cambi flessibili; 2) nel 1976 il premio Nobel per l’economia veniva conferito a Milton Friedman, esponente apicale della Scuola di Chicago, un anno dopo la fine dei c.d. trenta gloriosi (1945-75) che segnano l’affermarsi del welfare State nei Paesi europei e l’inizio dei 40-45 anni vergognosi di egemonia neoliberista in Europa oltre che in America. Le idee neoliberiste trovano attuazione in Inghilterra e negli Stati Uniti rispettivamente con l’ascesa al potere di Margareth Thatcher e Ronald Reagan.  3) Prima ancora, già a partire dalla metà degli anni sessanta, in Europa era nato il c.d. mercato degli eurodollari creato principalmente dai paesi mediorientali produttori  di  petrolio, che è venuto crescendo in maniera incontrollata specie dopo i due shock petroliferi del 1973 e 1979. Il forte aumento non solo del prezzo del petrolio ma anche di altre materie prime ha posto serie difficoltà di stabilizzazione monetaria e finanziaria in molti paesi del mondo. Ricordo che gli Accordi di Bretton Woods prevedevano controlli sui movimenti di capitale in fatto mai implementati in modo efficace. Ma dopo il crollo del 1971, negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, la situazione non consente controlli di sorta. La risposta europea del 1992 è quella sbagliata. Nel 1992 l’UE in coerenza con la libertà di stabilimento delle imprese formalizza la piena libertà dei movimenti di capitali che l’Italia mette in atto in anticipo nel 1991. 

Nel 2008 anche i paesi avanzati si accorgono di essere vittime della globalizzazione finanziaria ma solo nel 2012 il FMI, che fino ad allora aveva contribuito a determinare il c.d. Washington Consensus, cambia posizione e chiede di stabilire nuovi controlli sui movimenti di capitale. Come osserva Rodrik con la piena libertà dei movimenti si facilita l’indebitamento, si aumentano più facilmente i consumi che gli investimenti; aumenta la instabilità finanziaria perché molti capitali si muovono liberamente nel mercato globale non necessariamente per promuovere lo sviluppo equo e sostenibile ma anche per cogliere occasioni di profitto a breve termine.  Prevale la veduta corta (shortism). 

Ma ci sono anche due conseguenze principali della globalizzazione: la prima è la concorrenza economica tra le economie avanzate e quelle in via di sviluppo. Detta concorrenza ha dei vantaggi e degli svantaggi. Favorisce i consumatori dei paesi ricchi ma danneggia i lavoratori nei limiti in cui le imprese che producono gli stessi beni importati a prezzi più bassi sono costrette a chiudere e licenziare i loro dipendenti. La seconda conseguenza è la concorrenza fiscale. In un contesto di piena libertà dei movimenti di capitale, molti paesi per attirare investimenti dall’estero abbassano le tasse sui profitti delle imprese e il che va scapito anche della possibilità di finanziare l’attuazione dei diritti sociali ed economici. Anzi è proprio questo l’obiettivo dei neoliberisti: ridurre la spesa per i welfare e l’attuazione dei diritti sociali che è aumentata a loro giudizio, a livelli insostenibili.  

Come sappiamo, due approcci sostengono la teoria del commercio internazionale: il libero scambio basato sui costi e vantaggi comparati a maggiore beneficio di tutti e il mercantilismo, ossia, il controllo da parte del governo del commercio estero per accumulare saldi commerciali positivi e massimizzare la ricchezza dei paesi più efficienti. Schematizzando: I liberisti sostengono i consumatori; i mercantilisti i produttori. Secondo Rodrik, “i liberisti e i mercantilisti possono convivere a livello globale ma la felice coesistenza è finita”.  Ricorda che tuttora il FMI considera il controllo sui liberi movimenti di capitale come “estrema ratio” anche se esso resta una premessa necessaria per la stabilità finanziaria. Anche a questo riguardo Rodrik ricorda la rilevanza dei fattori interni ai singoli paesi (approcci diversi alla regolamentazione) soprattutto per far capire che non tutti i guai vengono dalla globalizzazione. In particolare nei PVS mancano le premesse e i presupposti interni che possono assicurare la stabilità finanziaria interna. In alcuni PVS –come in Italia – ad esempio, non manca il risparmio ma il problema è che i risparmiatori non di rado preferiscono investirli in paesi maggiormente stabili.  

La situazione è complicata dal fatto che molti paesi che agiscono sulla scena mondiale si trovano in fasi di sviluppo differenziate a seconda che affrontino problemi di prima industrializzazione oppure di passaggio da fasi di industrializzazione a quella di economie terziarizzate e/o di servizi avanzati e di istituzioni politiche in grado di gestire questi passaggi.    Secondo Rodrik, in generale – anche in termini politici – puntare sui servizi non paga. Anche in Italia, ad esempio, il settore è molto frammentato e in gran parte arretrato sia nel settore privato che in quello pubblico; pesa ancora il dualismo geografico Nord-Sud, dimensionale (grandi e PM imprese); e non ultimo, quello tra zone urbane e quelle rurali. La crescita più rapida di alcuni PVS è dovuta a processi di prima industrializzazione che consentono di trasformare velocemente contadini in operai mentre passare da servizi arretrati ed inefficienti a servizi ad alta produttività richiede personale altamente qualificato, con vasta gamma di competenze, e capacità istituzionali diversificate e, quindi, formazione permanente.  Esemplare secondo Rodrik il caso indiano.  

Ci sono anche gli squilibri fondamentali nelle bilance commerciali dei diversi paesi. Più vicino a noi c’è il caso Germania che accumula grossi surplus commerciali sacrificando e non espandendo la domanda interna che beneficerebbe anche gli altri Paesi membri. Paradossalmente e per motivi diversi, anche l’Italia gestisce una bilancia commerciale attiva per alcuni punti di PIL perché la stagnazione dell’economia e della domanda interna non attiva una corrispondente domanda di beni importati.

A proposito del caso Cina, che Rodrik riprende diverse volte, a me sembra interessante il confronto tra Cina e Russia: due dittature che hanno seguito percorsi diversi nella transizione da economie a pianificazione rigida ad economie di mercato o sedicenti tali. È interessante la verifica della tesi di alcuni teorici dello sviluppo secondo cui ci sarebbe un rapporto diretto tra liberalizzazione dell’economia e della politica e, quindi, della democrazia. La Russia ha messo in atto una transizione caotica e disordinata disperdendo il più grande patrimonio pubblico della storia. La Cina è riuscita ad assicurare una transizione ordinata a scapito della liberalizzazione politica.  In occasione del quarantennale (1978-2018) delle riforme economiche avviate Deng Xiaoping,  è stato sottolineato come l’economia cinese sia cresciuta, come noto, a tassi sostenuti ma “credere che la democrazia sia lo stadio ultimo e in qualche modo naturale dello sviluppo è stato un errore”. Al contrario Xi Jinping tenta di convincere i suoi concittadini della logica opposta: è perché la Cina non è una democrazia che l’economia ha potuto svilupparsi così in fretta e ha consentito alla stragrande maggioranza dei cinesi di uscire dalla povertà. Ma si contano tuttora circa mezzo milioni di poveri. Si tratta di uno scambio equo? Spetta ai cinesi dirlo ma non solo a loro perché come sappiamo il mondo non può assistere indifferente alla compressione dei diritti fondamentali civili e sociali ovunque ciò si veirifichi.

Tornando ai liberi movimenti di capitale che spesso destabilizzano la situazione di molti paesi, servirebbe un nuovo sistema di controlli ma perché questi possano essere efficaci dovrebbero essere pervasivi e onnicomprensivi piuttosto che chirurgici e selettivi. Ma c’è un’altra complicazione da considerare: diversi paesi adottano sistemi diversi di controllo più o meno complicati e più o meno efficaci e siamo in una fase dell’economia mondiale che rende più difficile un approccio cooperativo. USA e UE hanno problemi di bassa crescita. Non hanno più la forza di dettare le regole. Trump non apprezza il multilateralismo e ripiega sugli accordi bilaterali. La Cina e l’India hanno enormi difficoltà di ricollocazione della manodopera dalle zone rurali a quelle urbane, continuano a crescere ma anche loro enfatizzano problemi di sovranità nazionale.

 Il G20 e la WTO (Organizzazione mondiale del commercio) non sembrano consapevoli di questo radicale cambiamento e della necessità di governarlo. Abbiamo detto dell’approccio del FMI ma a fronte della concorrenza fiscale e degli squilibri fondamentali nelle bilance dei pagamenti servirebbe una Tax Authority come teorizzata da Vito Tanzi e una più decisa attività di coordinamento da parte del FMI.  Sul ruolo di questa istituzione vedi articolo di Barry Eichengreen su il Sole-24 Ore del 30-08-2009 dove riassume le quattro missioni che il FMI dovrebbe perseguire per assicurare crescita sostenibile nella stabilità:

 1) assistere i paesi che per motivi interni entrano in crisi finanziaria;

2) svolgere la funzione di riserva globale utile in particolare ai paesi poveri;

3) assicurare una supervisione macro prudenziale facendo previsioni e lanciando allarmi sui rischi per la stabilità finanziaria globale;

4) mettere in guardia i paesi ricchi dai rischi connessi alle loro politiche nazionali.

Il ruolo guida di supervisore macro prudenziale, di nuovo ed in generale, non è ben visto dai paesi membri restii a cedere sovranità ad un ente multilaterale.

Nel cap. X Rodrik riprende i sette criteri che aveva elaborato nel suo libro La Globalizzazione intelligente del 2011: 1) i mercati devono essere profondamente integrati in sistemi di governance democratica in modo da consentire non solo misure di stabilizzazione finanziaria ma anche sistemi fiscali redistributivi, reti di sicurezza e programmi di previdenza sociale;

2) l’organizzazione della governance democratica”. Mi sembra difficile organizzare una governance democratica se i suoi componenti gli Stati-nazione non sono democratici;

 3) “non esiste ‘una sola via’ per la prosperità”;

 4) “i paesi hanno il diritto di proteggere le proprie regolamentazioni e istituzioni”

5) I paesi non hanno il diritto di imporre ad altri le proprie istituzioni;

6) lo scopo degli accordi economici internazionali è di stabilire norme sui traffici per gestire l’interazione fra istituzioni nazionali;

7) nell’ordine economico internazionale i paesi non democratici non possono contare sugli stessi diritti e privilegi di cui godono le democrazie.

A parte la contraddizione insita nell’accostamento di termini alternativi, una governance democratica mi sembra altamente improbabile ai livelli sovranazionali di cui ci stiamo occupando – del resto confermata dal punto settimo. Infatti è chiaro che beni pubblici globali come la stabilità finanziaria, il commercio internazionale equo, divieto e/o assenza di dumping sociale, riduzione degli squilibri fondamentali e riduzione delle diseguaglianze non possono essere forniti se non c’è un alto grado di cooperazione a livello mondiale. E lo scenario prevedibile non sembra gran che incoraggiante se uno pensa all’abbassamento del livello di cooperazione a livello nazionale per effetto delle politiche populiste e sovraniste che, contrariamente alla propaganda politica, abbassano il livello di coesione sociale.

Più che negli ultimi due capitoli dove Rodrik propone il ripensamento delle sinistre e lo Stato innovatore, il commercio internazionale equo e il ripensamento della democrazia, il cuore del problema e la risposta fondamentale quanto difficile sta alle pp. 230-32 dove Egli propone che i cittadini pensino in maniera globale: “più ognuno di noi penserà a se stesso come un individuo di mentalità cosmopolita e manifesterà al proprio governo preferenze improntate ad essa, meno avremo bisogno di rincorrere la chimera di una governance globale”. È utopia? Si ma necessaria. E non mancano esperienze concrete che elenca nelle pagine citate e altri segnali per cui lo schema potrebbe funzionare. Ne cito uno solo: siamo in una fase di grande trasformazione economica planetaria a cui partecipano non solo le grandi multinazionali ma anche piccole e medie imprese che sempre più numerose si inseriscono nelle c.d. “catene mondiali del valore”. Cresce la interdipendenza economica non solo tra i paesi che scelgono volontariamente processi di crescente integrazione ma anche tra quelli che pensano di rimanere autonomi. Questo processo ha funzionato in Europa e potrebbe funzionare anche a livello globale.    

@enzorus2020