La democrazia è malata terminale?

La crisi della democrazia, della politica, dei partiti strutturati di una volta, da una parte, l’affermarsi di partiti anti-sistema, di movimenti populisti in giro per il mondo e di quelli c.d. sovranisti all’interno dell’Unione europea alimentano un dibattito continuo tra costituzionalisti, politologi ed economisti che temono la degenerazione ulteriore della democrazia da Platone vista come anticamera alla tirannia o al mostro mite.
Nel 1975 avviene la svolta ideologica con il trionfo della Scuola di Chicago monetarista e neoliberista: i fallimenti dello Stato molto più gravi dei fallimenti mercato. Quindi: no alle manovre keynesiane sulla spesa pubblica in deficit per far crescere l’economia e l’occupazione perché esse producono alti deficit e alti debiti, inflazione e instabilità finanziaria. Le banche centrali devono annunciare un dato tasso della crescita monetaria e l’economia reale si deve adattare ad essa. Come sappiamo gli anni settanta del secolo scorso dopo il crollo del sistema a cambi fissi ma aggiustabili si caratterizzano per un forte conflitto distributivo tra i paesi ricchi e gli esportatori di petrolio (organizzati dall’Opec) e di altre materie prime. L’inflazione raggiunge livelli attorno al 20% e l’Italia che era rimasta indietro nell’attuazione del welfare state lo ha spinto in avanti anche con finanziamenti in deficit.
L’onda neoliberista nel 1979 raggiunge l’Inghilterra con la Thatcher e nel 1980-81 gli Stati Uniti co Reagan che aveva già guidato la California come governatore. Entrambi accreditavano l’idea che il governo grosso fosse il problema da risolvere e non la soluzione. Questo ha prodotto via via la delegittimazione dello Stato e delle istituzioni che lo compongono.
Dieci anni dopo nel 1989 arriva il crollo dell’Unione sovietica, l’Impero del male che Reagan aveva costretto ad aumentare fortemente le spese militari a danno dei consumi. Vince la corsa il sistema occidentale. Ormai le multinazionali operano su scala mondiale. I neoliberisti predicano il mantra dell’individuo miglior giudice di se stesso, alias, individualismo metodologico, dell’individuo razionale inteso come quello che massimizza il proprio interesse individuale. In sintesi un individuo che non ha bisogno delle mediazioni dei partiti e/o di altri corpi intermedi.
Per altro verso, gli effetti della globalizzazione portano alla verticalizzazione del processo decisionale verso livelli sovranazionali della c.d. governance per lo più priva di legittimazione democratica che tuttavia assume decisioni rilevanti. A livello statale resta una rappresentanza politica a cui in fatto non manca la legittimazione ma non può decidere niente di veramente importante e, quindi, va in crisi. Infatti, uno Stato nazionale di stampo ottocentesco rimane troppo piccolo per influenzare le decisioni a livello globale e troppo lontano dalla gente per capire bene i suoi bisogni. Si aggrava la crisi di identità e di legittimazione.
La reazione dei costituzionalisti più giovani è stata a livello europeo il rafforzamento del governo nazionale che nel contesto della nuova era della ICT (information e communication Technology) che ha annullato spazio e tempo dovrebbe poter decidere velocemente in linea con i tempi ragionando come se le decisioni dei governi fossero analoghe a quelle degli operatori di borsa e, soprattutto, trascurando che i tempi della democrazia sono necessariamente lunghi.
Secondo me la risposta dei costituzionalisti citati è stata sbagliata perché non ha senso decidere velocemente a livello sub-centrale se a Bruxelles i tempi medi per decisioni importanti calcolati dall’ex Presidente del Parlamento europeo Martin Schulz vanno da 2,5 a 3 anni. Vedi il suo libro: Il gigante incatenato.
È in crisi lo Stato nazionale ma allo stesso tempo non sono migliorate le istituzioni sovranazionali aggravando il loro deficit democratico. Ultima opportunità per l’Europa’ Fazi Editore, 2014, recensito in questo blog.
È subentrata la sfiducia dei cittadini confronti dello Stato nazionale e delle organizzazioni sovranazionali e questo spiega l’abbassamento della partecipazione in corso in molti Paesi occidentali a partire dagli USA. La democrazia forse non è malata terminale ma di certo non sta bene.
Ho ricordato sopra come il trionfo della Scuola monetarista e neoliberista coincida con la fine dei c.d. trenta gloriosi (1945-75) durante i quali, soprattutto nell’Europa centro-settentrionale, si afferma il c.d. compromesso socialdemocratico, ossia, il compromesso tra capitalismo e democrazia, capitalismo e diritti sociali dei lavoratori che sono alla base dell’affermazione del Welfare State. Seguono i quaranta vergognosi in cui per i motivi visti sopra si registra non solo il declino della dialettica democratica e nell’ambito della globalizzazione, la finanziarizzazione più elevata dell’economia guidata dalla finanza rapace di Wall Street. Si dice che l’economia è prevalsa sulla politica ma su entrambe domina la finanza rapace attraverso le sue agenzie di rating che sistematicamente danno le pagelle di buona condotta non solo alle grandi imprese planetarie ma anche ai governi di Paesi grandi e medi per come gestiscono le loro economie e le loro finanze pubbliche. Riempiono il vuoto lasciato dalla governance sovranazionale e dall’incapacità dei paesi industriali di coordinarsi sul serio come gruppi informali: il G7, G8, G10, G20 e Gitanti.
L’UE nell’ultimo decennio da un sogno si è trasformato in un incubo. Molti osservatori con eccesso di semplificazione attribuiscono la causa all’euro. Non è così. La vera causa è intanto la crisi prima finanziaria e poi economica prodotta dalla finanza rapace di Wall Street e i suoi complici nelle banche europee che hanno dato mutui a gogo e costruito una montagna di prodotti derivati per assicurare le loro operazioni spericolate. Durante e dopo la crisi la vera causa è stata ed è avere imposto una ricetta unica per tutti con la politica economica dell’austerità che molti non distinguono dall’euro.
Ora se questo è vero – come ritengo – è chiaro che la via di uscita non sta nel ritorno allo stato sovrano, né nell’uscita dall’euro ma nella riforma del Patto di stabilità e crescita come novellato nel 2011con il concorso diretto del Parlamento europeo. Dopo la brutta performance del Patto durante e dopo la crisi si era creato un certo consenso perché l’argomento fosse trattato nel Consiglio europeo del 28-29 giugno scorso ma purtroppo ciò non è stato possibile per via della presunta crisi migratoria agitata dal Vice-presidente del Consiglio Salvini, ossia, da parte del rappresentante di uno dei paesi membri che più degli altri hanno bisogno di tale riforma per spingere la crescita del PIL e dell’occupazione.
Il ritorno allo Stato nazionale è l’unica via possibile? No, perché come detto sopra, lo Stato nazionale è troppo piccolo per potere affrontare da solo i problemi della globalizzazione senza subire l’egemonia dei paesi grandi come continenti.
Altri legano la via uscita al rilancio del welfare europeo. Anche se la proposta non è priva di logica essa al momento appare utopistica e incongrua perché come gli analisti più attenti sanno, nonostante gli attacchi sferrati attraverso la concorrenza fiscale, il welfare dei paesi membri dell’Unione resiste ed è identificato come modello sociale europeo. Tuttalpiù si tratterebbe di armonizzare i diversi sistemi e stabilire livelli essenziali di assistenza omogenei nei vari paesi membri. La costruzione di un welfare state intestato direttamente all’Unione, anche se auspicabile in teoria, non è nell’agenda politica nonostante il Manifesto di Goterborg 17-11-2017. Infatti la Germania e i suoi alleati del Nord si oppongono decisamente a tale obiettivo per via dell’alto contenuto redistributivo dei sistemi di welfare attraverso flussi consistenti di trasferimenti solidali dai paesi ricchi a quelli poveri. E sappiamo che sé l’eurozona non funziona come dovrebbe è perché non sono stati previsti e tuttora non sono all’ordine del giorno trasferimenti compensativi per aiutare le regioni periferiche a crescere, convergere con quelle centrali, ridurre i gap di infrastrutture materiali e immateriali, migliorando produttività e competitività di dette regioni con valore aggiunto europeo ed esternalità positive per tutti. E purtroppo le nubi che si addensano sulle elezioni europee della Primavera 2019 con una probabile maggiore presenza di forze populiste e sovraniste di destra non promettono niente di buono.
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