Un governo di unità nazionale? No grazie.

Politici e giornalisti schizofrenici e faziosi propalano la proposta di Salvini e – pare anche di Renzi che poi l’ha rinviata – di un governo di unità nazionale a fronte della cattiva gestione dell’emergenza corona-virus. Il Presidente Conte è ritenuto il principale responsabile di tale presunto misfatto e, quindi, va sostituito. Sarebbe interessante vedere governare Lega e Italia Viva insieme al PD, M5S, Fratelli d’Italia e Forza Italia, se si considera che Salvini ha provocato la crisi del governo giallo-verde proprio perché, a suo dire, il governo non decideva niente ma non per colpa di Conte ma perché non andava d’accordo con il capo del M5S Di Maio e non si trovavano punti di mediazione. Non c’è dubbio che un governo di unità nazionale per ipotesi sarebbe sostenuto da una coalizione ancora più eterogenea e cioè con obiettivi programmatici largamente non convergenti. Non c’è dubbio che nell’attuale maggioranza il Presidente Conte si è guadagnato uno spazio maggiore di mediazione tra le due principali forze politiche che sostengono il suo governo. E questo preoccupa non solo Salvini e Renzi ma anche l’altro uomo forte della Lega Giorgetti che sarebbe il vero ideatore della proposta essendosi reso conto che restando fuori dal governo la Lega perderebbe consensi – come conferma un sondaggio di oggi – anche perché il suo leader non riesce ad elaborare proposte ragionevoli e fattibili né in materia di politica economica né in materia di relazioni internazionali e di rapporti interni all’Unione europea.

Accusando Conte di aver gestito male l’emergenza sanitaria si entra in netta contraddizione con il fatto che il primo responsabile di detta gestione è il ministro della sanità Speranza il quale era stato ed è apprezzato da non pochi giornalisti e commentatori italiani e, da ultimo, dalla Organizzazione mondiale della Sanità nonché dalla Commissaria europea Stella Kyriades proprio per il modello di gestione e di comunicazione adottato. Ora se si tiene conto che l’attuale governo pratica più collegialità di quanto ne praticasse il precedente anche grazie al prof.  Conte, è chiaro che il vero motivo dell’attacco dell’opposizione non è motivata solo dall’attivismo o sovraesposizione di Conte degli ultimi giorni ma soprattutto dall’idea che se il governo riesce ad uscire dall’emergenza in tempi ravvicinati la posizione del governo e del suo Presidente ne uscirebbe maggiormente consolidata.     

Due ulteriori argomenti rafforzano questa tesi: a) il dissenso con il governatore della Lombardia che ha accusato Conte di non rispettare le prerogative delle Regioni in materia di sanità; b) il collegamento che Salvini fa tra emergenza sanitaria e ulteriore ridimensionamento della crescita economica italiana quest’anno e probabilmente per trascinamento anche l’anno prossimo – propalato come disastro. Sul primo punto l’argomentazione del governatore Fontana è del tutto speciosa perché lui non può non sapere che la materia sanitaria ai sensi dell’art. 117 comma 3 è competenza concorrente e, quindi, il governo centrale è pienamente legittimato a intervenire e promuovere il coordinamento nel caso in cui le regioni si muovono in ordine sparso e, a maggior ragione, in caso di emergenza nazionale. Anche sul punto di cui alla lettera b) gli argomenti di Salvini sono del tutto infondati e strumentali. Intanto collega un fenomeno contingente (l’emergenza sanitaria) con un fenomeno strutturale di lungo termine. È assodato che per le sue dimensioni l’epidemia da Coronavirus che ha colpito la Cina avrà conseguente di livello mondiale a partire dai paesi dove il diffondersi del virus ha creato dei focolai infettivi.   Ora qualsiasi persona di buon senso – tranne Salvini – capisce che se ci sono dei focolai la prima cosa da fare è quella di circoscriverli e spegnerli. Ed è chiaro che questa operazione ha dei costi economici ma non ci sono alternative gratis. Il governo cinese ha messo in quarantena 60 milioni di persone e l’economia cinese ne risentirà in modo marcato, ma in Italia politici irresponsabili gridano al disastro economico che la scelta del governo produrrà senza ricordare che l’economia italiana non cresce come dovrebbe da circa 25 anni e i responsabili di questa situazione sono anche governi di centro-destra di cui la Lega ha fatto parte integrante. Da circa 25 assistiamo alla caduta degli investimenti pubblici e privati e le misure adottate per rilanciare la produttività sono state del tutto inadeguate e inefficaci. Quindi se l’economia italiana non cresce come dovrebbe non dipende dall’emergenza sanitaria. Una delle prove inoppugnabile sta nella caduta della produzione industriale (-2,7%) nel mese di dicembre 2019 prima che il coronavirus arrivasse in Italia. Ma come fai a spiegarlo a Salvini che non accetta il contraddittorio?

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Il difficile bilanciamento tra crescita economica e sviluppo democratico in Cina

Daniel A. Bell, Il modello Cina. Meritocrazia politica e limiti della democrazia, Prefazione di Sebastiano Maffettone, Traduzione di Gabriella Tonoli, Luiss University Press, (edizione originale della Princeton University The China Model: Political Meritocracy and the Limits of Democracy, 2015).

Oggetto del libro è riflettere in modo sistematico sul binomio democrazia e meritocrazia.

Ci sono voluti decenni per selezionare un sistema amministrativo equo ed efficiente che scelga dirigenti politici e funzionari pubblici con qualità superiori alla media.  È interessante notare subito che in Cina la stabilità del sistema economico viene valutata in senso negativo in Italia e in Europa in senso positivo. Si può avanzare l’ipotesi che in Cina prevalga la cultura della crescita economica mentre in Italia e nella UE prevalga la cultura giuridica che privilegia la stabilità e/o la cristallizzazione del sistema – probabilmente come reazione agli sconvolgimenti politici conseguenti alla fine della Guerra Fredda e alle fibrillazioni dei sistemi politici conseguenti al riemergere di forze politiche di stampo populista e sovranista.

Secondo Bell, la Cina è una cultura che impara mentre – aggiungo io – quella occidentale, negli ultimi secoli, crede di sapere tutto e di essere sempre al centro del mondo. Bell la definisce “compiacenza autocelebrativa”. I cinesi concepiscono la democrazia più in termini sostanziali che procedurali come invece fanno gli europei, in altre parole, apprezzano la democrazia per le conseguenze positive che essa comporta più che per la bontà delle regole procedurali. Una differenza di non poco conto perché spesso procedure sommarie comportano conseguenze negative.

I paesi occidentali sono democrazie elettorali che Bell confronta con il modello cinese meritocratico. Per entrare subito nel merito Bell ricorda  le quattro tirannidi della democrazia elettorale: 1) quella della maggioranza; 2) quella della minoranza come risulta lampante nel caso in cui si prescrive l’unanimità ma anche in molti altri casi in cui potenti gruppi minoritari riescono a condizionare il processo decisionale a loro favore; 3) la tirannide degli aventi diritto al voto che decidono per tutti per le generazioni future, per gli stranieri, ecc.; 4) la tirannide di individualisti competitivi che tendono a polarizzare il dibattito a danno di chi con il dialogo cerca di proporre soluzioni più armoniose delle varie posizioni e/o interessi.

Sono tre i principali capisaldi del modello cinese: democrazia elettorale in basso; sperimentazione nel mezzo; meritocrazia in alto.  Nelle democrazie elettorali innestate su società poco coese si crea una situazione nella quale discutiamo di tutto ma non siamo mai d’accordo su nulla. In ogni caso il principio “a una persona, un voto” è diventato un dogma. E tuttavia è necessario che ci sia un’alternativa. Secondo me, se non possiamo revocare il suffragio universale, forse possiamo agire sul versante di una rigorosa selezione dei candidati, degli elegibili: possono votare tutti ma si possono porre delle ragionevoli restrizioni alle candidature, magari lasciando fuori gli outsider quelli che non si sono mai occupati di politica e/o gli aspiranti dittatori dichiarati. Tema quest’ultimo ovviamente molto delicato che va a cozzare contro la libertà di pensiero. Ma il diritto al voto non può identificarsi meccanicamente con l’elettorato passivo che richiede competenza, esperienza operativa, credibilità, qualità morali, ecc. La domanda è: perché in politica chiunque (rectius i più ricchi ed i più ambiziosi) possono liberamente candidarsi quando nel settore privato ciò non è possibile? Io non posso liberamente candidarmi a dirigere una società di assicurazione, una banca, o un’impresa privata qualsiasi. E questo problema si pone sia in un sistema politico monopartitico come quello cinese ma anche e – a maggior ragione – in contesti pluripartitici competitivi. C’è evidentemente un problema di competenze da valutare e di fiducia da assegnare da parte degli azionisti. Ma il rapporto di agenzia è più difficile da attuare in un contesto allargato come quello delle elezioni nazionali e ad esempio delle elezioni dirette del Presidente degli Stati Uniti d’America. E non basta auspicare che anche gli elettori dovrebbero fare la loro parte per scegliere governanti saggi perché gioca contro l’ignoranza degli affari politici che Bell pensa di risolvere con una istruzione obbligatoria di 12-13 anni. Sappiamo che Somin non ritiene sufficiente una misura del genere perché non c’è dubbio che nell’ultimo secolo in molti paesi c’è stato un forte aumento dell’istruzione di base ma non ha prodotto gli specifici risultati auspicati perché ci sono elettori che benché meglio istruiti non hanno tempo o voglia di occuparsi di politica e ci sono gli ignoranti razionali quelli che non sapendo come valorizzare anche nelle relazioni sociali una faticosa o costosa formazione rinunciano a studiare gli affari politici. Questi ultimi sono i c.d. ignoranti razionali.  Sappiamo che in Occidente storicamente e in particolare dopo la rivoluzione americana e francese le risposte sono state quelle delle due Camere una alta ed una bassa. La prima composta di persone maggiormente adulte e qualificate in parte eletti e in parte nominate sulla base di meriti acquisiti; la seconda scelta sulla base di elezioni più o meno libere o distorte da sistemi elettorali più o meno coerenti con il principio democratico. 

In Cina ormai da alcuni millenni è prevalsa l’idea confuciana di armonia: “intrattenere relazioni sociali armoniose in famiglia, nella società, nel mondo e con la natura” e anche gli Imperatori praticavano regole meritocratiche per la selezione dei funzionari pubblici e/o le persone a cui assegnare importanti ruoli politici. Ciò posto, Bell ribadisce che lo scopo minimo della sua analisi è innanzitutto quella di desacralizzare l’ideale del binomio “una persona un voto” che la maggior parte dei costituzionalisti e politologi moderni identificano come l’essenza della democrazia elettorale.

Nel secondo capitolo Bell si occupa del problema della selezione dei buoni leader, ricorda che solo in inglese si pubblicano centinaia di libri ogni anno ma il problema non è facile da risolvere.  Il leader dovrebbe essere umile e condurre uno stile di vita modesto. In genere si tende ad assimilare il leader politico ai leader di impresa. E’ vero che alcuni politologi parlano di imprenditore politico ma sono due campi molto diversi. Nel caso dell’impresa che opera in un mercato competitivo gli obiettivi d’impresa semplificati consistono nel creare valore per gli azionisti, per il politico che opera nel c.d.  mercato politico il compito è molto più complicato perché lui non deve tener conto soltanto delle preferenze dei suoi elettori ma che di quelle degli altri elettori, di quelli che non votano degli stranieri residenti e delle generazioni future. Non bastano al politico le tre qualità individuate da Max Weber citato da Bell: 1) passione con cui dedicarsi alla causa; 2) responsabilità – co come si dice oggi l’accountability – del suo agire; 3) la fredda capacità di valutazione corretta di cose e persone. Serve l’arte del compromesso; servono competenze in materia di economia, scienza, psicologia sociale e relazioni internazionali.

Non che il modello cinese abbia risolto del tutto questi problemi. In maniera erudita Bell cita Mencio (filosofo confuciano vissuto tra il 372-289 A.C. circa) secondo cui “il vero monarca arriva ogni 500 anni” e aggiungeva che, alla sua epoca, non se n’era visto uno da 700 anni. In ogni caso, ribadisce che secondo la tradizione confuciana il politico dovrebbe avere 5 qualità: 1) autocoscienza, 2) capacità di autocontrollo; 3) motivazione, 4) empatia, e 5) abilità sociali.  Ma non bastano le sole qualità personali dei leader, servono intelligenza emotiva e il ricorso a squadre, a gruppi dirigenti non solo di uomini ma anche di donne che tendono ad essere più empatiche e meno propense ad assumere decisioni altamente rischiose.  Ma di nuovo le decisioni politiche vanno valutate in relazione ai risultati ottenuti. E riferendosi all’indice di riduzione della povertà in Cina i risultati sono veramente eccezionali. In circa trent’anni sono stati portati fuori dalla povertà circa 600 milioni di persone. Bell definisce questo il miglior risultato nella storia dell’umanità.

È ovvio che nelle democrazie contemporanee contano non solo le qualità dei leader ma anche quelle dei cittadini. Ma se gli elettori sono i migliori giudici di sé stessi, razionali e/o attenti solo ai propri interessi – come i neoliberisti cercano di far credere loro – gli esiti delle elezioni e i risultati delle politiche pubbliche non saranno tra quelli più desiderabili. Ne discende che il compito della leadership è anche quello di convincere i cittadini ad operare per il bene comune. A questo riguardo Bell ricorda che nella tradizione confuciana l’abilità oratoria non è tenuta in grande considerazione: “l’enfasi è posta sull’azione più che sulle parole, l’astuzia verbale viene vista come impedimento al coltivare la propria morale perché: 1) una lingua sciolta divorzia la mente dal cuore, 2) un discorso adulatorio mina la sincerità, 3) un discorso tronfio manca di umiltà”. Non è tutto oro quello che luccica.

Nel capitolo 3 Bell ci racconta che cosa non funziona in Cina. Pur richiamando che sotto la dinastia Han (206 A.C.- 220 D.C.) in Cina c’era il censorato – un istituto analogo a quello del tribuno del popolo a Roma – oggi scrive Bell non ci sono censori, mancano i corpi intermedi e se così si chiede chi combatte la corruzione, gli stessi corrotti? In Cina c’è una struttura parallela: lo Stato e il Partito comunista su cinque livelli territoriali: centro, provincia, la prefettura, la contea e la città. Non c’è separazione dei poteri. Mancano corpi indipendenti. Nel lontano passato in teoria si applicava la rule of avoidance per evitare il conflitto tra interessi locali e quelli nazionali e/o del bene comune. Quindi l’assenza di contrappesi e/o di controlli da parte di corpi indipendenti è la prima causa del dilagare della corruzione. La second causa dipende dalla transizione al sistema di mercato che naturalmente favorisce la ricerca di rendite di posizione e di approfittare delle opportunità che essa offre anche nel breve termine. Una terza causa viene individuata nei salari eccessivamente bassi dei funzionari pubblici. Bell cita il caso del Presidente Xi Jinping che ufficialmente guadagna solo 19 mila dollari l’anno – un salario del tutto inadeguato. Bell riferisce delle esperienze al riguardo di paesi come Singapore e Corea del Sud anche per gli standard cinesi. Il primo che viene considerato quasi un modello per la Cina ha i funzionari pubblici meglio pagati al mondo: il premier guadagna 3,1 milioni di dollari ed un funzionario a 32 anni guadagna 361 mila dollari all’anno. Cosa che ovviamente la Cina non vuole permettersi. Cita anche il caso della Korea del Sud che tra le altre misure ha adottato quelle di vietare a uomini politici e d’affari di giocare insieme al golf. Bell sembra ottimista sugli esiti della lotta alla corruzione ma è consapevole che anche quando la legge è chiara non sempre è facile farla applicare anche in ragione della dimensione del Paese e delle diversità che esso comprende.

Anche in Cina – come in Europa – i politici hanno problemi con la c.d. ricetta unica che non si addice alle diverse situazioni storiche e culturali. La misura unica come la chiamano i cinesi è motivata “con il sottodimensionamento delle istituzioni governative rispetto alle enormi dimensioni del Paese e la varietà di contesti sociali e dei loro problemi sicché quando si adotta una politica non appropriata per alcune regioni, le conseguenze sono gravi e difficili da correggere”.

La struttura parallela secondo Bell corre il rischio della cristallizzazione come in altri paesi. Per neutralizzare detto rischio formula tre raccomandazioni: a) alle elites inclini all’arroganza di essere più umili e solidali, b) di migliorare i criteri selettivi per ampliare la rappresentanza sociale, c) di differenziare i criteri di merito. Alla fine la legittimità del governo migliora “quando esso è moralmente giustificato agli occhi del popolo”. In fatto, anche attraverso sondaggi svolti con metodologie diverse i cinesi ritengono il loro governo è appropriato. Ovviamente non manca il malcontento ma questo si rivolge soprattutto ai livelli locali. Bell scrive di un apparente paradosso per cui “i cinesi professano fede nel governo democratico pur abbracciando un governo non democratico”. La legittimità del governo aumenta perché risolve i problemi della gente con la crescita economica e la riduzione della povertà ma anche perché migliora la sua capacità di gestire le crisi. Bell aggiunge che per legittimare la meritocrazia può rendersi necessaria la democrazia”.

Nel cap. IV Bell mette a confronto i tre modelli di meritocrazia democratica distinguendo per livelli di governo: 1) democrazia e meritocrazia a livello dell’elettore; 2) democrazia e meritocrazia con sperimentazioni nelle istituzioni politiche intermedie; 3) meritocrazia nel governo centrale con qualche apertura alla democrazia.

Confronta detti modelli con altre proposte storiche come quella di John S. Mill sul voto plurimo recentemente ripresa dal leader di Singapore Lee Kuan Yew; la seconda Camera di Hajeck e le proposte inglesi di riforma della Camera dei Lords; le proposte di Jiang Qing delle tre Camere. Laicamente sostiene che bisogna superare l’assunto secondo cui la “sovranità (assoluta) del popolo (sia) equivalente laico della sovranità di Dio”.  Jiang teorizza tre diverse legittimità: a) quella del cielo, alias, della volontà governante trascendentale e/o del sacro senso di moralità naturale; b) legittimità della terra fra storia e cultura; c) legittimità degli uomini che fa riferimento alla volontà popolare articolata su tre canali: 1) delle persone esemplari (“sacre”); 2) dei rappresentanti della nazione (legittimità culturale); 3) della Camera “bassa” popolare. In questo modello la I camera ha la priorità sulla II e la III. Ma la prima Camera – osserva Bell – fa riferimento a valori trascendentali controversi difficilmente accettabili anche da parte di confuciani che accolgono il confucianesimo come un’etica sociale più che religiosa (200).

Dopo aver analizzato vizi e virtù dei diversi sistemi e considerato che c’è sempre un divario più o meno ampio tra il modello ideale, quello adottato legislativamente e quello applicato e funzionante in pratica, Bell torna sul modello cinese che definisce come un capitalismo di mercato sotto l’ombrello di uno stato autoritario a partito unico che privilegia la stabilità politica.

Nelle considerazioni finali Bell sottolinea alcune disfunzioni sui tre livelli di governo. Afferma che le sperimentazioni a livello locale ed intermedio sono essenziali per formulare le migliori politiche da portare avanti a livello nazionale. Questo delicato e complesso meccanismo incontra grosse difficoltà di applicazione in contesti federali rigidi dove c’è una distribuzione rigida delle competenze come in Cina non sempre superate e superabili grazie all’esistenza del partito unico e nei sistemi federali avanzati dove ci sono preferenze disomogenee che in regimi democratici avanzati producono un sistema politico pluralistico (con più partiti). Almeno in teoria, secondo me, il problema è risolvibile con un sistema fortemente decentrato, competenze concorrenti ed una bene articolata attività di programmazione dello sviluppo a medio-lungo termine alla Ragnar Frisch che, come noto, prevedeva una continua interazione dal basso verso l’alto e dall’alto verso il basso. In fondo stiamo parlando delle buone pratiche raccomandate dall’OCSE e dall’Unione europea che alcuni Paesi membri non prendono in seria considerazione come invece dovrebbero inserendole in un adeguato contesto di programmazione di medio e lungo termine. Abbiamo citato sopra il miracolo economico che la Cina ha saputo promuovere negli ultimi 30-35 anni. Se ha potuto farlo una parte del merito va al Partito comunista cinese che di certo ha sacrificato libertà individuali e la democrazia. Interessante l’analisi di Bell secondo cui il PCC non è comunista né un partito: la stragrande maggioranza dei cinesi non sa che cos’è il marxismo-leninismo. Negli 80 milioni di aderenti c’è di tutto e di più: funzionari pubblici, imprenditori, intellettuali, componenti scelti per meriti conseguiti nei diversi settori della società cinese. Il partito – continua Bell – punta a rappresentare l’intero paese, potrebbe meglio chiamarsi Unione meritocratica cinese o, meglio ancora, Unione dei meritocratici democratici.

Sopra Bell ha ricordato che il PCC privilegia la stabilità politica. Tutto bene? No a quanto sembra a me. Nel 2018 l’Assemblea nazionale del popolo quasi all’unanimità (2963 voti su 2969) ha modificato la Costituzione eliminando la barriera dei due mandati quinquennali che era stata introdotta da Deng nel 1982. In teoria il Xi Jinping può rimanere Presidente a vita come Mao e va notato che attualmente ricopre anche le cariche di Segretario generale del PCC e di presidente della Commissione militare centrale.

Sul piano locale Pechino (con 21 milioni di abitanti) ha istituito un sistema a punti per promuovere “comportamenti etici” e scoraggiare gli “atti antisociali” come ad esempio attraversare la strada con il semaforo rosso. La municipalità di Pechino ha annunciato che entro il 2021 sarà in grado di fare la prima valutazione dell’affidabilità personale dei suoi residenti.  Poi si parla di una tessera di identità elettronica da utilizzare per consentire o vietare l’accesso a certe zone e/o edifici pubblici.  Tutte le amministrazioni locali stanno lavorando ad un c.d. “progetto di credito sociale” per cui chi si comporta bene avrà luce verde in percorsi di promozione sociale, gli altri saranno registrati in liste nere – così riferisce Guido Santevecchi corrispondente del Corriere della Sera, sulla Lettura del 9-02-2020.  Si tratta di misure adottate a fin di bene oppure al contrario per attuare un controllo sociale pervasivo che non lascia alcun margine per la privacy – parola inesistente nel mandarino secondo sociologi sinologi. E’ Orwell 1984? Si ma molto peggio grazie alle nuove tecnologie informatiche che consentono la profilazione completa anche dei desideri delle persone. Potrebbe essere il trionfo del “Capitalismo della sorveglianza” di Shoshana Zuboff ovviamente non solo in Cina e, probabilmente più avanti proprio nei paesi occidentali. C’è di che preoccuparsi.

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Note sulla società signorile di massa in Italia

Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, 2019

Ricolfi definisce la società signorile di massa: “una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano” e godono di consumi opulenti. La transizione verso la società opulenta – secondo Ricolfi – è avvenuta tra gli anni 80 e i primi 2000. Detta società si fonda su tre pilastri:

 1) enorme ricchezza reale e finanziaria; il mancato contenimento della crescita del debito pubblico che si è verificata negli anni ’80 ha contribuito ad alimentare la ricchezza finanziaria delle famiglie; successivamente l’adesione all’euro e la riduzione dei tassi di interesse ha consentito a molte famiglie di accedere a mutui a basso costo consentendo ad alcune l’acquisto di case e ad altre il raddoppio del loro patrimonio immobiliare;

 2) la distruzione della scuola e dell’Università; distruzione è termine a mio giudizio alquanto esagerato utilizzato da Ricolfi che la imputa: a) all’introduzione della scuola media unica (1962); b) alla liberalizzazione degli accessi all’Università e alle varie Facoltà (1969); c) al già dilagante donmilanismo (1967); d) agli effetti deleteri dell’abbassamento degli standard dei percorsi di studio. Anche a me sembra innegabile un certo declino ma non è questa la sede appropriata per approfondirne le cause.   

3) la presenza di una infrastruttura paraschiavistica e di tipo schiavistico vero e proprio (pp. 47-48) che non riguarda solo gli immigrati ma anche i lavoratori italiani poco qualificati, stagionali e di soggetti costretti a lavorare in nero o in condizioni di totale illegalità anche per via del reclutamento fatto dai caporali (71-72). La circostanza è stata confermata dalla ministra Catalfo in occasione della presentazione del Rapporto sul mercato del lavoro[1].

Nel mercato del lavoro Ricolfi individua cinque segmenti: lavoratori stagionali per lo più africani ma anche italiani per la raccolta dei pomodori, delle olive, degli agrumi, e di varie specie di frutti e ortaggi. Il secondo riguarda la prostituzione femminile per lo più straniera controllata da organizzazioni criminali più o meno strutturate. Il terzo è costituito per lo più da donne che prestano servizi alle famiglie. Risultano censite dall’INPS solo 865.000 persone, ma secondo la Fondazione Leone Moressa il settore occuperebbe circa due milioni di persone. Il quarto segmento sarebbe costituito da “dipendenti in nero, addetti a mansioni pesanti, usuranti o sgradevoli, sottopagati, licenziabili in ogni momento”.  In concreto, si tratterebbe di braccianti diversi da quelli del segmento 1, di lavoratori dell’edilizia spesso privi di contratto, di addetti alle consegne di elettrodomestici, mobili e beni pesanti. Il totale dei lavoratori occupati in questi quattro segmenti è stimato attorno ai 3 milioni di persone. Ci sono quindi posizioni lavorative border line dove non c’è un “classico rapporto di signoria” ma si “configurano ugualmente condizioni di fragilità e subordinazione estreme”. Quindi Ricolfi individua un quinto segmento: spacciatori e/o tossicodipendenti al servizio delle organizzazioni criminali che controllano la distribuzione di droghe di vario tipo e qualità. Il sesto segmento è quello dei lavoratori impiegati nella c.d. GIG economy (lavoretti con guadagni insignificanti garantiti), gestiti da un algoritmo o con contratti-capestro, pagati a cottimo a seconda del numero delle consegne e della distanza e senza tutele. Il settimo segmento è costituito da lavoratori impegnati servizi esternalizzati da enti pubblici e privati in particolare pulizia di uffici e treni, sorveglianza e portierato, trasporti, istruzione, sanità e assistenza.  Servizi affidati a imprese sociali e a cooperative del c.d. terzo settore che – in spregio di una nobile tradizione – non di rado – praticano bieco sfruttamento. Anche nel c.d. terzo settore ci sono luci e ombre[2].        

Vediamo ora quali sono i consumi opulenti degli italiani “signori”: quelli che mangiano spesso fuori e spendono 83 miliardi (dato relativo al 2017): 18 milioni in fitness che frequentano palestre, spa, centri benessere, ecc.; 55 milioni di italiani connessi con smartphone; quelli che abusano di bevande alcoliche e praticano il binge drinking (assunzione smodata di alcol); quelli (circa 16 milioni di soggetti non sempre benestanti) che spendono 107 in giochi d’azzardo pari all’incirca alla spesa sanitaria nazionale; quelli che hanno doppie e triple case; ecc.. vedi tabella di sintesi a pag. 126. In buona sostanza, Ricolfi conferma la tesi di Geminello Alvi (2006)[3] secondo cui la Repubblica è fondata non sul lavoro ma più realisticamente sulle rendite più o meno parassitarie anche se è un po’ azzardato considerare tali tutte le pensioni di vecchiaia ed anzianità. Ricolfi spiega il più alto numero (25%) di NEET in Europa anche con la tesi dei giovani “bamboccioni” che si trovano bene a casa e non fanno alcuno sforzo per uscirne e trovarsi un lavoro che consenta loro una vita autonoma.  Da un lato può essere visto come un segno di prosperità, dall’altro, di sottosviluppo culturale. Se è fondata la tesi della società signorile di massa che per l’appunto interessa il 52% degli italiani in età lavorativa, è naturale che tra di essi ci siano anche i NEET alcuni almeno in parte per necessità altri per comodità e/o per usufruire di posizioni di rendita; queste ci sono nella società e, quindi, anche nelle famiglie benestanti, quelle con reddito medio di 46 mila euro ed un patrimonio medio di 390 mila euro. Con questi dati, l’Italia demograficamente in declino (con più anziani e meno giovani) si colloca al 4° posto per patrimonio su 14 paesi membri dell’Unione europea.  

Se il “giovin signore” è quello che Ricolfi descrive a p. 161, nessuno gli ha rubato il futuro; è lui che non ci pensa; è lui l’epicureo che, nel suo piccolo, persegue il carpe diem e rimuove il futuro. È lui che non vuole uscire di casa, prende la vita così come viene. E così “scompare l’idea di aspettare, di investire in imprese che comportino un’evoluzione lenta e una fatica”[4]. Prevale la gente dalla veduta corta che quindi non è solo appannaggio dei politici.

Ma le conseguenze di una società signorile di massa, negli ultimi decenni sostenuta dall’imperante ideologia neoliberista in Europa, non si limitano ai consumi opulenti e alla ossessiva cura di sé; Ricolfi  scrive: “in una società altamente individualista, è inevitabile che la cultura civica, intesa come volontà di spendere tempo e risorse per il bene comune, finisca per appassire e, prima o poi, ci si trovi tutti a giocare in proprio  o, per dirla con la celebre analisi di Robert Putnam, a giocare a Bowling da soli”[5]. Oppure c’è lo snaturamento della condivisione che grazie agli smartphone ormai è ridotta allo scambio di foto, di tweet, di like, di fake news, ecc. Si riduce la solidarietà, aumenta il deficit di empatia, si introduce il politicamente corretto, ma nella sostanza si assiste ad un serio declino di cultura civica. Ora se un Paese, una città, una fabbrica, un ufficio è una comunità di interessi e di destino, ma se prevalgono individualismo e la veduta corta, è chiaro che il futuro del Paese viene compromesso. E le cause non sono solo le teorizzazioni della decrescita felice – già presenti negli anni 60 e 70 – né l’eccesso di normazione che avrebbero annullato i benefici del progresso tecnico (p. 208).

Qui l’analisi di Ricolfi mostra un punto di debolezza. È del 1972 il Rapporto sui Limiti dello sviluppo, commissionato nel 1968 da Aurelio Peccei del Club di Roma all’MIT e già allora c’erano le teorizzazioni di Georgescu Roegen, di Illich , di Gorz ed altri. Il tema fu toccato anche da Altiero Spinelli nel suo intervento introduttivo al Convegno di Venezia (aprile 1972) su Industria e società ma allora i sostenitori della decrescita si spingevano a dire che i paesi ricchi non dovevano cercare alti tassi di sviluppo.  Diverso il discorso successivo sulla capacità degli europei di trarre i vantaggi dal progresso tecnico. È bene rendersi conto che questo non opera o non si diffonde spontaneamente e/o autonomamente. Va implementato nelle fabbriche e negli Uffici. Sul tema si è soffermato nell’audizione al Parlamento europeo (11-09-2003) il candidato alla presidenza della Banca centrale europea Jean Claude Trichet rispondendo alla domanda di un componente della Commissione problemi economici e monetari, e dicendo che noi europei abbiamo difficoltà ad applicare le nuove tecnologie specie se prodotte altrove. E le difficoltà sono maggiori in Italia se il sistema produttivo conta circa 6 milioni di imprese, se i servizi pubblici e privati sono inefficienti, se è scarsa la capacità di studiare l’organizzazione scientifica del lavoro e di motivare le persone a dare il meglio di sé nel lavoro e nel tempo libero. Non voglio negare che ci sia un eccesso di normazione in Italia dove negli ultimi decenni è prevalsa l’idea che i problemi si risolvono approvando sempre nuove leggi senza nessuna preventiva analisi delle cause che non hanno consentito a quelle esistenti di esplicare i propri effetti, senza che nessuno si occupi della congrua e coerente applicazione di quelle nuove nel tempo che raramente coincide con quello dei governi che le hanno promosse. Se così, molte  nuove leggi non risolvono alcun problema, creano confusione circa le norme specifiche da applicare e, non di rado, ritardano le decisioni di chi deve decidere a qualsiasi livello di governo. Senza trascurare che, in non pochi casi, l’incertezza sulla normativa da applicare è un buon alibi per non assumere decisioni a volte impopolari.

Per fare un esempio che riguarda la struttura paraschiavistica ben rappresentata da Ricolfi, a me non risulta che ci sia un eccesso di normazione sul caporalato, sull’economia sommersa e sull’evasione contributiva. Il problema è che non si fanno controlli sul rispetto delle leggi e non sorprende che l’economia sommersa si aggiri attorno ai 211 miliardi pari al 12,1% del PIL nonostante i numerosi provvedimenti di incentivazione per l’emersione del sommerso.

Nella stessa linea non condivido la citazione di Giuseppe Schlitzer che chiama in causa il processo di decentramento e le leggi Bassanini del 1997 come fattore principale della brusca inversione di tendenza della produttività a parte dalla metà degli anni 90[6].

Si dà il fatto che il decentramento non solo amministrativo ma soprattutto politico mira o dovrebbe mirare alla ricerca di maggiore efficienza allocativa soprattutto nel settore pubblico. La bassa produttività delle imprese e dei servizi privati non solo della gran parte dell’industria manufatturiera non dipende dalle competenze concorrenti di cui all’art. 117 novellato e/o dall’eccesso di normazione all’interno delle aziende pubbliche e private ma dall’assenza di politiche industriali all’altezza dei problemi, dall’assenza di strutture centrali e/o periferiche che si occupino di programmazione dello sviluppo. E questo per colpa in primo luogo del governo italiano e dell’Unione europea governata da oltre tre decenni da politiche neoliberiste.

Che Francia e Belgio si avvicinino alla società signorile di massa non dipende certo dal nuovo assetto federale del Belgio che ne ha salvato l’unità. Francia e Italia non sono più né classici stati centralizzati né assetti genuinamente federali come la Germania, la Svizzera, il Canada e gli USA. Stanno in mezzo al guado e hanno abbandonato ogni seria attività di programmazione della crescita.  Che in Italia la produttività e la crescita ristagnino, a mio giudizio, dipende innanzitutto dal basso livello degli investimenti pubblici e privati in calo sistematico dagli anni 70, dalla scarsa capacità di innovazione, dalla scarsa qualità del management pubblico e privato a cui abbiamo accennato sopra. Non ultimo dalle politiche europee degli ultimi decenni che hanno individuato come principale riforma strutturale la svalutazione interna dei salari e a flessibilità del mercato del lavoro entrambe mirate a guadagnare competitività attraverso la riduzione del costo del lavoro. Dipende dalla scelta delle imprese più dinamiche di delocalizzare nei paesi dentro e fuori l’Unione sempre allo scopo di risparmiare sul costo del lavoro. Supponiamo per assurdo che la tesi di Ricolfi sia fondata, che facciamo torniamo indietro allo stato centralizzato? I primi 140 anni di storia unitaria con un uno stato centralizzato ed autoritario ci dicono che il record è negativo e per di più la scelta sarebbe antieuropea perché l’Europa vuole essere l’Europa delle regioni e, prima o poi, diventerà un assetto federale compiuto. 

Ricolfi teme che la stagnazione di produttività e crescita si trasformi in declino economico. Purtroppo non si tratta solo di temere. Se uno prende i tassi annui di variazione (%) del PIL e della domanda interna (a prezzi concatenati, anno di riferimento 2010) si vede che la media annua di crescita per il periodo 2001-2018 è pari allo 0,2 (crescita cumulata 3,8); investimenti fissi lordi una media annua del -0,4% (decrescita cumulata: -6,5%). Certo c’è ancora lo 0,2 positivo del PIL ma il calo degli investimenti non promette niente di buono[7]. Siamo in stagnazione secolare e il declino della crescita va avanti da circa 50 anni[8], prima o poi, passerà a valori tutti negativi. E, secondo me, il peggio è che non si tratta solo di declino economico, ma anche civile e culturale e, non ultimo, di etica pubblica. C’è nel paese un clima di diffusa illegalità, corruzione, familismo amorale. Declinano scuola e università e, come argomenta bene Ricolfi, c’è in azione un apparato paraschiavistico che sostiene per ora la maggioranza degli italiani che non lavora. Italiani che sono tra i popoli più vecchi del mondo e, come noto, l’invecchiamento inevitabilmente abbassa la produttività. Che cosa serve di più? La nostra classe dirigente pubblica e privata è in grado di contrastare il declino?

Note e riferimenti bibliografici

  1. Al CNEL l’11-12-2019 è stato presentato il Rapporto sul mercato del lavoro e la contrattazione. E’ intervenuta la ministra del lavoro Catalfo che non ha negato l’esistenza della schiavitù in Italia e ha aggiunto che si stava provvedendo con il rafforzamento dei centri per l’impiego.
  2. Sul punto vedi Giovanni Moro, Contro il non profit, editori GLF Laterza, 2014.
  3. Geminello Alvi, Una Repubblica fondata sulle rendite. Come sono cambiati il lavoro e la ricchezza degli italiani, Mondadori, Milano, 2006.
  4. L’affermazione di Ricolfi è confermata da analisi di una Indagine di AlmaLaurea secondo cui solo il 7,1% dei laureati è fondatore di un’impresa. Vedi AlmaLaurea, Laurea e imprenditorialità, Executive Summary, Dicembre 2019 in collaborazione con Dipartimento di Scienze Aziendali, Università di Bologna e UnionCamere, Roma.
  5. R.D. Putnam, Bowling Alone. The Collapse and Revival of American Community, New York, Simon &Schuster 2000 (trad. it. Capitale sociale e individualismo, il Mulino, Bologna, 2004).
  6. Vale la pena riportare le frasi virgolettate   con le quali Schlitzer – a detta di Ricolfi – collegherebbe decentramento amministrativo e caduta della produttività: “Guarda caso proprio nel corso degli anni novanta si dà avvio a un cambiamento radicale dell’assetto istituzionale dello Stato italiano. Con la legge Bassanini del marzo 1997 inizia il processo di decentramento dello Stato italiano, noto anche come ‘devolution’. Questo progetto, condiviso da tutti i partiti politici, verrà portato a termine nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione. In nessun altro paese europeo, ad eccezione del Belgio che nel 1993 è divenuto uno stato federale, si è assistito ad un processo di decentramento fiscale e amministrativo di simile portata a favore delle regioni”. Se così  Schlitzer finisce con l’ignorare che la Costituzione del 1948 prevede uno stato regionale e che, dopo quelle a statuto speciale, quelle a statuto ordinario sono state attuate nel corso degli anni 70 del secolo scorso e che la riforma del 2001 ha prodotto una redistribuzione delle competenze più rigorosa rispetto a quella originaria del 1948 che subordinava le competenze legislative delle RSO alla emanazione di leggi generali che definissero i principi generali da attuare nella materia.    Per la verità, devo dire che la citazione di Ricolfi non è del tutto corretta perché Schlitzer attribuisce la brusca inversione della produttività a metà anni 90 a concomitanza di diversi fattori anche economici. Inoltre negli anni 90 non c’è stato nessun cambiamento radicale dell’assetto istituzionale dello Stato italiano e, per la verità, neanche dopo la riforma del 2001, come noto rimasta in gran parte non attuata. 

7  Vedi Note di sintesi della presentazione del Rapporto SVIMEZ 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno, Roma 4 novembre 2019: 13.

8 Il declino è temuto tra gli altri da Vito Tanzi nel suo libro (2015), Dal miracolo economico al declino? Una diagnosi intima, Jorge Pinto Books, New York, 2015.

Ciccarone Giuseppe e Enrico Saltari, Riforma della contrattazione o incentivi agli investimenti per far crescere la produttività, www.nelmerito.Com; 1 luglio 2008;

Saltari Enrico e Travaglini Giuseppe, Le radici del declino economico. Occupazione e produttività in Italia nell’ultimo decennio. Postfazione di Marcello Messori, Utet Università, 2006.