Portare avanti quelli che sono rimasti indietro. Proposte per modelli universalistici e per un reddito di cittadinanza. Questo il logo di un interessante convegno organizzato dalle Fondazioni Nenni, Friedrich Ebert, Buozzi e dalla UIL circa un mese fa. A parte l’equivoco sul reddito di cittadinanza che è misura chiaramente universalistica, il riferimento più specifico è al reddito minimo garantito che è misura certamente selettiva ma non per questo meno giusta. È soprattutto strumento di lotta contro la povertà.
Il logo “portare avanti quelli che sono rimasti indietro” evoca il maximin di John Rawls uno dei massimi teorici della giustizia sociale il quale sosteneva a ragion veduta che ogni operazione di politica economica si legittimava in quanto contribuisse, in tutto o in parte, a migliorare la sorte dei più deboli. Politicamente è stato un liberal americano e rifuggiva dall’idea che per massimizzare il benessere dei più deboli fossero necessarie massicce operazioni di redistribuzione della ricchezza esistente. Riteneva che un lavoro dignitoso fosse strumento fondamentale della politica sociale. È il lavoro che dà più dignità del sussidio. E scegliere il lavoro come principale strumento della politica sociale è più congeniale alla missione del sindacato. E questo vale oggi in Italia perché, nel nostro paese come nell’Unione europea, è anatema ipotizzare massicce redistribuzioni del reddito specie in una fase di recessione. Infatti ci sono quattro vincoli molto stringenti che non vengono messi bene in evidenza nel dibattito sul reddito minimo garantito.
Il primo è di carattere interno. In Italia nessuno sembra volere battersi per la piena occupazione. A questo riguardo mi è sembrato emblematico l’intervento dell’on. Bruno-Bossio secondo cui non possiamo parlare di piena occupazione. Certo, la disoccupazione in Italia di recente ha toccato il 13% e per il 2015 e 2016 secondo l’Istat rimarrà attorno al 12,5%. Se poi teniamo conto che abbiamo 3,5 milioni di scoraggiati, arriviamo a circa sette milioni di persone senza lavoro. Ma se non ci poniamo la massima occupazione come obiettivo programmatico, allora siamo al suicidio politico. È vero che negli ultimi settanta anni, in Italia nessun governo ha mai raggiunto tale obiettivo ma almeno nello Schema Vanoni (1954) e nel piano Giolitti (1964) l’obiettivo fu formalmente posto. Secondo me, è vero quello che sostiene Giovanni Vecchi nel suo bel volume “Gli italiani in ricchezza e povertà”, pubblicato da il Mulino in occasione delle manifestazioni per il 150° dell’Unità del Paese, cioè, che la giustizia sociale non interessa nessuno. È sotto gli occhi di tutti il fallimento del programma garanzia giovani. È vero anche che i fautori dell’austerità alla tedesca hanno vinto, che i salari reali sono tornati ai livelli del 1999 e che, per la prima volta in 70 anni, siamo in deflazione. Raccogliamo anche gli effetti del Protocollo sulla politica dei redditi del 1993 che i sindacati non hanno saputo gestire. Dall’inverno scorso la Banca Centrale europea è stata costretta ad adottare l’allentamento monetario con l’obiettivo di riportare l’inflazione almeno al 2%.
Un secondo vincolo di carattere interno è il debito pubblico. A partire dai primi anni 70 esso è frutto di un implicito patto criminogeno tra gli evasori e i governi di questo Paese. In pratica, esso significa che i governi preferiscono chiedere ai ricchi i soldi in prestito piuttosto che prelevarli da loro a titolo definitivo. Il patto trova nuova linfa nella c.d. finanziarizzazione delle economie e nella loro globalizzazione. Come dice Piketty, se io posso guadagnare al margine il 4-5% con gli investimenti finanziari perché investire nell’economia reale? Anche se i sindacati non sono forti come nel passato e disturbano di meno, perché creare un’attività reale quando posso fare tutto alla scrivania utilizzando solo il computer? Se non hai fiducia nel futuro del tuo Paese, allora porti i soldi all’estero, ad esempio in Svizzera, dove la consulenza è molto meglio di quella che sanno dare le banche e le finanziarie italiane.
Tutto questo è favorito non solo dal regime di concorrenza fiscale instaurato nell’Unione europea non solo a causa della globalizzazione ma per precisa scelta dei governi dei paesi membri quando decisero la piena libertà dei movimenti di capitale – necessario complemento della libertà di stabilimento delle imprese e della mobilità dei lavoratori. Concorrenza economica nel mercato unico da un lato, concorrenza fiscale nel settore pubblico dall’altro, nell’impostazione neoliberista che si è affermata nella UE a partire dagli anni 80, dovevano mettere un limite stringente al progressivo aumento della spesa pubblica nei diversi paesi membri. Una delle conseguenze di tale impostazione – non sempre tenuta presente – è che bisogna abbattere il welfare state. Dall’alto della sua carica, il Presidente Draghi, di tanto in tanto, ci ricorda che il modello sociale europeo non è sostenibile. Per renderlo tale bisogna ridurre la spesa pensionistica e quella assistenziale.
È quello che tutti i governi di questi ultimi 20 anni hanno cercato di fare anche con notevole “successo” con particolare riguardo alle pensioni anche in considerazione dell’invecchiamento della popolazione. Altrettanto non possiamo dire con riguardo alla c.d. spesa assistenziale anche perché questa è al di sotto dei livelli dei paesi più avanzati. In Italia ci troviamo nella situazione del cane che si morde la coda. Negli ultimi venticinque anni e passa la crescita economica è stata bassa e decrescente sino a diventare negativa nell’ultimo decennio. Si evocano miglioramenti nella spesa per la famiglia, per i disoccupati, per una migliore formazione dei lavoratori e dei giovani ma, in fatto, le migliori intenzioni si infrangono sugli scogli della scarsità delle risorse e dei vincoli di bilancio.
Una prima domanda che si pone è: un welfare generoso è compatibile con la stagnazione e/o bassa crescita economica? La riposta è ovviamente negativa. Infatti con un reddito medio pro-capite decrescente, secondo il paradigma dominante, è gioco forza ridurre la spesa pubblica. Ci sarebbe o c’è un problema di sostenibilità economico-finanziaria. Ma l’Italia è uno dei paesi più ricchi del mondo quanto a patrimonializzazione. Allora la domanda che bisogna porsi è la seguente: è proprio vero che l’unica risposta possibile sia quella della riduzione della spesa pubblica? La mia risposta è negativa. C’è un’altra strada da percorrere ed è quella del rilancio della crescita e dell’occupazione. Ma prima di illustrare questo punto, dobbiamo porci un’altra domanda: un welfare generoso è compatibile con un alto debito pubblico? No, perché, come ci insegna la Svezia, un’alta spesa sociale comporta un’alta pressione tributaria. In Italia questa è già molto alta per i lavoratori dipendenti per via della massiccia evasione fiscale perpetrata da imprenditori, lavoratori autonomi e rentiers. Se la pressione tributaria è molto alta diventa molto delicato il problema dell’evasione fiscale. Non c’è giustizia tributaria e questa è parte integrante e strumento importante della giustizia sociale. E deve chiaro che le risorse per finanziare ed attuare l’assistenza sociale non possono venire dall’indebitamento ma dalla ordinaria fiscalità generale.
Ora è chiaro che più alto è il numero dei senza lavoro, più alto è il numero dei poveri assoluti e più alto è il costo del finanziamento del reddito minimo garantito e degli altri strumenti di lotta alla povertà. Ben più alto dei 15-16 miliardi stimati nella proposta del Movimento5stelle. C’è chi parla di 70 miliardi, chi di 100 e chi addirittura di 170 miliardi. Una cosa è certa. I modelli universalistici sono i più costosi e quelli selettivi sono una necessità e, allo stesso tempo, i più complicati da attuare perché bisogna tener conto delle specifiche e diverse situazioni di bisogno ed avere una precisa scala delle priorità su cui non sembra esserci accordo neanche tra coloro che concordano nel progetto generale di lotta alla povertà. Bisogna ad esempio scegliere se l’unità beneficiaria deve essere l’individuo o la famiglia. Bisogna scegliere se affrontare prima la questione del lavoro o quella dell’assistenza o entrambe allo stesso tempo. Sappiamo infatti che dal 2007 al 2013 il numero delle famiglie in povertà assoluta si è raddoppiato e interessa 6 milioni di persone. Supposto pure che si riuscisse nel medio termine a dimezzare il numero dei disoccupati, rimarrebbero da assistere adeguatamente 10-11 milioni di persone. Un numero consistentemente più alto della somma attuale di disoccupati e inoccupati (7 milioni circa). Se tengo conto che per affrontare il problema dei working poor non basta solo l’integrazione del reddito ma bisogna investire consistentemente anche nella formazione permanente, allora mi sembra chiaro che servono non solo le integrazioni del reddito per raggiungere la soglia della povertà ma anche la rivalutazione degli assegni familiari, il sussidio casa, i fondi per l’assistenza i disabili e quant’altro.
Se, non ultimo, tengo conto che la povertà si concentra al Sud dove tocca punte del 24% della popolazione; che il tasso di partecipazione femminile in Italia è più basso che in molti paesi europei; che la disoccupazione giovanile è la più alta; che nel Sud ci sono le pensioni più basse e che – come se non bastasse – è in corso un processo di desertificazione industriale non contrastata dall’attuale governo che non ha una politica economica adeguata per il Mezzogiorno. Tito Boeri e Paola Monti tempo fa hanno analizzato i probabili effetti della proposta del Movimento5stelle e hanno concluso i maggiori beneficiari sarebbero le famiglie e/o le persone residenti nel Mezzogiorno. Tenuto conto che negli ultimi anni il Sud non ha ottenuto una proporzionale rappresentanza nel governo, questa circostanza mi fa concludere in termini pessimistici perché, di nuovo, il governo non solo non ha una politica per l’occupazione né tanto meno una politica per la giustizia sociale. Si è affidato per motivi elettorali al bonus degli 80 euro in violazione di ogni seria priorità di effettivo bisogno e al Jobs Act per soddisfare la domanda dei settori più retrivi dell’imprenditoria.
E tuttavia, a fronte della forte concentrazione dei redditi e dei patrimoni, in un contesto in cui la classe media si impoverisce, e i poveri diventano sempre più poveri, resto convinto che bisogna lavorare perché il governo adotti una politica economica di forte rilancio della crescita e dell’occupazione attraverso un serio programma di investimenti pubblici e privati. Volente o nolente la Commissione europea, il governo dovrebbe finanziare gli investimenti a debito sfruttando i bassi tassi e la sua credibilità sui mercati. Nei limiti in cui la nuova politica economica avesse successo, si ridurrebbe anche il fabbisogno per la politica sociale. Secondo me, la scelta dell’approccio selettivo è obbligata e l’assoluta priorità dovrebbe andare ai più deboli a qualsiasi categoria professionale essi appartengano. Il mio pessimismo circa la capacità del governo Renzi di affrontare la questione sociale non è invocazione dell’inerzia. La questione sociale è molto critica e rischia di diventare esplosiva. Secondo la teoria sociale e la dottrina sociale della Chiesa, la missione del governo è la giustizia sociale. O questo governo si decide ad affrontarla o, per quanto mi riguarda, è meglio che si dimetta e che si vada alle elezioni.
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